Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

L’arte della conversazione. Alla ricerca del sacrificio perduto: da Tylor a Freud (1870-1913)

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Abstract

Theories of religion, which appeared in the second half of the Nineteenth century, focused their attention on the analysis of sacrifice. The theorizing process that is so distinctive of this period contributed to define a number of relevant concepts that exerted a relevant influence in the Twentieth century. This article aims to illustrate the path which led to relevant theories of sacrifice unearthing the conversation among some scholars and intellectuals of different European countries whose work contributed to the rise and institutionalization of new disciplinary fields: sociology, anthropology, ethnology, history of religions, psychoanalysis.

Rileggere di classici

In un agevole testo dedicato al sacrificio, lo storico delle religioni Cristiano Grottanelli tributava al grande e controverso studioso rumeno Mircea Eliade (1907-1986) e allo studioso italiano di origine ungherese, Angelo Brelich (1913-1977), il primato di una riflessione teorica e una ricerca storica in cui la nozione di sacrificio era emersa distintamente nella seconda metà del Novecento. Nella riflessione di Eliade si può parlare di esaltazione della nozione di sacrificio, concepito come morte vivificante, attraverso il quale sono realizzati elementi dell’ordine mondano e cosmico (nota è la sua interpretazione della leggenda di Mastro Manole diffusa nelle culture tradizionali dell’Europa orientale). Orientato da una prospettiva storicista, Angelo Brelich intende il sacrificio come una forma di scambio secondo linee di tipo evolutivo: una offerta primiziale (in cui si restituisce ciò che appartiene alla sfera sovra-umana), una offerta-dono che presuppone l’idea di proprietà privata, una comunione, con cui l’uomo condivide parti del sacrificio con le divinità. Non particolarmente originale, questa tipologia riprende vecchi modelli ma è più attenta a storicizzare l’azione rituale, pur rimanendo ancorata ad una prospettiva evoluzionista (Grottanelli 1999, 13).

L’intento del mio contributo è diverso e, rispetto a quello di Grottanelli, si indirizza ad una presentazione delle teorie del sacrificio emerse nei primi grandi classici sulle religioni che possono essere definiti modernisti, apparsi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Questi testi sono elaborati in epoca di acquisizioni scientifiche significative e trasformazioni politiche, sociali e culturali che hanno segnato i sistemi religiosi esistenti, sottoposti alle pressioni di correnti intellettuali anti-religiose le quali, a loro volta, hanno innescato processi di resistenza e adattamento [1].

I materiali sul sacrificio sono caratterizzati da una serie di riferimenti intertestuali che permettono di ricostruire questo dibattito come una riflessione a molte voci, con rimandi e critiche, proposte e innovazioni. Si tratta di autori vincolati al grande progetto della modernità otto-novecentesca, fondatori di discipline umanistiche e di scienze sociali innovative, riformatori sociali e attivisti politici. I loro nomi sono abbastanza noti: Edward Burnett Tylor, William Roberston Smith, James Frazer, David Émile Durkheim, Marcel Mauss, Henri Hubert, Sigmund Freud.

Pur con intensità diversa, questi studiosi riflettono anche una geografia intellettuale che si colloca nelle grandi istituzioni scientifiche inglesi, francesi, tedesche e asburgiche (coi loro imperi coloniali) e, se pure con modalità differenti e che non incidono nell’economia analitica di questo articolo, statunitensi [2]. Sono, a loro modo, critici della tradizione religiosa e, in particolare, delle forme di religione istituzionale, non di rado percepita come una forza sociale opprimente e talvolta reazionaria ma con cui il dialogo è inevitabile. La loro collocazione sociale rispetto alle religioni istituzionalizzate è fondamentale per capire quale ruolo abbiano svolto: sono critici o guardiani, «critics or caretakers», per usare una terminologia introdotta nel dibattito scientifico americano? (McCutcheon 2001, ripreso da Strenski 2015). Sono riformatori o distruttori? Vedremo che la risposta a queste domande è quantomai complessa e non univoca.

Oltre a definire il contenuto della religione, questi intellettuali sono spesso associati alle prime teorie sulle origini del sacrificio, non di rado ancorate alle prospettive evoluzioniste forgiate nel corso dell’Ottocento, debitrici delle scoperte rivoluzionarie di Charles Darwin (Ackerman 2002; Kippenberg 2002; Ambasciano 2019) e delle prospettive filosofiche di tipo evoluzionista progressista, non necessariamente darwiniane.

Il disvelamento dei meccanismi di funzionamento del sacrificio fornisce – secondo alcuni autori – l’accesso alla comprensione esaustiva della religione [3]. Nella pratica sacrificale si celano rapporti sociali ed economici, meccanismi di funzionamento della memoria culturale e religiosa, modalità di narrazione del racconto mitico e tecniche della produzione e riproduzione del “sacro”, un concetto centrale nella riflessione di Émile Durkheim (1912). Infine, come hanno mostrato diversi studiosi, le teorie sul sacrificio sono potenzialmente capaci di svelare i profondi conflitti e i grandi dibattiti religiosi di una intera epoca [4].

Ansie vittoriane: da Tylor a Frazer

Quando, nel 1871, appariva Primitive Culture di Edward Burnett Tylor (1832-1917), l’antropologia non era ancora una disciplina istituzionalmente consolidata. Esistevano però delle teorie relative alla “religione naturale” che erano state elaborate negli ambienti deisti, così come tra i missionari che si erano dedicati a decodificare le culture indigene (Maryanski 2018).

Cresciuto in una ambiente quacchero e destinato a prendere le redini dell’impresa di famiglia, a Tylor venne riservato in realtà un destino diverso. Colpito da una salute precaria, si trasferì in Messico dove, insieme all’archeologo Henry Christi, viaggiò nel paese e scrisse un resoconto interessante sulla cultura dei messicani (antichi e moderni) (Tylor 1861).

Uscito in due volumi, Primitive Culture, fornisce una teoria della religione delle origini destinata a grande successo e che entra immediatamente in competizione con altre proposte, tra cui quella dell’orientalista di indole romantica Friedrich Max Müller (1823-1900) o quelle che si erano diffuse nei primi decenni dell’Ottocento, presto divenute obsolete come la teoria del feticismo di De Brosses (riesumata però da Auguste Comte, Wheeler-Barclay 2010, 25).

Nel primo volume, Tylor si sofferma sulle varie teorie del progresso umano, le leggi del declino e del cambiamento, per poi passare all’enunciazione di una dottrina che ebbe grande successo, quella dei «cultural survivals» (sopravvivenze culturali), traducibili nei termini di «residui» o «arcaismi culturali». Prosegue poi nell’analisi del linguaggio (due capitoli), l’arte del contare (forme di matematica primitiva, due capitoli), la mitologia (due capitoli) per poi passare, nell’ultimo capitolo alla elaborazione della teoria per cui è più noto, cioè quella dell’animismo, la quale occuperà quasi tutto il secondo volume (sei capitoli), che si conclude con una disamina del rito.

Il contributo di Tylor è da collocare in un contesto dove la polemica religiosa sui popoli non cristiani era caratterizzata, da un lato, da spinte missionarie segnate dalla convinzione che le religioni indigene fossero il frutto di un lungo processo di degenerazione di una religione monoteista rivelata alle origini della umanità e, dall’altro, dalle correnti fondate sulla teoria delle razze che postulavano, attraverso la nozione di poligenismo, l’inferiorità di alcuni gruppi umani rispetto ad altri (Stocking 1987; Ackerman 2002; Kippenberg 2002 [2020]). In questo senso, l’invenzione della nozione di “cultura primitiva” va compresa come un tentativo di formulare una teoria della religione originaria che sarebbe caratteristica di tutta l’umanità, concepita nelle sue diverse fasi evolutive (per una lettura critica del lavoro di Tylor, Chidester 2014).

Mentre l’animismo è dedotto da una analisi delle più svariate tradizioni e si riassume nella “credenza negli esseri spirituali” basata sulla diffusa idea di una animazione della natura e dell’unità psichica del genere umano, la parte sul sacrificio è relegata ad un unico capitolo, il diciottesimo del secondo volume, dal titolo Rites and Ceremonies. Il rito, scrive Tylor, rappresenta «the dramatic utterances of religious thought, the gesture language of theology» (Tylor 1871, 2, 362; anche in Carter 2003, 14-38). Tylor connette pensiero e azione, credenza e rito, interpretando quest’ultimo in funzione della credenza, una sua espressione simbolica. Tylor individua un gruppo di azioni religiose che sono presenti nei tre stadi evolutivi: preghiera, sacrificio, digiuno, pratiche estatiche, lustrazioni e orientamenti. I criteri per individuare le forme di sacrificio si basano sulla modalità in cui il fedele presenta l’offerta e la modalità in cui essa è ricevuta dalla divinità. Per una analogia tra l’uomo e la divinità, nella sua prima fase, il sacrificio «is a gift made to a deity as if he were a man» (Tylor 1871 2, 375). «The gift-theory, as standing on its own independent basis, properly takes the first place». Dal dono, il sacrificio si evolve in una forma di omaggio che presuppone il riconoscimento pubblico fino alla fase in cui il vero soggetto dello scambio è colui/colei che compie l’atto, privandosi di un bene. «Beside this development from gift to homage, there arises also a doctrine that the gist of sacrifice is rather in the worshipper giving something precious to himself, than in the deity receiving benefit. This may be called the abnegation-theory, and its origin may be fairly explained by considering it as derived from the original gift-theory» (ivi, 396). Per quanto la concezione del sacrificio nel testo di Tylor sia stata spesso associata al meccanismo dello scambio tra uomo e divinità in una relazione di tipo do ut des, essa presuppone la nozione di dono (poi rielaborata da Marcel Mauss ed Henri Hubert) e l’idea in base al quale il sacrificio impone la sottrazione di un bene prezioso che sposta l’attenzione sull’offerente, colui/colei che compie l’atto di offerta e di quel bene si priva.

Il secondo autore del contesto vittoriano che ha svolto un ruolo molto influente nella elaborazione di una teoria del sacrificio, in parte più compatta e strutturata, fu William Robertson Smith (1846-1894). Smith si presenta con un percorso inusuale rispetto al gruppo di antropologi e classicisti che avevano animato il dibattito sulle origini della religione e del mito e che ebbero anche, soprattutto nella figura di George James Frazer e Jane Harrison, una certa influenza per gli studi di critica letteraria (Ackerman 2002).

Nato in Scozia in una famiglia di rigida osservanza calvinista, William Robertson Smith divenne ministro della Free Church di Aberdeen nel 1870; nello stesso anno fu nominato docente di lingue orientali ed esegesi biblica presso il College annesso alla chiesa. La carriera ecclesiastica durò ben poco perché nel 1876 fu accusato di eresia, processato e condannato nel 1878 per essere definitivamente espulso dalla chiesa nel 1881. Non diversamente dai colleghi luterani e cattolici prima e dopo di lui, Smith dovette cercare riparo nelle istituzioni universitarie per poter continuare ad esercitare la sua professione: nel 1883 si trasferì a Cambridge, dove divenne reader e poi professore di Arabo. A Edimburgo incontrò l’antropologo John Ferguson McLennan (1827-1881) con il quale instaurò un solido rapporto di amicizia e scambio intellettuale. McLennan era un avvocato scozzese interessato alla storia dello sviluppo degli istituti giuridici. Autore di un testo sulle origini del matrimonio, dipendente dalle teorie di Johan J. Bachofen (sul matriarcato antico), arrivò ben presto a interessarsi anche del totemismo, in un lavoro dal titolo The Worship of Animal and Plants (1870-1871).

Tra il 1867 e il 1870 Smith ebbe occasione di studiare in Germania. A Bonn e a Gottinga acquisì la conoscenza del complesso dibattito che aveva caratterizzato la critica biblica tedesca e che diventerà egemone in alcuni ambienti accademici europei dell’epoca. In questo periodo consolidò l’amicizia con diversi studiosi, tra cui Julius Wellhausen, il biblista e orientalista che come lui fu anche studioso di Islam e arabistica (Kippenberg 2002 [2020]; Maier 2009; Stroumsa 2021). A partire dagli anni Ottanta prese la direzione della Encyclopedia britannica, dove aveva già pubblicato alcuni contributi. Nel 1889 apparve il testo destinato a consacrarlo come autore autorevole, frutto di una serie di lezioni tenute ad Aberdeen, Religion of the Semites (1894) (Kippenberg 2002 [2020]; Smith 2002).

Gli scritti e la prospettiva metodologica di Smith richiedono una breve presentazione perché introducono nel dibattito sulle origini del sacrificio i materiali biblici. La critica biblica tedesca stava, in quel periodo, rivoluzionando lo studio dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la proposizione di una radicale interpretazione della religione dell’Antico Israele e delle origini cristiane.

Per comprendere la struttura evolutiva del sacrificio e della religione biblica, bisogna soffermarsi brevemente sulla cosiddetta “ipotesi documentale” attribuita a Julius Wellhausen. Essa si fonda sull’osservazione che il Pentateuco, ossia i primi cinque libri della Bibbia, lungi dall’essere un testo rivelato posto per iscritto da Mosè, contiene materiali differenti, che possono riassumersi nella presenza di quattro tradizioni testuali, stratificate, che rappresentano diverse forme religiose e diversi periodi storici. In Geschichte Israels (1878) e in Prolegomena zur Geschichte Israels (1883) Wellhausen afferma che la Bibbia è il risultato di un lungo processo di composizione testuale in cui si differenziano almeno quattro scuole di orientamento teologico diverso: una Jahvista (J), una elohista (E), una deuteronomista (D, risalente all’epoca delle riforme del culto di Giosia) e una ultima e più recente fonte, di matrice sacerdotale, la fonte P, elaborata dopo l’esilio babilonese (Prestercodex). La cronologia di queste fonti permetteva a Wellhausen di ricostruire l’evoluzione della religione dell’antico Israele: lo strato più antico composto da una religione naturale di tipo ‘teistico’, a cui succede una religione rappresentata dalle istanze dei profeti e della centralizzazione del culto a Gerusalemme. La terza fase, quella che sancisce il definitivo declino della religione di Israele, corrisponde alla riscrittura sacerdotale, attenta a formulare una religione segnata dalla preponderanza delle norme rituali. Le leggi levitiche non erano quindi state ricevute da Mosè, la Bibbia non era un testo sacro, tanto meno rivelato, ma era il frutto di una lunga storia di riscritture, un palinsesto composto da concezioni teologiche differenti, che le élite religiose ebraiche avevano elaborato in reazione alle grandi crisi sistemiche (guerra, deportazione, distruzione del primo tempio) (Satlow 2014). Per Wellhausen la fonte sacerdotale aveva contribuito alla formazione di una comunità chiusa e settaria (poi confluita nel giudaismo rabbinico), mentre gli orientamenti religiosi presenti nelle fonti deuteronomistiche, alimentate dalla religione dei profeti e di carattere universalistico, improntate ad una pratica della giustizia, erano confluite nella formazione del movimento gesuano e nel cristianesimo paolino. L’applicazione di una filosofia della storia di impronta hegeliana permise di descrivere il mutamento storico della religione biblica strutturata ora in una complessa prospettiva evolutiva che non si liberava del tutto dai preconcetti antigiudaici luterani, dalla antica polemica anti-nomistica di matrice paolina, e da una buona dose di teologia della sostituzione (Wiese 2005; Gerdmar 2009; Kurtz 2018).

Senza soffermarmi sulle reazioni ebraiche di queste interpretazioni (Shavit ed Eran 2007), in questa sede è sufficiente affidarsi alla interpretazione che Robert Alun Jones offre della raccolta di lectures di Robertson Smith. Sulla base della struttura evolutiva della religione biblica elaborata dagli esponenti dell’alta critica tedesca Wellhausen propose anche una interpretazione del sacrificio: nella fase antica il sacrificio era praticato come rito domestico in occasioni festive. Due tipi erano prevalenti, quello di comunione e quello che prevede l’uso del fuoco. Il secondo periodo coincide con la centralizzazione del culto nel tempio di Gerusalemme, unico luogo in cui il sacrificio è permesso. Questo passaggio produce una maggiore ritualizzazione della pratica e una differenziazione tra spazio sacro e spazio profano. E, infine, nella fase che rappresenta la rielaborazione sacerdotale, la preminenza della prassi rituale, sacrificale e non sacrificale, diventa centrale. Ne sono prova il libro di Ezechiele dove si fa evidente una solida concezione della nozione di espiazione. Due tipi di sacrificio nuovo sono introdotte, secondo Wellhausen, quello per il peccato e quello di riparazione (Jones 1981) [5]. È questa struttura evolutiva che influì sulla organizzazione dei materiali di Robertson Smith.

Religion of the Semites è un testo complesso, affascinante, non privo di un sostrato teologico di matrice protestante, che si manifesta in particolare nella radicale differenziazione che Smith opera tra religione antica (se non arcaica) e religione moderna (intendendo in generale il cristianesimo di matrice riformata). La combinazione dell’analisi delle fonti testuali si intreccia con materiali etnografici tratti dalla sua osservazione di diverse tribù arabe (Kinship and Marriage in Early Arabia 1885). Negli anni del processo Smith aveva viaggiato per l’appunto in diversi paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, dove aveva raccolto informazioni rilevanti sui meccanismi di funzionamento della parentela (Stroumsa 2021; anche Black e Chrystal 1912; Maier 2009). Questo studio etnografico divenne una guida per l’interpretazione dei materiali semitici e biblici.

La struttura del libro è suddivisa in 11 capitoli che trattano numerosi temi, tra cui i concetti di sacro/profano, di spazio (artefatto o naturale), di spiriti. L’analisi del sacrificio è contenuta nei capitoli 6-11 (Smith 2002). Va specificato che i «popoli semiti» sono per Smith

un gruppo di nazioni apparentate, tra cui Arabi, Ebrei, Fenici, Aramei, Babilonesi, e Assiri, che in epoca antica hanno occupato l’immensa penisola Arabica, le fertili terre della Siria, Mesopotamia e dell’Iraq, dalla costa mediterranea ai piedi dei monti dell’Iran e dell’Armenia. Tra questi popoli, hanno avuto origine tre grandi fedi mondiali; per questo motivo i Semiti devono essere oggetto di particolare attenzione per lo storico della religione (ivi, 1, trad dell’a.).

La ricerca di Robertson Smith è ovviamente caratterizzata da una tensione tra critica delle tradizioni teologiche e una ricostruzione della storia biblica. In questa sua opera, molti studiosi individuano l’aspetto più innovativo nella rilevanza attribuita al culto (ovvero, dell’azione rituale) rispetto al pensiero (il sistema di credenze). Si tratta di una concezione della religione radicata innanzitutto in una teoria dell’azione: gli uomini si associano tra di loro compiendo gesti e dando vita a istituzioni. Solo in una fase successiva l’uomo elabora una teoria o un mito relativi a quelle medesime istituzioni all’interno delle quali nasce e prende forma la sua vita. I tratti caratteristici di questa “religione semitica” [6] arcaica sono individuati nella struttura sociale tribale. La religione, in questa prospettiva, non si coagula attorno alle forme del pensiero, ma si forma tra l’interazione delle persone, si eredita dalla nascita assieme agli obblighi e ai doveri della vita associata (ivi, 28). «La religione non esiste» scrive Robertson Smith «per la salvezza delle anime, bensì per il mantenimento del benessere e dell’ordine sociale» (ivi, 29, trad. dell’a.). Fin dalle sue forme primordiali, religione e strutture sociali si influenzano a vicenda (Kippenberg 2002 [2020], 104).

È al rito quindi che bisogna indirizzare l’attenzione se si vuole ricostruire la “religione semitica” antica che precede la rivoluzione apportata dai profeti di Israele [7], o dalla rivelazione che genera personalità carismatiche. Questa religione antica, che condivide caratteristiche con quelle di altri gruppi, è comprensibile se si analizza con dovizia l’evoluzione dell’istituto del sacrificio. Le competenze da biblista e orientalista permettono a Smith di focalizzarsi su una raccolta di materiali e dati più circoscritti, in particolare quelli biblici a cui associa una notevole quantità di fonti provenienti dal mondo classico e da quello arabo e semitico. La discussione sul sacrificio è articolata, ma in genere di questa discussione viene menzionata l’ipotesi che Smith aveva elaborato aiutandosi con le riflessioni sul totemismo dell’amico McLennan (Kippenberg 2002, 95; Carter 2003, 54). Secondo McLennan, il totemismo (dalla parola totem che era entrata nel lessico scientifico) era una nozione atta a descrivere forme di culti fitolatrici e teriolatrici in base alla quale (a) esisteva una identificazione tra totem e tribù; (b) il totem era trasmissibile in modo patrilineare; (c) sanciva il divieto della endogamia (Kippenberg 2002 [2020], 105; Jones 2005).

A differenza di quanto imponevano una teologia del sacrificio centrato sull’idea della espiazione o una teoria del sacrificio come atto di scambio, nell’analisi di Smith questa azione rituale si configurava come un pasto di comunione con una divinità benevola: il consumo del cibo sacrificale e la condivisione comunitaria hanno come fine ultimo quello di rafforzare la solidarietà collettiva [8]. Il fondamento più arcaico di questo rituale poteva essere ricondotto ad un antico rito delle tribù arabe in cui si descrive l’uccisione del cammello, un animale che, secondo lo studioso, aveva svolto, nelle fasi più antiche, una funzione totemica (Smith 2002) [9].

Dallo studio dei materiali biblici è evidente come l’istituto sacrificale sia stato sottoposto a diversi mutamenti dovuti all’impatto di vicende storiche anche traumatiche e che ad esso si accompagni, verrebbe da dire, una trasformazione stessa della nozione di divinità. Non è questa la sede per decidere se, in questo autore come in altri provenienti dal mondo protestante, la differenza radicale tra la religione arcaica e quella rivelata sia qualitativamente significativa. La lettura di Religion of the Semites lascia aperte diverse interpretazioni (Maier 2009; Wheeler-Barclay 2010; Strenski 2018). Ciò che invece è rilevante è la forza che questa impostazione esercitò su altri lettori.

L’analisi delle teorie del sacrificio sarebbe incompleta senza menzionare il terzo membro del gruppo vittoriano che esercitò un ruolo preponderante nello studio della religione in quella fase, Sir James G. Frazer (1854-1941) che ben presto divenne amico e collaboratore di Smith nella redazione della Encyclopedia Britannica. L’opera più nota di Frazer è The Golden Bough (Il ramo d’oro), un lavoro che fu stampato, dopo continue revisioni, in diversi momenti: in due volumi nel 1890, in tre volumi nel 1900, in 12 volumi nel 1915 e in forma abbreviata nel 1922 (Frazer 1890, 1900, 1915, 1922). Meno noti sono altri lavori di Frazer, come il suo testo sulla Bibbia, Folklore in the Old Testament (1918). Ma per questo breve intervento l’opera di Frazer ci interessa laddove viene a intersecarsi coi temi sacrificali. Prima di tutto, in una opera così estesa e ricca di argomenti interconnessi tra loro, l’elemento che più colpisce nella grande narrazione frazeriana è il tema della morte e della rinascita, che sembra connettere tra di loro miti e sistemi rituali molto diversi. La rilevanza della morte viene individuata in due modi diversi, sia attraverso un crimine dai tratti sacrificali e rituali (come nel caso del sacerdote di Diana a Nemi), o nella forma di un sacrificio vicario, come nel caso dei rituali legati al mito di Balder. Il tema della morte, spesso rituale e legata a figure sacerdotali regali e divine, è condizione necessaria per il mantenimento del ciclo della vita, dell’ordine naturale e di quello cosmico. Nel viaggio esplorativo frazeriano, il sacrificio riemerge in molti modi: dalla nozione del capro espiatorio a quella del dio morente, dai sacrifici mesoamericani a quello di Cristo su cui Frazer elabora una serie di ipotesi non prive di possibili ricadute antisemite (Damascelli 2007; Horowitz 2007; Lannoy 2020, 215-7). Il parallelismo che Frazer istituisce tra la credenza della morte sacrificale di Cristo e le molteplici storie che emergono dalla antichità pagana è ovviamente esplicita e lascia intravvedere una classica polemica di matrice protestante sulle permanenze del paganesimo sia nella cultura cattolica che in quella riformata.

Una parte dei temi discussi, quasi tutti articolati nel contesto della cultura vittoriana, furono accolti nella Francia della terza repubblica dove si era andata formando una tradizione solida di critica alla religione in parte influenzata dalle correnti culturali di matrice illuminista e romantica. Al consolidamento di filosofie della storia, come il positivismo di Comte, si affiancavano politiche atte ad istituzionalizzare lo studio moderno (e scientifico) delle religioni, concretizzatosi nella istituzione della 5è section della Ephe (École pratique des hautes études), a cui vanno ad aggiungersi la 4è section (di impostazione filologico-letteraria) e le diverse sedi di formazione sulle religioni orientali (tra gli altri, Stroumsa 2021).

Oggetto di questa breve sezione è il piccolo gruppo facente capo a David Émile Durkheim. Per l’analisi del sacrificio però, ritengo opportuno partire dagli allievi e non dal maestro, ossia da Marcel Mauss, che di Durkheim era anche nipote, ed Henri Hubert. Il saggio sul sacrificio, destinato a divenire un testo di riferimento per tutti gli studi successivi, prende forma in un’arte della conversazione che non solo era tipica del procedimento analitico di Durkheim, ma anche della scuola stessa. In realtà, come vedremo, il sacrificio assume un ruolo epistemologico centrale nel progetto durkheimiano sulla religione.

«Allons, j’aime la bataille!». Henri Hubert e Marcel Mauss

La teoria sviluppata da Marcel Mauss e Henri Hubert apparve prima ne L’année sociologique e poi come saggio indipendente, pubblicato e tradotto più volte (1898-1899 e 1909; Strenski 2002; 2003; ora Stroumsa 2021): «Indeed, Hubert and Mauss’s essay has come to be regarded as a pioneering statement of the Durkheimian theory of sacrifice, a view perhaps most forcefully articulated by Ivan Strenski» (Ptacek 2015, 76).

Dopo aver studiato con lo zio, Marcel Mauss (1872-1950) si specializzò con il sanscritista Sylvain Lévy, con il quale instaurò un rapporto intellettuale intenso (Fournier 1994; Bert 2012; 2021). Henri Hubert (1872-1927), archeologo e storico, ebbe una formazione di biblista, storico del cristianesimo e orientalista pur dedicandosi più approfonditamente allo studio dei Celti (Bert 2015). Responsabile della “sezione religiosa” dell’Année sociologique, scrisse alcuni saggi importanti con Marcel Mauss, tra cui, appunto, l’Essai sur la nature et la fonction du sacrifice (Hubert e Mauss 1899) [10].

Sono note le ambizioni che hanno guidato la stesura del testo, che Durkheim aveva sollecitato più volte. Come già per altri temi, come ad esempio quello relativo al mito, in voga negli ambienti scientifici dello studio delle religioni dell’epoca [11], Mauss e Hubert affrontano la letteratura scientifica sul tema facendo ampio riferimento a Tylor, Smith e Frazer. Questo dato emerge sicuramente dall’attività di entrambi e dai materiali discussi tra coloro che animavano la rivista fondata da Durkheim, l’Année sociologique. A influire sulla scelta dell’argomento e delle fonti selezionate, ai suggerimenti di Durkheim si aggiungono quelli del maestro di Mauss, l’indologo Sylvain Lévi (Fournier 2005, 70-1). Nel 1898 Lévi aveva infatti pubblicato un testo dedicato al sacrificio, La doctrine du sacrifice chez les Brâhmaṇas, frutto delle lezioni che aveva tenuto nel 1896-1897, frequentate da Mauss (Lévi 1898).

La prima novità, rispetto ai testi analizzati, consiste nel fatto che Hubert e Mauss selezionano un corpus di materiali più circoscritto che si situa in tradizioni testuali strutturate e appartenenti a sistemi religiosi in parte distinti (fonti bibliche e rabbiniche, fonti vediche). La scelta dei materiali testuali è, dal punto di vista metodologico, rilevante rispetto al metodo comparativo utilizzato da Tylor e Frazer, caratterizzato da un uso analogico di fonti appartenenti a periodi e ambienti diversi. Rispetto a Smith, la cui opera è ancorata alla concezione di “religioni semitiche”, Hubert e Mauss propongono una associazione tra due corpora testuali appartenenti a religioni ritenute, nel dibattito scientifico dell’epoca, inconciliabili. Occorre quindi svolgere una breve riflessione sulla selezione delle fonti prima di passare ad una analisi del saggio. Guy Stroumsa ha analizzato il contesto in cui si colloca il saggio di Hubert e Mauss sostenendo che l’incorporazione di materiali provenienti da due religioni considerate opposte – quelle “semitiche” e quelle “ariane” – svolge un ruolo importante sia dal punto di vista teorico che culturale. Da un punto di vista teorico, comparare materiali che provengono da religioni strutturalmente diverse e gerarchicamente ineguali, secondo l’opinione dell’epoca, fornisce la possibilità di dedurre una concezione di sacrificio sufficientemente universale. «For them, the corresponding religions diverged vitally – the first led to monotheism, the second to pantheism. It was this difference, they wrote, that enabled one to reach ‘sufficiently general conclusions’ through comparison» (Stroumsa 2021, 225) [12]. Dal punto di vista culturale, invece, il testo di Hubert e Mauss si colloca in un contesto in cui il dibattito sulle religioni incrocia la diffusione delle dottrine razziali. Non è possibile approfondire dettagliatamente questo problema ma, sempre seguendo il suggerimento di Stroumsa, va sicuramente segnalata la cospicua presenza di studiosi ebrei nel campo dell’orientalistica francese e la loro posizione critica sulle derive razziali del dibattito che era sorto intorno alle religioni semitiche e indoeuropee (ariane) [13]. In questo senso, le opere di Sylvain Lévi – come quelle di James Darmsteter, Solomon Munk, Solomon Reinach per citare i più noti – fornirono una voce alternativa alle teorie razziali basate sullo studio comparato delle lingue e delle religioni [14].

Inoltre, come notava Alfred Loisy, nel recensire il lavoro, le fonti utilizzate dai due studiosi includono anche materiali provenienti dalla letteratura classica antica, greca e latina e dalle fonti cristiane (Fournier 2005, 74).

Ma cosa è rilevante, dal punto di vista di un guadagno conoscitivo, nel famoso saggio di Hubert e Mauss? Quali sono gli elementi che lo hanno trasformato in classico? Ivan Strenski, in una serie di contributi dedicati alla scuola di Durkheim, ha analizzato la genesi del dibattito sul sacrificio e ha qualificato il testo di Hubert e Mauss come «the first theory of sacrifice» (Strenski 2003, 17-27). Al momento qualche risposta la possiamo trovare sia nelle informazioni relative alla genesi del testo (Fournier 2005) che nei presupposti epistemologici elaborati da Durkheim per lo studio della religione. Durkheim aveva iniziato a interessarsi di religione intorno al 1894-95 e da allora non aveva più abbandonato questo interesse. La rilevanza che la religione venne ad assumere nella riflessione di Durkheim è facilmente rinvenibile nella lettera che indirizzò a Mauss per sollecitarlo a portare a compimento il saggio:

Sei uno dei punti cardini di questa operazione, e quindi assolutamente essenziale per il suo svolgimento non solo perché sei a Parigi ma anche perché, come ho anticipato e come spero, dall’Année sociologique dovrà emergere una teoria. Questa teoria sarà l’esatto opposto del materialismo storico, che rimane rude e semplicistico nonostante la sua inclinazione alla oggettività; farà della religione, a scapito della economia, la matrice dei fatti sociali. Per questo motivo il ruolo di coloro che si occuperanno dei materiali religiosi – nonostante o proprio a causa della onnipresenza della religione – sarà rilevante (Durkheim in Fournier 1994, 147-8; 2005, 69, trad dell’a).

È un passo illuminante che aiuta a capire anche la genesi del capolavoro di Durkheim, Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912).

È del resto possibile individuare nel testo stesso degli elementi cardine che possono fornire spunti per la riflessione. Innanzitutto, oltre alla scelta dei materiali analizzati, ci si può soffermare brevemente sulla definizione introduttiva. Durkheim ne aveva suggerita una che però venne accolta solo in parte. Scriveva:

Il sacrificio è un’operazione o una serie di operazioni che appartengono ad un sistema di riti religiosi il cui obiettivo è quello di distruggere o, viceversa, di eliminare dall’uso comune (tramite offerte) uno o più oggetti di tipo animato e inanimato (Durkheim in Fournier 2005, 75).

Questa definizione si fonda su due principi strutturanti, la distruzione e la sottrazione di oggetti della circolazione dei beni di uso comune. È interessante come, in questo passo, la rilevanza attribuita al consumo di cibo non sia rilevante.

Nella composizione finale del saggio di Hubert e Mauss si possono invece intravvedere diversi nuclei definitori e una descrizione che tiene conto delle varianti tipologiche di comportamenti e riti associati al sacrificio. La struttura del testo è suddivisa in definizioni, schema e funzioni che conferiscono dinamismo alla rappresentazione del sacrificio. La prima definizione è centrata su due tipi di azione: (a) sul processo di consacrazione; (b) sulla comunicazione tra sfera umana ed extra-umana. Evans-Pritchard, che curerà negli anni Sessanta l’edizione inglese, parlerà di «grammatica superba del sacrificio» (Evans-Pritchard in Hubert e Mauss 1964, VIII; Fournier 2005, 150-65).

In questa dinamica comunicativa gli oggetti animati e inanimati sono trasformati e distrutti. Ma la novità, che sarà espressa nel trattato teorico di Durkheim con maggiore chiarezza nel 1912, consiste nel segnalare i meccanismi di funzionamento del sacro (ossia di ciò che si forma in opposizione al profano) elaborati dalla scuola durkheimiana ed esposti sia ne L’année sociologique che ne Le forme elementari. La distinzione tra sacro e profano, centrale nella elaborazione di una teoria della religione in Durkheim, costituisce lo sfondo del saggio sul sacrificio degli allievi, o meglio ne garantisce il funzionamento e la struttura.

Infatti, in un’altra definizione si postula che il sacrificio sia un «atto religioso che, mediante la consacrazione di una vittima, modifica lo stato della persona morale che lo compie e lo stato di certi oggetti di cui la persona si interessa» (Hubert e Mauss 2002, 23).

Sulla base di questa definizione, apposta nella parte introduttiva del saggio, è possibile individuare i tratti che Hubert e Mauss ritengono strutturali: la vittima e la persona che compie il sacrificio sono sottoposte ad una metamorfosi, un cambiamento che li predispone ad entrare nella sfera del sacro. Lo schema lascia spazio ad una meccanica del sacrificio concepito anche come performance dinamica. In questo senso il rito prevede una apertura, una messa in scena, e una uscita (traduco «une drame» con “messa in scena”, Fournier 2005, 161). Gli attori sono importanti: (a) il sacrificante e sacrificatore indicano che il sacrificio non è un atto comune accessibile a chiunque. Il sacrificio coinvolge lo status della persona che lo compie, consacrandola, trasformandone la qualità etica, cambiandone la consistenza “morale”. Colui che compie il sacrificio è sottoposto a riti di trasformazione che gli permettono di entrare in contatto con la sfera del sacro (questi riti mirano a trasformare il corpo e a fornirgli abiti adeguati, per colore, fibra, forma). Questi riti sono anche di carattere iniziatico. (b) Il sacrificio presuppone spazi e strumenti adeguati, adibiti e preparati per l’occasione, così come un calendario che regola l’accesso alla attività sacrificale. Spazio e tempo determinano la regolarità e legittimità dell’azione rituale, così come un adeguato uso di strumenti e oggetti. (c) La vittima (tendenzialmente un animale) deve avere determinate caratteristiche e, spesso, viene trattata con particolari attenzioni per trasformarne la natura profana. Come colui che si presta a sacrificare, anche l’animale o l’oggetto sottoposto al rito sono sottoposti a trattamenti incisivi che contribuiscono a trasferire forza divina (anche uno spirito divino) alla vittima. La sua consacrazione muta l’intensità dell’uccisione che secondo Hubert e Mauss non perde la sua natura di crimine. Per questo l’uccisione è un’azione che prevede tecniche particolari, come nel caso dei sacrifici animali biblici, e momenti di silenzio e pentimento, poiché si ripercuote su colui che compie l’azione o sugli oggetti che la interessano. Se la forza divina liberata dalla uccisione della vittima consacrata passa alla sfera ultra-terrena, i resti materiali della vittima rimangono prova tangente del rito e di conseguenza devono essere trattati adeguatamente. La “materia sacra” – sangue, grasso, pelle e quant’altro – hanno funzioni specifiche. Sono consumate in comunione tra uomo e divinità o sono sottoposte a trattamenti particolari: bruciatura, aspersioni. (c) Una fase di uscita chiude il rito sacrificale. Per uscire, coloro che vi sono entrati devono adeguatamente prepararsi per tornare allo stato di normalità. Abluzioni, smaltimento di abiti sacri, riti di purificazione (attestati in egual misura nelle fonti indiane e in quelle ebraiche) sono azioni di passaggio dallo stato di sacertà a quello profano.

Il saggio dice ovviamente molto di più. La densità dell’analisi dei materiali, la ricchezza delle fonti e riferimenti bibliografici coprono altri temi che non possiamo trattare in questo contributo: lo schema descritto sopra può però essere sottoposto a ulteriori approfondimenti connessi alla molteplicità delle funzioni dei riti sacrificali e agli effetti che producono su individui e oggetti. Rimane da menzionare il capitolo finale, dedicato al sacrificio di una divinità, una possibilità riscontrabile, come aveva anche indicato Frazer, in molte culture. Alfred Loisy, che nel 1909 venne eletto alla cattedra di storia delle religioni del Collège de France (contro Marcel Mauss ritenuto politicamente troppo radicale) ne diede una valutazione positiva (ivi, 75). Ed è proprio al sacrificio che l’ex prete modernista dedicherà la sua attività scientifica come segno del suo passaggio alla storia delle religioni (Lannoy 2020, 195-323).

Un maestro ansioso: David Émile Durkheim

Nato ad Épinal nel 1858, in una famiglia ashkenazita di stretta osservanza ebraica, David Émile Durkheim fu inizialmente destinato, come molti giovani ebrei della sua generazione, a diventare rabbino. Studiò l’ebraico, la Bibbia e il Talmud ma frequentò anche la scuola laica per poi accedere, non senza difficoltà, all’École normale superiore di Parigi. Durkheim rappresenta in modo esemplare la carriera straordinaria che l’emancipazione politica aveva offerto agli ebrei d’Europa occidentale e il contributo incommensurabile che intellettuali come lui hanno dato alla cultura contemporanea. Molto è stato scritto sul rapporto tra Durkheim e l’universo ebraico della Francia della Terza Repubblica [15]. In questa sede mi occuperò solo del testo che egli dedicò alla religione, portato a termine nel 1912 dopo una serie di affondi analitici apparsi sulla rivista da lui diretta l’Année sociologique.

Les formes élémentaires de la vie religieuse [da ora in poi Le forme elementari] [16] è un trattato denso e a tratti letterariamente coinvolgente, un testo che non smette di stupire, complesso e con una teoria della religione stratificata. La messa a punto della coppia concettuale sacro/profano, l’idea di religione come sistema dinamico mosso dalla interazione, mai uguale, tra rappresentazioni e riti di un gruppo sociale, le nozioni di mana, e l’articolata analisi del rito così come la riflessione sul sistema simbolico, sono solo alcuni tra i tanti temi trattati con maestria. Le forme elementari contiene tra l’altro una teoria della conoscenza e va compresa come ultima opera a cui il grande sociologo confida percorsi nuovi da percorrere, forse, con uno sguardo malinconico alla infanzia religiosa perduta (così Bellah in Rosati 2013; Bellah 1965). Faccio mie le parole di Massimo Rosati, nella introduzione alla edizione del 2005, che sarà quella da cui traggo i riferimenti e le citazioni. Rosati scrive:

David Émile Durkheim fu un campione della laicità, convinto anticlericale e sostenitore del carattere secolare delle società moderne; al tempo stesso, non fu mai ‘nemico’ della religione, e anzi il suo atteggiamento ambivalente nei confronti di quest’ultima – segnato quasi come un destino nel doppio nome – non fu mai ‘irreligioso’, tanto da rivendicare, a suo modo come vedremo, la ‘verità’ di ogni religione contro la cecità di un certo razionalismo semplicistico, nonché il carattere ‘eterno’ della religione stessa (Durkheim 2013, 23, dall’introduzione di Massimo Rosati).

Non è possibile dare conto, ovviamente, della letteratura critica su Le forme elementari: in questo breve contributo mi limito a fornire una descrizione succinta del capitolo sul sacrificio e segnalare forse qualche aspetto significativo della concezione durkheimiana, la quale, va detto, in parte è debitrice di una lettura di Smith, in parte è innovativa e, in parte, si differenzia rispetto a quella dei suoi allievi, Marcel Mauss e Henri Hubert (Ptacek 2015).

Prima però di descrivere la concezione durkheimiana del sacrificio è opportuno fare una premessa sulle fonti selezionate dal sociologo francese, ossia il resoconto sugli aborigeni australiani redatto da Walter Baldwin Spencer e Francis James Gillen Native Tribes of Central Australia nel 1899 (Spencer e Gillen 1899; 1904), testi che lo convinsero a individuare nel “totemismo” la forma religiosa più semplice, sulla base della quale, secondo il metodo del maestro francese, era possibile individuare tutti i tratti salienti dei sistemi religiosi più complessi (Durkheim 1912) [17].

Il trattato ha una struttura articolata in tre libri, ognuno dei quali è dedicato a una analisi delle componenti della religione. Il “libro terzo”, tratta dei “principali atteggiamenti rituali”. In esso si descrive il “culto negativo”, riscontrabile nei riti di iniziazione e potenzialmente produttore di ascesi, e il “culto positivo”. Tra le azioni rituali di carattere positivo Durkheim individua: (a) il sacrificio; (b) i riti mimetici; (c) i riti rappresentativi e commemorativi. Una valutazione a parte è dedicata al sistema dei “riti piaculari” che sono, da un punto di vista fenomenologico, simili a quelli negativi, ma associati ad eventi traumatici e alla morte (ibid.).

Ci interessa in questa sede il rito positivo dell’intichiuma una festa che ha luogo presso gli Arunta australiani e che, secondo Durkheim, racchiude tutti gli elementi costitutivi del sacrificio. “L’interesse del sistema dei riti che abbiamo descritto consiste nel fatto che vi si trovano, nella forma più elementare attualmente conosciuta, tutti i principi essenziali di una grande istituzione religiosa destinata a diventare uno dei fondamenti del culto positivo nelle religioni superiori: l’istituzione del sacrificio” (ivi, 400).

Innanzitutto, questo rito è scandito da una temporalità: ha un inizio preciso che è indicato dal flusso naturale delle stagioni. Esso si genera nel periodo delle piogge, quando il gruppo inizia a prepararsi al processo di rigenerazione del totem (elemento fondatore della comunità/tribù). Una componente del rito è guidata dal principio della fecondazione della terra, il cui fine è la riproduzione del totem (animale o pianta). Il rito si apre con una sorta di viaggio verso il luogo che si ritiene sia stato visitato dall’antenato totem, ritenuto sacro. Giunti in questo luogo si può approntare il rito, una festa, la quale varia in base ai clan e alle storie mitiche connesse al totem. Il rito, quindi, presuppone la rigenerazione del totem (e del suo principio vitale) e il sacrificio, ossia l’uccisione del totem e il suo consumo rituale con tutti i membri del gruppo costituisce una occasione eccezionale, seppure periodico, che presuppone – in un tempo e luogo sacri – il capovolgimento delle norme costitutive del gruppo, la sospensione del divieto di consumare il totem [18]. È solo in questa occasione che l’oggetto rappresentato dal totem può essere consumato (ossia ingerito se si tratta di un animale o di un vegetale) attraverso un pasto comunitario.

Obiettivo di questo pasto rituale è rinnovare il vincolo di parentela tra coloro che vi partecipano, ossia i membri (in genere maschi) del clan. Il rito, regolato da un principio di simpatia, serve a trasmettere la potenza, quindi la sacralità, dell’animale o del vegetale totemico al gruppo riunito il quale rafforza, col rito, la propria energia, appropriandosi della forza che risiede nel totem.

È possibile individuare nella descrizione che Durkheim propone dell’intichiuma alcuni principi strutturanti del sacrificio: (1) il tempo della rinascita dell’oggetto totemico (animale o vegetale); (2) l’attivazione della memoria rituale che conserva la storia antica del totem; (3) la ricerca del luogo di nascita del totem che presuppone l’individuazione di uno spazio sacro; (4) la preparazione del rito (rinascita del totem) che implica una uccisione del totem; (5) il consumo (in genere vietato) di parte del totem da parte del gruppo riunito (maschi); (6) l’accesso alla sfera del sacro attraverso la condivisione del cibo totemico; (7) la sacralizzazione del gruppo; (8) il rafforzamento della memoria collettiva e del gruppo (fine ultimo).

Seppure apparsa dopo il saggio degli allievi, la riflessione di Durkheim sembra non accogliere diversi apporti innovativi di Mauss e Hubert, ma indubbiamente, rispetto anche agli autori a cui fa riferimento, concepisce il sacrificio come rito articolato capace di produrre una serie di altre azioni. Se l’idea della comunione e della risacralizzazione periodica del gruppo (e in ultima istanza della società) sembrano essere gli effetti più immediati dell’azione sacrificale, anche il consumo alimentare svolge un ruolo pregnante, così come la memoria culturale che fornisce le storie sulle quali l’azione rituale si ripete nel tempo [19].

«Le trasgressioni di Edipo». Totem e tabù di Sigmund Freud (1913)

L’ultimo testo che si inserisce in questa conversazione sul sacrifico è quello di Sigmund Freud, pubblicato poco dopo, nel 1913. Dobbiamo immedesimarci nella Vienna fin de siècle, la capitale di un impero multinazionale che visse un periodo di effervescenza culturale collocato tra i fasti sette-ottocenteschi e le convulsioni della società moderna, alle prese con una vertiginosa produzione culturale che trova espressione in molti campi della scienza: è la Vienna ebraica di Karl Kraus, Theodor Herzl, di Sigmund Freud, Ludwig Wittgenstein; degli artisti Egon Schiele, Gustav Klimt, del Wiener Werkstätte di Josef Hofmann; la città di Adolf Loos; degli antisemiti austriaci (Schorske 1980).

La psicoanalisi nasce qui per volontà di un uomo che combina i nuovi approcci bio-medici con una originale esplorazione delle pulsioni psichiche recondite ritenute la fonte della nevrosi. La scoperta dell’inconscio, come componente della stratificazione dei materiali psichici, e la rilevanza attribuita alle pulsioni sessuali fin dall’infanzia si combinano in Freud con l’elaborazione di una terapia ermeneutica, centrata sulla parola e sulla esplorazione dei significati dei sogni (Freud 1979-1989a).

Spesso descritto come l’ultimo degli illuministi, Sigmund Freud (1856-1939), nacque a Freiberg in Moravia. Come Durkheim, crebbe in una famiglia ebraica della piccola borghesia, ma immersa nel mondo asburgico, dove fiorirono numerose correnti dell’ebraismo moderno. Figlio della seconda moglie di Jakob Freud, si trasferì con la famiglia allargata nella capitale dell’impero intorno al 1860, e visse a Vienna fino al 1938, per trasferirsi a Londra, su insistenza dei suoi devoti allievi, dopo la Anschluss (Jones 2000). Come tutti i grandi intellettuali del Novecento, Freud ha avuto molti biografi. Alcuni hanno seguito le tracce che lui stesso ha lasciato, come metodo analitico, e lo hanno psicoanalizzato; altri invece si sono limitati a descrivere e articolare la traiettoria intellettuale dell’uomo e della disciplina che ha fondato, la psicoanalisi. Altri ancora hanno esplorato il complesso rapporto tra Freud e l’ebraismo, un tema che è emerso per effetto degli studi sulle identità culturali e della “identity politics” statunitense, almeno a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento.

Come per Durkheim, l’adesione ai principi di una cultura laica e di matrice illuminista è radicata nelle scelte e nella personalità di Freud, così come la sua complessa identità di ebreo Gottlos. Il rapporto di Freud con la religione è particolarmente complesso e per questo motivo anche affascinante, sia nella sua riflessione teorica che nella dimensione più intima del suo vissuto personale. Due tendenze però hanno contribuito ad una imprecisa ed incompleta comprensione della sua interpretazione della religione: (a) una lettura rigidamente laicista/atea, se non marxista, ha sottolineato principalmente gli aspetti critici della sua percezione della religione che sono, indubbiamente, costitutivi della riflessione freudiana, ma che si articolano in una prassi teorica che – come vuole la autoanalisi freudiana – torna sempre sugli stessi temi e apre ad interpretazioni diverse; (b) una lettura riduttiva, per quanto importante ed ineludibile che, come ho detto, segue le tracce lasciate da Freud stesso, e ha esplorato il tema della religione in Freud attraverso il suo rapporto con l’ebraismo [20].

L’interesse di Freud per la religione è, nella prospettiva di chi scrive, molto più articolato. Esso si manifesta ben presto anche in lavori che non sono esplicitamente dedicati alla religione e che vengono organizzati in contributi precisi almeno a partire dal 1907 (il saggio sui rituali ossessivi), e reiterati con interventi ricorrenti: nel 1913 Freud pubblica Totem e tabù e il suo saggio sul Mosè di Michelangelo dove riprende la nozione di complesso di Edipo (Öedipuskomplex) (Roudinesco 2015, 172). Nelle opere degli anni Venti la sua teoria riappare nello scritto Psicologia delle masse (1921), L’avvenire di una illusione (1927) e Il disagio della civiltà (1929), a cui si accompagnano le sue riflessioni su arte e letteratura, sulla figura di Mosè, il suo dialogo con il pastore calvinista Pfister (Bori 1990). Devoti ha segnalato un testo di grande interesse, non citato frequentemente, sulle possessioni demoniache che risale al 1923 (Devoti 2018, 109-18). Oltre ai testi pubblicati e ai carteggi, anche gli incontri del mercoledì tenuti con un piccolo gruppo di allievi sono illuminanti per capire la discussione su questioni religiose (Cooper-Wright 2018; Roudinesco 2015). Infine, la rivista Imago, a cui Freud affida l’analisi psicoanalitica delle arti, della narrativa e della religione. In generale, come per gli autori analizzati sopra, il Freud teorico della religione è stato accolto tra i classici modernisti [21]. In attesa di poter tornare più estesamente su questo tema, in questa sede mi dedico ad un frammento freudiano, la sua concezione di “sacrificio” (e qui le virgolette sono d’obbligo) in uno dei primi testi che il maestro viennese dedica alla religione.

Totem e tabù (Totem und Tabu, 1913) uscì un anno dopo il libro di Durkheim. Freud aveva dedicato un notevole impegno nella stesura di questo lavoro. «Dalla Interpretazione dei sogni non ho lavorato a nessun’altra opera con tanta sicurezza ed ispirazione», scrive nel 1913 a Karl Abraham (Jones in Devoti 2018, 95). La riflessione di Freud sul sacrificio non sembra immediatamente visibile, anche se essa è solidamente ancorata alla sua teoria sulla religione, soprattutto quella che vediamo prendere forma, in modo abbastanza consequenziale, tra Totem e tabù e L’uomo Mosè e la religione monoteista (Freud 1979-1989b [2005]; 1979-1989c [2009]).

A differenza di altri esponenti della psicologia primo-novecentesca, Freud sembra essere più scettico rispetto agli approcci analitici che, come quelli di William James (1842-1910), erano inclini ad esplorare in modalità scientifica alcune forme della esperienza religiosa, come l’ascesi e la ineffabile mistica (James 1902; ma anche Bergson 1932). L’analisi dei comportamenti religiosi era per Freud costitutiva della sua generale esplorazione del comportamento umano, soprattutto nelle sue espressioni patologiche e di sofferenza psichica. A differenza di Durkheim, Mauss e Hubert, la sua prospettiva esprimeva una visione più critica nei confronti della religione, frutto di una concezione antropologica più pessimista, debitrice, come scrivono Gay e Jones, delle posizioni di Brentano e Schopenhauer e delle correnti dell’illuminismo più radicale (Preus 1996) anche se, va detto, la psicoanalisi tende ad occuparsi degli aspetti più reconditi e perturbanti del comportamento religioso (Cooper-Wright 2018).

Così come per Durkheim, anche in Freud il fascino del totemismo è attribuibile agli influssi esercitati su di lui dai lavori di Tylor, Frazer e dalla teoria di Smith e tutti quegli autori che, per citare Maryanski, avevano contribuito alla esplorazione dei processi evolutivi della cultura umana (Maryanski 2018). Si potrebbe quasi azzardare l’ipotesi in base alla quale Totem e tabù costituisca anche un commento a diversi aspetti delle opere che abbiamo menzionato sopra. Come suggerisce Pals però, mentre per Tylor e Frazer la religione primitiva esprimeva una forma di razionalità umana, era una possibile espressione del «filosofo selvaggio» (Tylor in Ackerman 2002) per Freud essa nascondeva, come per le malattie nevrotiche, traumi profondi che erano stati rimossi, in un controverso rapporto tra filogenesi ed ontogenesi. Nello specifico, Freud era convinto che, nel caso del totemismo, le informazioni raccolte dai casi clinici dei bambini nevrotici potessero essere utilizzate per fare luce sul suo significato recondito.

Strutturato in quattro saggi tra loro connessi, Totem e tabù si concentra sulle due interdizioni strutturali del totemismo: il divieto dell’incesto e il divieto di uccidere il totem. Freud suddivide i tabù in diverse tipologie (diretto, indiretto, intermedio, tabù permanenti e temporanei) sulla base anche della molteplicità delle sue applicazioni, indicando che «il tabù violato si vendica da sé» (Freud 2005, 29). Ma soprattutto Freud sostiene che il tabù esprime «un frammento di vita psichica» (ivi, 31). Anche qui, come in Durkheim, il confronto con la filosofia kantiana è significativo. Nel tabù, infatti, Freud percepisce «che le proibizioni in tema di costumi e di morale alle quali noi stessi obbediamo potrebbero avere, nella loro essenza, una parentela con questo tabù primitivo, e che chiarire la natura del tabù potrebbe gettare un barlume di luce sull’origine oscura del nostro ‘imperativo categorico’» (ibid.) [22].

In particolare, il tabù è letto attraverso le testimonianze dei malati di nevrosi che si impongono spesso divieti assoluti. Freud introduce qui la nozione di “ambivalenza emotiva” sulla base del fatto che spesso il divieto è frutto di un desiderio represso fornendo così una spiegazione che se non del tutto nuova (Frazer l’aveva preannunciata) si fondava sul contributo delle scoperte psicoanalitiche.

Nel quarto saggio, Freud presenta la sua teoria del totemismo e della religione che si fonda su una serie di ipotesi che elabora utilizzando diverse fonti: (1) la teoria dell’orda primitiva di Darwin; (2) la teoria della ribellione dei fratelli di Atkinson; (3) la teoria del sacrificio come pasto totemico di Robertson Smith (Devoti 2018, 99).

Il totemismo, scrive Freud, si può identificare facilmente attraverso i casi dei bambini nevrotici, laddove è rinvenibile l’emersione di una fobia e un terrore per gli animali che, spesso, nei racconti venivano associati alla figura paterna. I racconti dei bambini colpiti dalla malattia sono utilizzati da Freud come fonti utili a svelare il mistero del totem, la quale altro non era che la trasfigurazione simbolica del padre originario collocato agli albori della storia dell’umanità. In quel passato lontanissimo, l’orda primitiva (Darwin) era costituita dalla presenza di un padre geloso e autoritario che esercitava un controllo assoluto sulle donne. I figli, a cui era vietato l’accesso alle donne, in un atto di ribellione decisero di ucciderlo e mangiarne le carni.

Un certo giorno i fratelli scacciati si riunirono, abbatterono il padre e lo divorarono, ponendo così fine all’orda paterna. Uniti, essi osarono compiere ciò che sarebbe stato impossibile all’individuo singolo (forse un progresso nella civiltà, il maneggio di un’arma nuova, aveva conferito loro un senso di superiorità)” (Freud 2005, 145).

Quel “banchetto sacrificale” che Robertson Smith aveva descritto immaginando un atto di comunione tra la divinità e il suo gruppo, diventa in Freud un parricidio, un sacrificio senza rito, consumatosi nella notte dei tempi al quale si deve, però, l’evoluzione della civiltà.

Il progenitore violento era stato senza dubbio un modello invidiato e temuto da ciascun membro della schiera dei fratelli. A questo punto essi realizzarono, divorandolo, l’identificazione con il padre, ognuno si appropriò della parte della sua forza. Il pasto totemico, forse la prima festa dell’umanità, sarebbe la ripetizione e commemorazione di questa memoranda azione criminosa, che segnò l’inizio di tante cose: le organizzazioni sociali, le restrizioni morali e la religione (Freud 2005, 146).

I figli, rinvigoriti dalla potenza del padre ingerito furono colpiti dal senso di colpa e per evitare che il crimine si ripetesse, introdussero i due divieti costitutivi del totemismo: 1. l’uccisione del totem; 2. la endogamia, ossia le «due trasgressioni di Edipo» (ivi, 136).

Un crimine necessario che si perde nella notte dei tempi e che può essere ricostruito attraverso una interpretazione innovativa del totemismo fonda la civiltà e tutti i suoi istituti, religione inclusa. Per quanto del tutto ipotetica, costruita anche traendo spunto da un racconto mitico, la teoria di Freud metteva in scena una problematica che diventerà ricorrente negli studi sul rapporto tra violenza e religione. È certo però che, rispetto ad altri autori, Freud insiste non tanto sulla struttura o sistematicità del rito, ma sulla funzione che violenza e crimine svolgono, quasi hobbesianamente, nella costruzione delle istituzioni civili, tra cui la religione. La rilevanza conferita alla violenza primigenia – che non è del tutto assente anche negli altri autori – verrà ripresa da altri studiosi nella seconda metà del Novecento, tra cui spiccano le interpretazioni influenti di René Girard e Wilhelm Burkert [23].

Questa argomentazione verrà articolata nell’ultimo e sofferto scritto con il quale Freud cercò di fornire la sua spiegazione dell’antisemitismo. Ne L’uomo Mosè e la religione monoteista (Der Mann Moses und die monoteistische Religion 1934-1938, Freud 1979-1989c) Freud non solo riprendeva la teoria esposta in Totem e tabù ma offriva anche una interpretazione della religione ebraica e del suo rapporto con il cristianesimo. Il sospetto con cui fu accolta questa opera si è dissipato negli ultimi decenni che hanno visto una serie di interpretazioni innovative del controverso testo su Mosè. Forse, quasi come una traccia indelebile, essa va letta come un commento al frammento paolino sulla morte sacrificale di Cristo (ad esempio Rm 3,25). O anche interpretato, come Totem e tabù, quale contrappunto sia alle forme di antisemitismo e alle accuse del sangue che avevano costellato le comunità ebraiche sia nell’impero asburgico che in quello zarista (Kieval 2022). Non è un caso che il caro amico scrittore, Alfred Zweig, con cui Freud intrattenne un rapporto di amicizia dopo averlo curato, abbia in quegli anni dato alla luce un testo teatrale dal titolo Ritualmord in Ungarn in cui trattava in modo letterario il famoso caso di accusa del sangue di Tiszaeslàr (1882-1883), consumatosi nelle campagne ungheresi (Zweig 1914; sul testo, Biale 2007). O, ancora, si potrebbe seguire un’altra traccia, un dialogo polemico che la teoria di Freud intrattiene con padre Wilhelm Schmidt, il famoso antropologo cattolico (e antisemita) (Connelly 2012), influente a Roma e riconosciuto storico delle religioni, autore di una ricerca dal titolo Der Ursprung der Gottesidee (La nascita della idea di Dio, 1912-1955; ma anche L’origine de l’idée de Dieu 1908-1909), che postula l’esistenza di una diffusa concezione di Dio unico (Urmonotheismus) fin dalle origini dell’umanità (Ambasciano 2018, 75-9).

Riflessioni conclusive

Questo viaggio nelle concezioni teoriche del sacrificio tra autori classici che sono alle origini della fondazione di discipline come l’antropologia e la sociologia, gli studi biblici e la storia delle religioni, ma anche la psicoanalisi si fonda sul dato incontrovertibile della presenza di una conversazione impegnativa sul ruolo e la funzione della religione – e in questo caso anche del sacrificio – nella cultura dell’epoca. L’obiettivo di questo contributo vuole evidenziare la costruzione di un concetto che diverrà operativo nelle ‘scienze delle religioni’. La conversazione che ho cercato di illustrare non intende pensare al sacrificio come categoria scontata, ma illustrare le dinamiche culturali e scientifiche che ne hanno determinato la formazione. Nel caso degli autori di scuola durkheimiana si può parlare di un dibattito nazionale che coinvolge diversi attori che si muovono nelle istituzioni della Francia dell’epoca e che registrano, ovviamente, le tensioni religiose e culturali del tempo, affaire Dreyfus incluso. Come hanno mostrato diversi studi, e rilevato recentemente Stroumsa, il dibattito può collocarsi tra il disinteresse nei confronti degli aspetti rituali presenti nel sacrificio di molti studiosi protestanti e il monito di Benjamin Constant, secondo il quale «l’idée du sacrifice est inséparable de toute religion» [24]. La conversazione però è condotta anche con autori non francesi e, come ho cercato di mostrare, con testi provenienti dagli ambienti vittoriani, che trattano il sacrificio non come un dato acquisito, ma come un tema da esplorare nel tentativo di fornirne una spiegazione de-teologizzata e maggiormente scientifica, secondo i crismi dell’epoca [25]. Più di altri, la scuola durkheimiana tende alla costruzione di categorie astratte e, considerata la rilevanza attribuita da Durkheim alla religione nella elaborazione di una teoria sociale, la procedura di deduzione che conferisce universalità e astrattezza al concetto di sacrificio non tiene evidentemente conto della diversità e fluidità dei materiali testuali, tanto meno dei contesti storici.

La conversazione nel caso del testo di Freud è più problematica: in parte, Totem e tabù può essere letto come un commento ai diversi autori influenti, in particolare James G. Frazer e William Robertson Smith. Tuttavia, in questo caso l’intento è quello di fornire metodi radicalmente nuovi tratti dalla prassi psicoanalitica, utili a fornire spiegazioni alternative e sufficientemente congruenti. L’esplicito “malinteso interpretativo” offre nuove possibilità teoriche dove la violenza assume un ruolo maggiormente rilevante (anche Dei 2018).

Infine, è possibile svolgere qualche riflessione aggiuntiva su alcuni aspetti toccati solo tangenzialmente in questo contributo. Innanzitutto questi materiali ci forniscono almeno tre elementi di interesse. (1) Il primo investe la selezione e l’uso delle fonti, le metodologie e il rapporto con la storia. Come osservato da tanti studiosi, l’elaborazione di una metodologia comparativa si impone grazie alla sua capacità euristica nonostante i limiti epistemologici evidenti fin dagli inizi. Tylor e Frazer in particolare sono coloro che, attraverso un uso indiscriminato di materiali molto diversi per genere e collocazione storica, promuovono un metodo analitico che si fonda sulle analogie ma di superfice, alimentando talvolta una vera parallelomania. Critiche puntuali a questo metodo sono state avanzate da più parti (Smith 1973; 1994; 2004; Wittgenstein 1975) così come suggerimenti utili per una applicazione aggiornata della comparazione (Lincoln 2018; Freiberger 2019; Bert 2021). La proposta di Hubert e Mauss in parte risponde a quel metodo, ponendosi allo stesso tempo come critica nei confronti di una lettura storica del sacrificio. La forza analitica che Durkheim e i suoi allievi imprimono alla analisi dei materiali selezionati per lo studio del sacrificio indicano sì una polemica contro le interpretazioni stori(cisti)che più tradizionali (come ha suggerito Strenski 2003), ma anche una determinazione a collocare la religione al centro del dibattito pubblico dell’epoca. La forza delle loro teorie sta nella profondità analitica e nell’uso che viene fatto delle diverse tradizioni filosofiche, nella selezione e uso delle fonti (una lettura estensiva di materiali differenti in Hubert e Mauss, una interpretazione densa in Durkheim) e nella capacità di proporre risposte a temi scottanti in contesti caratterizzati dal conflitto religioso, come quello della Terza Repubblica.

(2) Che rapporto esiste tra queste teorie e la “questione religiosa” dell’epoca? Queste teorie parlano anche del rapporto tra religione e modernità? Tra cristianesimo e modernità? Tra ebraismo e modernità? La risposta è senza alcun dubbio positiva. Di questi autori, la provenienza famigliare è illuminante: un quacchero, tre calvinisti, due ebrei, un cattolico. Parlando degli autori vittoriani, Wheeley-Barclay scrive che

theirs was a truly engaged scholarship. Though they concentrated attention on non-Christian religions, especially so-called primitive ones, their work was intended as a vital contribution to the contemporary debate on Christianity (Wheeler-Barclay 2010, 2).

Ivan Strenski parla di una scienza come strumento riformatore della vita religiosa e della società contemporanea (Strenski 2018, su Tylor e Frazer). Anche nelle posizioni più apertamente critiche, come quella di Freud, la riflessione sul sacrificio e sulla religione si innesta sulle grandi polemiche dell’epoca e cerca di offrire risposte ai temi insiti nel controverso rapporto tra cristianesimo ed ebraismo. La prospettiva dei durkheimiani pone la religione al centro della riflessione gnoseologica sulla società. In questo senso, le teorie della religione sembrano essere inevitabilmente ancorate non solo ai conflitti culturali della loro epoca e proporsi, allo stesso tempo, come plausibili risorse che, avvalendosi dei metodi messi a disposizione dai diversi approcci scientifici, possono fornire risposte a problemi stringenti.

Qui si innesta il terzo punto di interesse (3), ossia il rapporto con la scienza. Non intendo fornire una risposta articolata, che richiederebbe un intervento puntuale su questo tema, ma mi preme evidenziare alcuni elementi di interesse. Una serie di tendenze critiche che hanno alimentato lo studio della religione negli ultimi decenni e che comprende studi di carattere post-coloniale e post-moderno, così come i contributi che provengono dalle scienze cognitive, dalla psicologia evolutiva alla psico-biologia hanno fortemente ridimensionato la universalità della categoria “sacrificio” e delle componenti che lo hanno a lungo determinato tanto da suggerire, in alcuni casi, la sua inesistenza. Scrive Daniel Ullucci

Sheehan (2009) argues that the label ‘sacrifice’ is not a scholarly category at all, but an ideological argument. Calling something a sacrifice is an attempt to argue for some transcendent value for that thing. Thus, he argues what we need is not a theory of sacrifice, but a history of sacrificial claims. A theory of sacrifice would attempt to unify all so-called sacrifice under some theoretical umbrella. A history, on the other hand, would disintegrate sacrifice into a series of competitive and discursive claims. He calls for a ‘dispersion of the sacrificial claim into specific cultural, political, ethical, and religious moments’ (Sheehan in Ullucci 2015, 394; Hughes-McCutcheon 2022a, 212-7).

Al contrario di quanto suggerito, questo saggio si è posto un obiettivo diverso. Lungi dal ridurre queste “conformazioni discorsive” a mere “affermazioni competitive”, il dibattito tra questi intellettuali svela alcune procedure di costruzione dei concetti operativi, come siano ancorati a progetti epistemologici ambiziosi, incardinati nel processo di formazione delle scienze umane e sociali del tardo Ottocento e del primo Novecento. La forza di quelle ambizioni epistemologiche e la rilevanza attribuita alla religione come componente sociale e umana ha contribuito a generare teorie dense e per questo capaci di trasformarsi in testi classici.

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Note

1. Bayly 2004; Facchini 2008 e 2018; Osterhammel 2014; ora Harris 2022.

2. Tra i grandi classici in genere trattati dalla manualistica internazionale l’opera più rilevante in questo periodo è quella di William James (1902).

3. Per una discussione relativa alla nozione di “religione” come costrutto ideologico e occidentale si rimanda ai testi più significativi: Fitzgerald 2003; Smith 2004; Dubuisson 2019 e 2020. Di recente, Nongbri 2013.

4. Per il contesto francese si rimanda a Strenski 2002 e 2003, Desplant 2009, e ora anche Lannoy 2020. Una riflessione più estesa in Stroumsa 2021, ma anche Stroumsa 2005 e Meszaros e Zachhuber 2013.

5. Anche Jones 1984 e 1986.

6. L’uso che ne fa Smith è diverso rispetto ad altri autori come F. Max Müller e Ernest Renan, per menzionare solo i più conosciuti. Qualche riferimento importante a questo dibattito in Masuzawa 2005, Facchini 2005 e 2014. Ora, Stroumsa 2021.

7. Su questo dibattito la letteratura sulla Bibbia è consistente; tra gli altri, Facchini 2005, 2014 e 2015.

8. La fonte utilizzata per individuare questo rito arcaico è però tarda e questa teoria è stata screditata, ma nella metodologia di Smith, che si fonda su un ampio utilizzo della nozione di “survival” presa da Tylor, le fonti tarde possono conservare tracce di istituti, pratiche, credenze, rituali più antichi (Jones 1981. Su questa ipotesi-mito si sono soffermati molti studiosi; Stroumsa 2021, 214).

9. L’invenzione totemica di questo rito fu presto screditata, perché fondata su un racconto contenuto in fonti molto tarde (Stroumsa 2021, 225).

10. Per una valutazione più complessiva del suo importante contributo alla scuola durkheimiana rimando a Bert 2012.

11. Su alcuni aspetti sul tema del mito in Durkheim e Mauss, Facchini 2015.

12. Infine, poiché le due religioni che costituiranno il centro della nostra. indagine sono assai diverse in quanto l’una sfocia nel monoteismo e l’altra nel panteismo, si può sperare che, comparandole, si arrivi a delle conclusioni sufficientemente generali (Hubert e Mauss 2002, 17).

13. Questo è un tema molto studiato e controverso su cui non c’è consenso scientifico. Rimando ad alcuni testi significativi almeno sulla razzializzazione di categorie come “Semiti” e “Ariani” e più in generale sul rapporto tra teorie razziali, orientalismo e studio delle religioni: Said 1978; Olender 1989 e 2009; Masuzawa 2005; Anidjar 2008; Rabault-Feuerhan 2008; Marchand 2010; Adluri 2011 e la discussione di Pollock 1993. Una rinnovata stagione di analisi più puntuali sui contesti storici ha reso più problematica una valutazione precisa di questo rapporto. Uno dei problemi insiti in questo dibattito mi pare debba essere identificato in un errore di tipo metodologico nella analisi dei materiali interpretati, e una scarsa attenzione ai livelli dei discorsi e alla struttura dei sistemi di comunicazione, nonché ai diversi attori coinvolti.

14. Stroumsa 2021, 219-45; per il contesto scientifico e gli ebrei francesi, Simon-Nahum 2018 e Karsenti 2017. Sul ruolo degli orientalisti ebrei, Espagne e Simon-Nahum 2015. Per aspetti diversi sulla rilevanza dell’opera di Lévi, Ferrara 2013.

15. La bibliografia su Durkheim è estesa. Si segnalano Lukes 1973; Pickering 1975; Strenski 1997; Birnbaum 2004; Fournier 2007; Maryanski 2018.

16. Per l’edizione italiana utilizzo la traduzione rivista da Massimo Rosati (2005 e 2013). Una recente traduzione è apparsa per Morcelliana (2020), a cura di Carlo Prandi. Anche l’edizione del 1963 di Claudio Cividali, con introduzione di Remo Cantoni (Edizioni Comunità).

17. Per una critica all’uso che Durkheim fece dei materiali pubblicati, Watts Miller 2012. Va segnalato anche che la nozione di totemismo era già stata criticata in Goldenweiser 1910. Kippenberg 2020, 210.

18. I divieti costitutivi del totemismo sono: proibizione di uccidere il totem, sposarsi all’interno del gruppo totemico.

19. La mia interpretazione diverge da Ptacek 2015; anche Maryanski 2018.

20. Posizione reiterata di recente da Devoti 2018, 98; soprattutto Yerushalmi 1993.

21. Preus 1996, Hewitt 2014; Pals 2015, Strenski 2015.

22. Sulla questione del totemismo, Lévi-Strauss 1962; Jones 2005; Descola 2005.

23. Sfameni Gasparro 2011. Per un interessante dibattito che ha inaugurato una serie di critiche, Hamerton-Kelly 1987.

24. Constant 1824-1830, II. 2, 107; Stroumsa 2021, 105, n. 70; ma anche Imbruglia 2021.

25. I rapporti tra la scuola durkheimiana e gli autori vittoriani sono testimoniati da amicizie, scambi epistolari, letture e recensioni dei testi.