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La questione dei processi ai criminali di guerra tedeschi in Italia: fra punizione frenata, insabbiamento di Stato, giustizia tardiva (1943-2005)

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I crimini tedeschi in Italia e la punizione dei colpevoli: indagini giudiziarie e questioni giurisdizionali.

Fin dai giorni immediatamente successivi alla proclamazione dell'armistizio dell'8 settembre 1943, le truppe tedesche si resero responsabili di crimini di guerra contro gli ex alleati italiani. Come tali vanno considerate le fucilazioni di massa di ufficiali e soldati italiani avvenute in alcune isole greche fra cui Cefalonia, Lero e Coo; il duro trattamento riservato alla gran parte dei soldati italiani deportati dai Balcani, dalla Francia e dall'Italia nei campi di prigionia in Germania e Polonia; quello loro inflitto nei campi di prigionia in territorio jugoslavo e greco come ad es. a Rodi dove fino al maggio 1945 continuarono fucilazioni indiscriminate. Crimini di guerra efferati furono commessi non solo contro i militari ma anche contro i civili italiani durante i venti mesi dell'occupazione tedesca dell'Italia (8 settembre 1943-2 maggio 1945). Fra queste azioni vanno annoverate in particolare le stragi e le deportazioni di ebrei italiani che portarono all'uccisione di circa 8 mila persone e le rappresaglie contro il movimento partigiano culminate in stragi cruente di civili, fra cui donne vecchi e bambini, come quelle delle Fosse Ardeatine a Roma (335 vittime), Sant'Anna di Stazzema in Toscana (circa 560 vittime), Marzabotto in Emilia-Romagna (770 morti). Mentre la ricerca storica ha potuto ricostruire con notevole precisione il numero degli ebrei vittime della violenza antisemita, non esistono invece dati così affidabili sul numero delle altre vittime delle stragi naziste. Le stime più attendibili sono al momento quelle avanzate da Gerhard Schreiber che conta 6.800 militari italiani giustiziati nel settembre-ottobre 1943 tra Balcani, Grecia ed Egeo; 22.720 partigiani "uccisi spesso nel disprezzo delle disposizioni internazionali" e 9.180 civili sterminati.

La dichiarazione sui crimini di guerra rilasciata dalla Conferenza di Mosca (30 ottobre 1943) aveva espressamente previsto la perseguibilità dei crimini di guerra tedeschi commessi in Italia. Era stata dunque prevista la compilazione di liste di criminali di guerra tedeschi da porre sotto processo. Come noto, la dichiarazione di Mosca aveva affermato che i criminali tedeschi sarebbero stati «riportati nei paesi nei quali le loro abominevoli azioni sono state compiute per esservi giudicati e puniti conformemente alle leggi di quei paesi liberati e dei Governi liberi che vi saranno costituiti». Nel caso dei crimini commessi in Italia, restava incerto chi avrebbe processato i criminali tedeschi. Non si sapeva infatti se le autorità alleate ne avrebbero concesso facoltà al governo italiano o se avrebbero mantenuto tale prerogativa nelle proprie mani. Pesava l'ambiguità dello status internazionale in cui si trovava il Regno d'Italia: dal 13 ottobre 1943 "cobelligerante" a fianco delle Nazioni Unite, ma allo stesso tempo firmatario di un armistizio che riconosceva il paese come potenza sconfitta e lo obbligava secondo l'art. 29 a consegnare agli alleati i criminali di guerra italiani, con Mussolini in testa. La questione dei criminali di guerra tedeschi si intrecciava dunque strettamente con quella dei criminali di guerra italiani. In nome della cobelligeranza a fianco delle Nazioni Unite, l'Italia di Badoglio e le forze dell'antifascismo rivendicarono sia il diritto di giudicare i tedeschi responsabili di crimini di guerra sul territorio italiano sia quei civili e militari italiani che si erano macchiati di crimini di guerra nei territori occupati dalle truppe di Mussolini, soprattutto nei Balcani, in Jugoslavia, Grecia, Albania. Quest'ultima richiesta, in contraddizione con l'art. 29 del cosiddetto lungo armistizio, venne poggiata su una interpretazione forzata della dichiarazione della Conferenza di Mosca. Questa aveva sottolineato che i criminali di guerra italiani sarebbero stati "consegnati alla giustizia". Da parte italiana, si richiamò la diversità della formulazione usata a Mosca per italiani e tedeschi e si sottolineò che con la frase "consegnati alla giustizia" si era voluto intendere "consegnati alla giustizia italiana".

Dunque, fin dai mesi immediatamente successivi alla proclamazione dell'armistizio le autorità italiane avanzarono con solerzia le proprie rivendicazioni sia nei confronti dei criminali tedeschi sia nei riguardi dei criminali italiani. A proposito dei crimini tedeschi furono soprattutto gli organismi antifascisti, come il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (CLNAI), a invocare la punizione dei responsabili, in testa a tutti il feldmaresciallo Albert Kesselring, capo supremo delle forze armate tedesche in Italia. Le rivendicazioni italiane si fecero più intense dopo la liberazione di Roma (giugno 1944) e la creazione del primo governo di unità antifascista guidato da Ivanoe Bonomi. Il 1 settembre 1944, alla conclusione dei suoi lavori, la commissione d'inchiesta sul massacro delle Fosse Ardeatine presieduta dal sindaco di Roma, principe Doria Pamphili, espresse la volontà di denunciare Kesselring ed Herbert Kappler alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra (United Nations War Crimes Commission - UNWCC) come principali responsabili della strage. Dal novembre 1944, poi, il Ministero degli Esteri, d'intesa con la Presidenza del Consiglio, promosse un'indagine capillare sul territorio nazionale liberato per documentare le stragi e le distruzioni compiute dalle forze germaniche al fine di arrivare alla compilazione di una lista di criminali di guerra. L'indagine coinvolse direttamente anche il Ministero della Guerra, il Ministero di Grazia e Giustizia e quello dell'Interno. Un ruolo di particolare rilievo ebbe il Comando Generale dei Carabinieri. In via riservata si chiese anche l'aiuto della Santa Sede per raccogliere prove sulle violenze subite dai sacerdoti. Dopo la Liberazione (25 aprile 1945) le prove sui crimini nazisti furono raccolte da una "Commissione centrale" istituita presso il Ministero per l'Italia occupata, presieduta dal sottosegretario Aldobrando Medici-Tornaquinci. Il Ministro per l'Italia Occupata, il comunista Mauro Scoccimarro, chiese il 1 giugno 1945 la collaborazione delle autorità alleate, britanniche e statunitensi, le quali avevano svolto accurate indagini sui crimini nazisti in Italia. Da parte alleata si dimostrò piena disponibilità a collaborare con gli italiani nelle indagini. Riserve furono invece manifestate da parte britannica a riconoscere all'Italia il diritto di processare i criminali tedeschi. Londra era allora intenzionata a porre sotto processo gli alti comandi tedeschi responsabili della "politica di rappresaglia" contro le popolazioni civili italiane e riteneva che il governo italiano non possedesse "né l'attrezzatura né l'energia per condurre a compimento processi di tale portata".

In realtà, a spingere i britannici erano anche forti ragioni politiche: la Gran Bretagna non voleva riconoscere integralmente all'Italia il diritto di giudicare il nemico tedesco sconfitto. Ciò avrebbe infatti significato distinguere nettamente fra le due ex-potenze dell'Asse, Italia e Germania, qualificando l'Italia della "cobelligeranza" come un alleato a pieno titolo, mentre Londra la considerava una nazione nemica sconfitta, che doveva ancora scontare al tavolo della pace le colpe di Mussolini.

All'inizio di agosto 1945 il governo italiano fu ufficialmente autorizzato a presentare denunce contro i criminali tedeschi alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra di Londra. Intanto all'interno degli organi istituzionali italiani si erano delineati due diversi orientamenti. Il ministero di Grazia e Giustizia era favorevole a che le istruttorie sui crimini tedeschi fossero affidate all'Alta corte di giustizia, organo giudiziario competente dall'estate del 1944 a procedere contro i maggiori responsabili del regime fascista nell'ambito della politica di epurazione. Esso avrebbe operato sulla base del decreto luogotenenziale n. 159 del 27 luglio 1944, base legislativa fondamentale di tutti i procedimenti di epurazione. Il Ministero degli Esteri e quello della Guerra erano invece del parere che la competenza nei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi spettasse alla giustizia militare sulla base dell'art 13 del codice penale militare di guerra. Fu questa la posizione che prevalse in una decisiva riunione interministeriale svoltasi il 20 agosto 1945. Dunque, a partire dalla fine di agosto, tutto il materiale d'accusa raccolto dalla Commissione Medici-Tornaquinci fu trasferito alla Procura generale militare, diretta dal procuratore Umberto Borsari. La Procura generale militare ebbe la competenza per preparare le istruttorie e le denunce a carico dei criminali tedeschi. Quest'ultime venivano trasmesse attraverso il Ministero degli Esteri alla Commissione Alleata in Italia e alla UNWCC a Londra. La commissione di Londra decideva se inserire o meno gli accusati nelle liste dei criminali di guerra, la Commissione Alleata doveva invece provvedere al rintraccio e al fermo dei ricercati.

Nei mesi successivi all'Italia fu di fatto riconosciuto il diritto di giudicare i criminali di guerra tedeschi, esclusi però gli ufficiali superiori, dal grado di generale di divisione in su, e quanti risultavano già sottoposti a processo da parte di una nazione alleata. Rifacendosi al dettato della Conferenza di Mosca, il governo italiano rivendicò il diritto di giudicare tutti i criminali di guerra tedeschi, senza distinzione di grado, nonché il diritto di processare in un secondo momento anche quanti erano stati richiesti da nazioni alleate (era il caso del generale Mueller accusato per le fucilazioni di militari italiani nelle isole dell'Egeo e consegnato dagli alleati al governo greco). In seconda istanza, l'Italia rivendicò, senza successo, la possibilità che fossero istituite corti miste anglo-italiane per giudicare i maggiori responsabili tedeschi di crimini di guerra. L'unico risultato ottenuto fu la partecipazione di osservatori italiani ai processi condotti dalle corti militari inglesi.

I processi condotti presso le corti militari britanniche (1946-1947)

Nell'estate del 1945, le autorità inglesi avevano concluso le loro indagini sui crimini commessi dai tedeschi in Italia con un rapporto generale, in cui era stata prevista l'istruzione di due grandi processi: un processo contro i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine a Roma e un processo contro gli ufficiali tedeschi di alto rango, comandanti di corpo d'armata, di armata e di divisione, "who participated in a general plan to terrorise the population by reprisals". Come imputati nel primo processo sarebbero dovuti comparire il Feldmaresciallo Kesselring, il generale von Mackensen (comandante della XIV Armata), il generale Mältzer (Comandante della Piazza militare di Roma), l'Obersturmbannführer Herbert Kappler che aveva selezionato le vittime e sovrinteso alla loro esecuzione, l'SS-Brigadeführer e generale di brigata della polizia Wilhelm Harster che aveva trattato con Kappler la selezione delle vittime. Il secondo processo avrebbe visto a sua volta sul banco degli accusati nove generali tedeschi (compreso il comandante supremo Albert Kesselring), come responsabili dell'organizzazione delle rappresaglie su grande scala contro i partigiani e la popolazione civile italiana condotte in particolare fra il giugno e il settembre 1944.

Il processo per le Fosse Ardeatine venne effettivamente svolto a Roma nel novembre del 1946 contro i generali Mältzer e von Mackensen. Come tutti i successivi procedimenti britannici, il processo di Roma fu tenuto presso una corte militare sulla base del codice militare inglese e del Royal Warrant del 18 giugno 1945, che sanzionavano i crimini di guerra intesi in senso tradizionale, ovvero le violazioni delle leggi e degli usi di guerra secondo il diritto vigente. Sia Mältzer sia von Mackensen furono riconosciuti colpevoli e condannati a morte il 30 novembre 1946. Il secondo grande processo invece non venne condotto secondo i propositi originari. Esso venne di fatto smembrato in un processo che si tenne a Venezia dal 10 febbraio al 6 maggio 1947 contro il Feldmaresciallo Kesselring e in una serie di processi minori, condotti a Padova fra l'aprile e il giugno dello stesso anno, contro il generale di polizia Willy Tensfeld, contro l'ex comandante della XXVI divisione Panzer, generale Edward Crasemann, contro il comandante della XVI divisione granatieri corazzati SS, generale Max Simon. Quello contro Max Simon, svoltosi dal 29 maggio al 26 giugno 1947, fu l'ultimo dei processi ai criminali di guerra tedeschi celebrati in Italia dagli inglesi. Il 10 dicembre 1947 il Foreign Office prese formalmente la decisione "that no Germans will in future be tried by British Military Courts for war crimes committed against Italian victims". Eccetto Tensfeld che venne assolto, tutti gli altri imputati - Kesselring, Crasemann e Simon - furono riconosciuti colpevoli. Kesselring, accusato sia per la strage delle Fosse Ardeatine sia come responsabile della lotta antipartigiana che aveva condotto alle cruente rappresaglie contro la popolazione civile italiana, fu condannato il 6 maggio 1947 alla pena di morte. Analoga sentenza ricevette il generale Simon, responsabile di numerose stragi di civili in Toscana e in Liguria. Il generale Crasemann fu invece condannato a dieci anni di reclusione.

Nessuna delle sentenze di morte comminate dai tribunali inglesi fu mai eseguita. Già all'indomani della sentenza Kesselring, furono esercitate grosse pressioni in Gran Bretagna per una revisione del giudizio e una mitigazione della pena. Gli interventi più autorevoli in questo senso furono quelli dell'ex premier conservatore Winston Churchill, che scrisse al primo ministro Clement Attlee, e del generale Alexander, l'avversario di Kesselring nella campagna d'Italia, che riconobbe al generale tedesco e ai suoi uomini di aver combattuto "hard but clean". Il nuovo contesto internazionale, caratterizzato dall'avvio della guerra fredda con la formazione di blocchi contrapposti e dall'avvio della nuova Deutschlandpolitik anglo-americana favorevole alla rapida ricostruzione politica ed economica delle zone occidentali della Germania, rendeva politicamente inopportuna l'attuazione di una politica giudiziaria severa nei confronti degli ex-nemici tedeschi. Le pressioni a favore dei criminali di guerra tedeschi ebbero dunque un rapido effetto: il 29 giugno 1947 la sentenza di morte inflitta a Kesselring, Mältzer e von Mackensen fu commutata in ergastolo. E poco dopo analoga decisione venne presa per Max Simon. Kesselring e von Mackensen furono liberati già nel 1952. Stessa sorte toccò tre anni dopo a Simon. Mältzer invece morì in carcere.

La storiografia italiana ha giustamente ravvisato nel processo a Kesselring un punto di svolta nella politica giudiziaria britannica, ovvero il passaggio da una prima fase caratterizzata dalla effettiva volontà di procedere contro i maggiori responsabili tedeschi di crimini di guerra in Italia ad una seconda fase di decelerazione e di vero e proprio ripensamento dell'azione punitiva, culminata successivamente nelle amnistie e scarcerazioni dei primi anni cinquanta. Particolare attenzione è stata prestata da studiosi come Michele Battini e Paolo Pezzino al progetto inglese, mai realizzato, di organizzare un unico grande processo agli ufficiali tedeschi d'alto rango responsabili di aver pianificato la lotta antipartigiana e le stragi di civili. Su questo mancato processo è stata posta molta enfasi, tanto da evocare una "mancata Norimberga italiana". La definizione non pare però del tutto appropriata e rischia di essere fuorviante. Per gravità di crimini e ruolo degli accusati sembra improponibile l'equiparazione con il processo tenutosi a Norimberga dal 14 novembre 1945 al 1 ottobre 1946 contro i maggiori gerarchi nazisti, chiamati a rispondere di "crimini contro l'umanità" e di "crimini contro la pace", crimini "non localizzabili", definiti da un nuovo diritto internazionale. Segna senza dubbio una differenza significativa il fatto che gli ufficiali tedeschi da portare in giudizio in Italia sarebbero stati giudicati sulla base del Royal Warrant britannico e non sulla base dell'impianto giuridico predisposto per il tribunale internazionale di Norimberga. L'utilizzazione del termine "mancata Norimberga italiana" pare in definitiva più opportuna in riferimento alla mancata punizione dei criminali di guerra italiani, mai consegnati ai paesi in cui avevano commesso i loro delitti e mai giudicati in Italia nonostante le autorità di governo italiane ne avessero espresso l'intendimento.

Come sostengono Battini e Pezzino, un grande processo ai responsabili tedeschi della guerra in Italia avrebbe sicuramente avuto un forte significato politico e un impatto rilevante sull'opinione pubblica italiana ed internazionale. Occorre tuttavia rilevare che sia il processo di Roma contro Mältzer e von Mackensen sia quello di Venezia contro Kesselring furono processi molto importanti, seguiti con spasmodica attenzione dalla stampa italiana, e capaci di provare efficacemente il carattere criminale della condotta tedesca. I limiti della giustizia britannica si manifestarono piuttosto in seguito, con la commutazione della pena e la liberazione dei prigionieri. Facendo un paragone, la giustizia britannica si rivelò più severa contro i criminali di guerra italiani che contro i tedeschi. Infatti, comminò ed eseguì alcune condanne a morte contro militari italiani che avevano commesso crimini bellici (specialmente ai danni di prigionieri di guerra inglesi), come è il caso ben conosciuto del generale Nicola Bellomo, fucilato l'11 settembre 1945 perché responsabile dell'uccisione di un prigioniero di guerra inglese durante un tentativo di fuga e come è il caso, meno noto, del capitano Italo Simonetti giustiziato il 27 gennaio 1947 per aver fatto fucilare un aviatore inglese lanciatosi col paracadute.

I processi condotti nel primo dopoguerra dai tribunali militari italiani (1947-1951)

La Procura Generale Militare di Roma istruì un gran numero di procedimenti, basati su circa duemila duecento notizie di reato, e inoltrò tramite il Ministero degli Esteri alla Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra domande di estradizione riguardanti oltre cento presunti criminali di guerra tedeschi (105 persone richieste al 31 dicembre 1946). Ventitre di loro furono consegnati dalle autorità alleate al governo italiano per essere processati. A fronte di una mole considerevole di procedimenti avviati, solo pochi furono i processi effettivamente svolti presso i tribunali militari italiani.

L'azione della giustizia italiana può essere suddivisa in due fasi: una compresa fra il 1947 e il 1949, l'altra fra il 1950 e il 1951. Lo spartiacque fra le due fasi è rappresentato dalla nascita del primo governo tedesco occidentale guidato da Adenauer nel settembre 1949. Come vedremo, dopo la creazione della Repubblica federale tedesca, si evidenziò una minore incisività dell'azione punitiva italiana, con molte misure di riduzione della pena  e assoluzioni degli accusati.  Sulla base dei dati disponibili, risulta che nel primo periodo si ebbero cinque processi: il processo svoltosi a Firenze fra il maggio e il giugno 1947 contro il colonnello Rudolf Fenn e il capitano Theo Krake, entrambi della organizzazione Todt; il processo per la strage delle Fosse Ardeatine tenuto a Roma dal 3 maggio al 20 luglio 1948 contro Kappler e altri cinque militari tedeschi; il processo di Firenze contro il maggiore Josef Strauch imputato per la strage del Padule di Fucecchio, arrivato a sentenza il 23 settembre 1948; il processo di Roma contro nove militari tedeschi responsabili di violenze e uccisioni sull'isola di Rodi, terminato il 16 ottobre 1948; il processo, infine, per la strage di Borgo Ticino contro il capitano di Marina Waldemar Krumhaar, conclusosi a Torino il 31 marzo 1949. Otto furono gli imputati riconosciuti colpevoli e condannati a pene detentive: al capitano Krake furono inflitti due anni di reclusione per violenza continuata consistente in percosse contro cittadini italiani; il tenente colonnello Kappler fu punito con l'ergastolo; il maggiore Strauch fu condannato a sei anni di reclusione; del cosiddetto «gruppo di Rodi», il generale Otto Wagener fu condannato a 15 anni di reclusione, il tenente Walter Mai a 12 anni, il maggiore Herbert Nicklas a 10 anni, il caporale Johann Felten a 9 anni; infine, il capitano Waldemar Krumhaar ebbe quattro anni e cinque mesi di reclusione (ma solo per il saccheggio di Borgo Ticino, non per la fucilazione di dodici cittadini italiani da lui ordinata).

I tedeschi furono giudicati sulla base degli articoli 185 e 211 del Codice penale militare di guerra, che sanzionavano le violenze e le uccisioni commesse da militari italiani contro civili o prigionieri di guerra nemici. Sulla base dell'art. 13, queste disposizioni del codice militare risultavano estensibili anche ai reati analoghi commessi da soldati nemici ai danni degli italiani e dunque applicabili ai militari tedeschi.

Anche nella fase successiva (1950-51) si contano almeno cinque processi: il capitano Alois Schmidt fu condannato a Napoli il 6 aprile 1950 a 8 anni di reclusione per il reato di concorso in rappresaglia continuata per gli eccidi di Pian di Lot in Giaveno e di via Cibrario a Torino; il capitano Franz Covi fu condannato nello stesso anno a Torino a 14 anni e 8 mesi di reclusione per l'uccisione di due partigiani; il tenente Alois Schuler, fu invece assolto il 27 giugno 1950 dal tribunale militare territoriale di Roma dall'accusa di omicidio ai danni di un operaio italiano deportato in Germania e lo stesso tribunale assolse nel luglio 1950 il comandante della divisione Hermann Göring, generale Wilhelm Schmalz, chiamato in giudizio per le sanguinose rappresaglie messe in atto contro i partigiani nella zona di Arezzo; infine, il maggiore delle SS Walter Reder fu condannato all'ergastolo nell'ottobre del 1951 dal tribunale militare territoriale di Bologna per la strage di Marzabotto.

I dati sopra riportati, ricavati dalle carte del Ministero degli Affari Esteri e che indicano dieci processi nel periodo 1947-1951, possono considerarsi quasi completi. Un'indagine della magistratura militare italiana condotta negli anni novanta ha rivelato che nel 1965 si contavano in totale 13 processi contro criminali di guerra tedeschi con 25 imputati. Alla luce di questi numeri, si può parlare di una vera e propria anomalia italiana: in uno dei paesi dell'Europa occidentale che più aveva subito la violenza omicida delle forze d'occupazione tedesche si erano condotti solo un numero irrisorio di processi (diciotto in tutto se si calcolano anche quelli istruiti dai britannici). Ciò configura una situazione che non può essere paragonata, per fare un esempio, né con quella della Francia dove i processi contro i criminali di guerra tedeschi furono centinaia con circa 50 condanne a morte eseguite, né con quella di un piccolo paese come la Danimarca, dove vennero svolti più di settanta processi ed eseguite quattro condanne capitali.

Quali furono i motivi che concorsero a determinare quest'esito negativo? Se ne possono individuare almeno quattro.

Innanzitutto, l'imprecisione delle domande d'estradizione che in molti casi non contenevano «elementi completi di identificazione» tali da poter individuare con esattezza le persone incriminate. Questo fattore ebbe una qualche rilevanza, ma non si può considerare in alcun modo il principale. Esso non fornisce una spiegazione convincente. Molti erano, infatti, i criminali tedeschi che potevano essere facilmente rintracciati con una migliore collaborazione fra le autorità italiane e quelle alleate in Italia. Questo non avvenne per responsabilità italiana. Basti pensare che nell'estate del 1946 gli Alleati sollecitarono il governo di Roma a chiedere la consegna di criminali di guerra tedeschi ancora presumibilmente internati nei loro campi di raccolta, prima che fossero rimpatriati. Da parte alleata si notò in quel periodo una certa esitazione nell'azione italiana. E' vero che il Ministero degli Esteri rivendicò allora il diritto dell'Italia di processare anche gli alti gradi delle forze armate tedesche (il cui giudizio competeva agli inglesi) e a questo scopo propose l'istituzione di corti miste anglo-italiane. Tuttavia il governo italiano non fece affatto il possibile per assicurare alla giustizia i tanti militari tedeschi di grado inferiore, diretti responsabili di gravi atrocità. Le autorità italiane si mostrarono più intenzionate a punire esemplarmente i maggiori responsabili tedeschi di crimini di guerra, coloro che avevano emanato gli ordini, che non a perseguire su vasta scala i gregari e gli esecutori materiali.

Interviene qui un secondo fattore esplicativo, che ebbe un peso sicuramente maggiore. Fin dal gennaio 1946 il Ministero degli Esteri aveva individuato il pericolo che un'ondata di richieste e di processi di criminali di guerra tedeschi avrebbe potuto legittimare le richieste di criminali di guerra italiani mosse dai paesi aggrediti dall'Italia fascista come l'Etiopia, la Grecia, l'Albania, l'Unione Sovietica, e soprattutto la Jugoslavia. Era il pericolo dell' «effetto boomerang» richiamato dall'ambasciatore a Mosca, Pietro Quaroni. Il pericolo era fortemente avvertito dal governo De Gasperi, che al 31 dicembre 1945 aveva già ricevuto oltre 450 richieste di criminali di guerra italiani. Proprio in considerazione del legame fra questione dei criminali di guerra italiani e questione dei criminali di guerra tedeschi, nel settembre 1946 il direttore degli Affari Politici del Ministero degli Esteri, conte Vittorio Zoppi, aveva sottolineato che occorreva «non spingere troppo» per la richiesta dei criminali tedeschi.

L'importanza del legame fra i processi ai criminali di guerra tedeschi e i processi ai criminali di guerra italiani, che il governo di Roma pretendeva di giudicare in Italia presso tribunali italiani, è ulteriormente testimoniata dal comunicato ufficiale diramato nel maggio 1947, alla vigilia dell'inizio del primo processo contro criminali tedeschi svoltosi a Firenze contro Fenn e Krake. Il comunicato sottolineava che, in linea di principio, ogni paese aveva il diritto di giudicare i propri cittadini accusati di aver commesso crimini di guerra. Ma poiché in Germania mancava un governo capace di esercitare quel diritto, si era "reso necessario" che la Magistratura italiana provvedesse a tale giudizio "secondo le norme vigenti del diritto italiano". Le autorità italiane cercavano di evitare in questo modo la possibilità che i paesi che avevano subito l'aggressione fascista potessero prendere spunto dalla volontà del governo De Gasperi di giudicare criminali di guerra tedeschi per rinnovare la richiesta di giudicare a loro volta i criminali di guerra italiani.

Se per tutto il 1946 e almeno i primi mesi del 1947 Gran Bretagna e Stati Uniti avevano collaborato pienamente con l'Italia nel rintraccio e nella consegna dei criminali di guerra tedeschi (e anzi l'avevano sollecitata all'azione), successivamente i due governi alleati mutarono del tutto il proprio atteggiamento. Si situa qui un terzo, importante, fattore che spiega il fallimento della giustizia. Col maturare, dopo l'annuncio del piano Marshall nel giugno 1947, della politica di ricostruzione di una forte Germania occidentale, le autorità britanniche e statunitensi mostrarono una progressiva riluttanza a consegnare le persone inquisite. Tale atteggiamento culminò nella decisione americana di fissare al 1 novembre 1947 la data ultima per la consegna delle richieste di estradizione per i tedeschi accusati di crimini di guerra residenti nella propria zona d'occupazione in Germania e nell'analoga decisione di Londra che stabilì per la zona d'occupazione britannica la data del 1 settembre 1948. Le autorità alleate si riservarono di prendere in considerazione solo «casi eccezionali». Tali non furono considerati né la strage di Cefalonia né la strage di Sant'Anna di Stazzema, in merito alla quale nell'estate del 1948 fu vanamente avanzata da parte italiana una richiesta di estradizione di testimoni tedeschi.

Il quarto fattore rimanda al ristabilimento dopo il 1949 delle relazioni politiche e diplomatiche fra Italia e Germania, cui già si è fatto cenno. Il governo a guida democristiana di De Gasperi avviò subito stretti rapporti politici con la Germania federale di Adenauer. L'Italia sostenne sia l'ingresso della Germania nel Consiglio d'Europa sia le proposte di riarmo tedesco formulate fin dal settembre 1950. Numerosi furono i contatti personali fra esponenti della Democrazia cristiana italiana e i due partiti cristiani tedeschi, la CDU e la CSU. Un efficace canale di contatto fra l'Italia e la Germania occidentale fu rappresentato anche dal Vaticano, dove Pio XII era circondato da fidati collaboratori tedeschi come padre Leiber e monsignor Kaas, l'ex-leader del Zentrum (il partito dei cattolici tedeschi). Il riavvicinamento italo-tedesco degli anni 1949-1951 contribuisce a spiegare la scarsa incidenza e la paralisi dell'azione italiana contro i criminali di guerra nazisti. In nome dell'amicizia con Bonn, l'Italia infatti si allineò a Londra e a Washington contrarie alla prosecuzione di una politica punitiva e favorevoli invece alla riabilitazione, anche giudiziaria, degli ex-nemici.

Le assoluzioni di Schuler e di Schmalz possono essere considerate significative di un affievolimento della volontà italiana di procedere contro i criminali tedeschi. Ma ancor più rilevante è il fatto che quei pochi criminali condannati dai tribunali italiani poterono contare assai presto, ad eccezione di Kappler e di Reder, su misure straordinarie di condono della pena che condussero in tempi brevi alla loro liberazione. A premere in questa direzione fu sia la Chiesa cattolica, all'interno della quale si distinse il vescovo austriaco di Santa Maria dell'Anima a Roma, Alois Hudal, sia lo stesso governo di Bonn, prima attraverso il proprio «incaricato speciale» Giovanni von Planitz e l'inviato speciale Heinrich Höfler, poi attraverso il proprio Consolato generale di Roma aperto nel dicembre 1950. Il governo italiano venne incontro pienamente alle richieste del Vaticano e dell'alleato tedesco.

In vista dell'Anno Santo (1950), con decreto presidenziale emanato il 23 dicembre 1949, il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi concesse ai criminali di guerra tedeschi un condono della pena di tre anni. Grazie a questa misura, il maggiore Strauch, responsabile della strage di 175 civili, fu rimesso in libertà il 29 gennaio 1950. Poco più tardi, nell'ottobre 1950, un altro decreto presidenziale concesse la grazia ad Alois Schmidt. Emblematica fu soprattutto la vicenda del «gruppo di Rodi», ovvero dei quattro ufficiali e sottufficiali tedeschi condannati a Roma nell'ottobre 1948, Wagener, Nicklas, Mai e Felten, responsabili della fucilazione indiscriminata di 29 prigionieri italiani. Adenauer inviò in Italia il proprio amico personale e compagno di partito Heinrich Höfler, membro del Bundestag e presidente della Caritas tedesca. Höfler si incontrò il 26 novembre 1950 con il segretario generale degli Esteri, conte Zoppi, da cui ottenne la promessa della liberazione dei quattro criminali del «gruppo di Rodi». Zoppi chiese soltanto che la questione fosse gestita col massimo riserbo per evitare fughe di notizie e reazioni nell'opinione pubblica italiana. Nei mesi successivi, tramite decreti di grazia firmati dal Presidente Einaudi e controfirmati dal ministro della Difesa Pacciardi, i quattro militari tedeschi ottennero la libertà e furono rimpatriati in gran segreto. Il 7 giugno 1951 l'ultimo di essi (il maggiore Nicklas) tornava in Germania. Tutto era avvenuto all'oscuro dell'opinione pubblica italiana. Pochi giorni dopo il cancelliere Adenauer compiva la sua visita di Stato a Roma, sancendo in cordiali colloqui con De Gasperi la perfetta intesa politica fra l'Italia e la Repubblica federale tedesca.

Dopo che nel novembre 1950 anche Franz Covi fu rimpatriato in Germania, nelle carceri italiane restarono solo Kappler e Reder, i responsabili delle due stragi più note ed esecrate, simbolo per tutti della ferocia germanica: le Fosse Ardeatine e Marzabotto. Sarebbe stato impossibile liberarli all'insaputa del paese, che avrebbe sicuramente reagito con energia. Le reazioni sollevate molti anni dopo, nel 1977 al momento della fuga-farsa di Kappler da Roma e nel 1985 quando Reder fu graziato e tornò in Austria, dimostrano quali fossero i sentimenti che predominavano fra gli italiani.

In conclusione, non solo l'Italia riuscì a portare sul banco degli accusati solo una manciata di criminali di guerra tedeschi. Ma fece in modo di rimettere presto in libertà quasi tutti i condannati.

Può essere interessante fare a questo punto un breve confronto con l'azione giudiziaria svolta nel dopoguerra in Italia contro i collaborazionisti fascisti. Molte delle azioni più sanguinarie contro i partigiani e contro le popolazioni civili erano state condotte da reparti militari e da milizie regolari e irregolari del partito fascista inquadrati sotto le insegne della Repubblica sociale italiana. Elementi fascisti italiani avevano preso parte a violenze ed eccidi commessi dalle truppe tedesche e un numero ancor maggiore di delitti avevano commesso agendo in maniera autonoma. I delitti perpetrati andavano dalla tortura alla strage, configurandosi come crimini di guerra analoghi a quelli imputati ai tedeschi. La base giuridico-legislativa sulla quale i delitti fascisti furono giudicati fu però nettamente diversa. Mentre i criminali tedeschi furono giudicati dai tribunali militari sulla base del codice penale militare di guerra, i criminali fascisti furono giudicati in massima parte da tribunali civili sulla base del diritto penale ordinario e, soprattutto, sulla base dell'apposita legislazione elaborata ai fini dell'epurazione, che poggiava sui decreti luogotenenziali n. 159 del 27 luglio 1944 e n. 142 del 22 aprile 1945. Tale legislazione riconduceva le varie tipologie di reato - fra cui alcune comprendenti crimini di guerra come "rastrellamenti"; "arresti, percosse, sevizie"; "uccisioni di partigiani o civili"; "partecipazione a plotoni di esecuzione" - alla categoria più generale di "collaborazione col tedesco invasore".

A giudicare i "delitti fascisti" furono l'Alta corte di giustizia, attiva dal settembre 1944 all'ottobre 1945 e, soprattutto, le Corti straordinarie d'Assise e le Sezioni speciali delle Corti d'Assise, che operarono dal maggio 1945 al 31 dicembre 1947. L'Alta corte di giustizia, che avrebbe dovuto perseguire i maggiori responsabili dei crimini fascisti, svolse in totale 16 processi con 99 imputati e comminò 4 condanne a morte, 6 ergastoli, 3 condanne a 30 anni e altre a pene minori. Fra le persone condannate figuravano funzionari di polizia, banchieri, generali e diplomatici. Solo pochi furono accusati di crimini di guerra veri e propri. Fra questi l'ex questore di Roma Pietro Caruso, che aveva partecipato alla compilazione delle liste delle vittime delle Fosse Ardeatine, condannato a morte e fucilato a Roma nel settembre 1944. E Pietro Koch, capo famigerato di una banda fascista responsabile di innumerevoli delitti a Roma, Firenze e Milano, anch'egli condannato a morte e fucilato nel giugno 1945. Ma il grosso dei processi fu svolto dalle Corti straordinarie d'Assise e poi dalle Sezioni speciali delle Corti d'Assise, organi speciali della magistratura ordinaria con un collegio di giudici popolari scelti dai Comitati di liberazione nazionale e dunque molto "sensibili" alle istanze di giustizia diffuse nel paese nell'immediato dopoguerra. Tali organi posero sotto processo oltre 20 mila fascisti, emanarono quasi seimila condanne, fra cui circa 500 sentenze capitali e decine di ergastoli. Delle condanne a morte 91 furono effettivamente eseguite. Mancano dati su scala nazionale riguardo alla tipologia dei reati sanzionati. Per capire quanti di essi si potessero configurare come crimini di guerra, può essere utile prendere un caso significativo come quello della Corte speciale d'Assise di Milano. Qui il 17 per cento delle sentenze riguardò il reato di rastrellamento, il 13 per cento arresti, percosse e sevizie, il 7 per cento uccisioni di partigiani o civili, l'1 per cento partecipazione a plotoni di esecuzione. La parte numericamente più significativa delle sentenze, circa il 30 per cento, puniva le delazioni, ovvero un reato non ascrivibile fra i crimini di guerra.

Gran parte dei processi furono condotti nel 1945, quando era ancora molto diffuso nel paese un forte risentimento nei confronti dei fascisti. A partire dall'inizio del 1946 l'azione punitiva contro i collaborazionisti cominciò a subire un rallentamento. Molte condanne di primo grado furono annullate dalla Corte di cassazione e le sentenze mitigate. Già nel giugno 1946, come noto, Palmiro Togliatti, Ministro della Giustizia e leader del Partito comunista, promulgò un'amnistia generale che, in nome della "riconciliazione nazionale", portò rapidamente alla liberazione della maggior parte dei fascisti allora in carcere sotto condanna o in attesa di giudizio. Su 12 mila fascisti imprigionati, 7 mila furono rimessi in libertà entro il 31 luglio 1946. Nel luglio dell'anno successivo ne rimanevano dietro le sbarre circa duemila. Nel 1952 ne restavano soltanto 266. Una nuova amnistia concessa il 19 novembre 1953 estese i benefici della legge anche a quei fascisti che si erano dati alla latitanza e liberò praticamente tutti i detenuti. Tale inversione di tendenza nella politica di punizione contro i fascisti ebbe un'accelerazione dopo la sconfitta elettorale delle sinistre dell'aprile 1948. Fra il 1948 e il 1950 una serie di processi contro alcuni dei maggiori responsabili delle violenze perpetrate durante la guerra civile dagli uomini della Repubblica sociale terminarono con sentenze oltremodo benevole. Nel febbraio 1949, il comandante della Decima Mas, Junio Valerio Borghese, imputato di responsabilità dirette in 43 omicidi, fu condannato a 12 anni di reclusione, ma ottenne immediatamente la libertà grazie ad un condono. Nel maggio 1950 il comandante supremo delle forze militari di Mussolini, maresciallo Rodolfo Graziani, fu condannato da un tribunale militare a 19 anni di prigione. Anche Graziani poté tuttavia usufruire di un condono molto favorevole, che gli consentì di lasciare la prigione appena tre mesi dopo la sentenza.

La benevolenza dimostrata dai giudici ordinari nei confronti dei criminali fascisti soprattutto dopo il 1948 corrisponde a quella manifestata a partire grossomodo dallo stesso periodo dai giudici militari nei confronti dei criminali di guerra tedeschi. Analoga ad esempio risulta la concessione delle attenuanti per atti di valore e per le ferite di guerra. Netta risulta però la differenza se si considera la prima fase dell'azione giudiziaria contro i collaborazionisti (1945-46), caratterizzata da migliaia di processi e da severe condanne. Spicca soprattutto la presenza di condanne a morte contro collaborazionisti, a fronte di una loro totale mancanza relativamente ai criminali di guerra tedeschi.

Questo punto merita un approfondimento. La normativa su cui si basavano i procedimenti per collaborazionismo prevedeva l'estensione anche agli imputati civili delle norme del codice penale militare di guerra, come ad es. l'art. 51 ("aiuto al nemico"), che prescrivevano la pena di morte. L'art. 185 ("violenza con omicidio contro privati cittadini") del codice penale militare di guerra, base giuridica dei procedimenti contro i criminali di guerra tedeschi, rimandava invece per le pene da comminare al codice penale comune. Poiché una legge dell'agosto 1944 aveva abolito da questo codice la pena di morte che rimaneva però applicabile in base al codice militare, si creò una significativa distinzione fra i colpevoli di collaborazionismo punibili con la pena di morte in base all'ordinamento giuridico militare e i tedeschi colpevoli di crimini di guerra per i quali le pene erano invece applicate sulla base della legislazione ordinaria da cui era stata abolita la pena capitale.

La possibilità di imporre quest'ultima ai criminali di guerra tedeschi fu discussa nell'autunno del 1947, in fase di istruttoria del processo contro Kappler, fra la Procura generale militare, il Ministero della Giustizia e il Ministero degli Esteri. Sia la Procura generale militare sia il Ministero di Grazia e Giustizia sostennero la possibilità di applicare la pena di morte nella circostanza in cui l'imputato avesse violato più volte l'art. 185, meritando più di un ergastolo. In questo caso sarebbe infatti scattato l'art. 54 del codice penale militare che prevedeva  l'applicazione della pena di morte in presenza di più condanne all'ergastolo. Il Ministero degli Esteri mostrò invece di propendere per l'inapplicabilità della sentenza capitale. Fu questo il punto di vista che si impose. A spingere Palazzo Chigi, allora sede degli Esteri, in questa direzione furono non solo ragioni giuridiche ma anche e soprattutto ragioni di opportunità politica. Subito dopo la condanna a morte comminata a Kesselring nel maggio 1947 dal tribunale militare britannico, l'ambasciata inglese aveva contattato il Ministero per chiedere se il Maresciallo tedesco avrebbe potuto ricevere una sentenza capitale da un tribunale italiano. Le autorità britanniche si erano valse della risposta negativa ricevuta dagli italiani per motivare la commutazione della pena di morte in ergastolo concessa poco dopo a Mältzer, von Mackensen e Kesselring. A sua volta, Palazzo Chigi aveva prontamente sollecitato Londra affinché applicasse lo stesso trattamento, ovvero la commutazione della pena capitale in ergastolo, a quattro cittadini italiani condannati a morte da corti britanniche, tre dei quali accusati di crimini di guerra. La manovra messa in atto dal Ministero degli Esteri spiega l'altrimenti sorprendente mancanza di reazioni ufficiali italiane alla notizia della commutazione della pena a favore di Kesselring e degli altri generali tedeschi e anche la silente passività di quasi tutta la stampa nazionale. Ancora una volta la preoccupazione per la salvaguardia dei criminali di guerra italiani prevalse sulla volontà di punizione dei criminali tedeschi. Alla fine, l'unico criminale di guerra tedesco giustiziato per crimini commessi in Italia risulta essere stato il generale Anton Dostler, responsabile dell'uccisione di un commando americano a La Spezia, condannato a morte dalle autorità statunitensi e giustiziato il 1 dicembre 1945. Nessun tedesco ha pagato con la vita per gli omicidi commessi contro italiani.

L'"armadio della vergogna" e la ripresa dei processi contro i criminali di guerra tedeschi negli anni novanta

La particolare "soluzione" italiana in merito ai procedimenti contro i crimini di guerra tedeschi è venuta alla luce nel 1994, allorché il procuratore militare Antonino Intelisano, alla ricerca di vecchi atti giudiziari del processo Kappler, si è imbattuto in un armadio sigillato e con le ante rivolte verso le pareti. L'armadio, ben presto noto come l'"armadio della vergogna", conteneva centinaia di fascicoli di denunce e indagini giudiziarie su crimini di guerra compiuti dalle forze di occupazione tedesche in Italia e in parte anche da unità della Repubblica sociale italiana. I fascicoli risultavano "provvisoriamente archiviati" dalla Procura Generale Militare nel gennaio 1960. L'occasione per le ricerche di Intelisano era stata la preparazione del processo contro l'ex-ufficiale delle SS Erich Priebke, membro dello stato maggiore di Kappler. Priebke aveva partecipato alla compilazione delle liste delle vittime delle Fosse Ardeatine e ucciso personalmente alcuni dei condannati. Scoperto in Argentina da un collaboratore di Simon Wiesenthal, era stato estradato in Italia nel 1995. Il primo processo a suo carico, svoltosi presso il tribunale militare di Roma, si concluse il 1 agosto 1996 con un proscioglimento dell'imputato, che suscitò le indignate proteste di larga parte dell'opinione pubblica. Il Ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick fece tuttavia arrestare immediatamente Priebke con la motivazione di un'imminente richiesta di estradizione della Germania. Dopo che il giudizio di primo grado fu annullato dalla Corte di Cassazione, Priebke fu processato di nuovo presso il tribunale militare di Roma e condannato il 22 giugno 1997 a 15 anni di reclusione. A seguito di un ricorso, si è giunti ad un nuovo procedimento, con cui la Corte militare di appello il 7 marzo 1998 ha confermato il verdetto di colpevolezza e ha rafforzato la pena, condannando l'imputato all'ergastolo. A Priebke sono stati concessi gli arresti domiciliari.

Frattanto un'indagine interna condotta dall'organo di autogoverno della giustizia militare, il Consiglio della magistratura militare, faceva luce sulla vicenda dell'"archiviazione provvisoria" dei fascicoli sulle violenze e le stragi nazifasciste rinvenuti da Intelisano. La scelta di concentrare tutto il materiale d'indagine presso la Procura generale militare era stata presa nel 1945 dall'allora procuratore generale Umberto Borsari, d'accordo con il governo De Gasperi. Dei circa duemila fascicoli raccolti, solo 20 erano stati regolarmente inviati nell'immediato dopoguerra alle competenti procure militari territoriali perchè procedessero contro i responsabili dei crimini di guerra. Tutti gli altri fascicoli erano stati viceversa indebitamente trattenuti presso la Procura generale militare, fino a che il 14 gennaio 1960 l'allora Procuratore generale militare Enrico Santacroce aveva disposto la loro "provvisoria archiviazione", ricorrendo ad un procedimento inesistente nell'ordinamento italiano e dunque illegale. Fra il 1965 e il 1968 circa 1250-1300 fascicoli erano stati poi trasmessi alle procure militari sul territorio. Ma si trattava dei fascicoli contenenti soltanto atti contro ignoti, in cui mancava completamente l'indicazione degli autori del reato, e dunque inutilizzabili ai fini dell'apertura di un procedimento. L'"abusivo trattenimento degli atti da parte della Procura Generale Militare" veniva ricondotto dal Consiglio della magistratura militare a motivi di natura politica. Si faceva infatti riferimento alla decisione presa nell'ottobre 1956 dal Ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani e dal Ministro degli Esteri Gaetano Martino di bloccare la richiesta di estradizione di cittadini tedeschi preparata da una procura militare italiana che stava istruendo un procedimento contro i responsabili delle stragi di militari italiani a Cefalonia e a Corfù. La decisione era stata presa per non mettere in difficoltà l'alleato tedesco, da poco entrato a far parte della NATO, impegnato in un progetto di riarmo delle proprie forze armate, contro il quale agiva una forte opposizione interna ed internazionale. In realtà, come si è visto, la cura dei rapporti italo-tedeschi aveva agito contro il regolare corso della giustizia già all'indomani della nascita della Repubblica federale tedesca, con l'accordo segreto del novembre 1950 che aveva portato alla liberazione di numerosi criminali di guerra tedeschi.

La scoperta dell'"armadio della vergogna" aveva comunque l'effetto di rimettere in moto la giustizia. Fra il novembre 1994 e il maggio 1996 venivano infatti trasmessi alle procure militari competenti 695 fascicoli, di cui 280 rubricati quali procedimenti contro ignoti, per lo più militari tedeschi ma anche fascisti italiani, e 415 riguardanti invece militari identificati, in maggioranza tedeschi e in parte uomini dei reparti della Repubblica sociale italiana. Nella maggior parte dei casi le procure hanno dovuto dichiarare il definitivo non luogo a procedere per prescrizione del reato o perché gli indagati nel frattempo erano deceduti. In alcuni casi però si sono potuti riaprire i procedimenti contro presunti criminali di guerra ancora in vita. Poiché la Legge fondamentale tedesca di fatto impedisce la possibilità di una loro estradizione (condizionata al consenso dell'interessato), si sono potuti svolgere in Italia solo dei processi in contumacia. Così il tribunale militare di Torino nel 1999 ha condannato all'ergastolo i due ex-ufficiali delle SS, Theo Saevecke e Friedrich Siegfried Engel, nel periodo 1943-45 rispettivamente a capo della Polizia di sicurezza e del Servizio di sicurezza a Milano e a Genova. Contro Saevecke, che nel dopoguerra aveva ricoperto in Germania incarichi di prestigio fino alla nomina a vicecapo della polizia di sicurezza di Bonn, la Procura di Osnabrück ha aperto un procedimento giudiziario nell'autunno 2000, poi archiviato in seguito alla morte dell'indagato avvenuta nel dicembre 2000. Engel è stato a sua volta processato nel 2002 dalla Corte di Assise di Amburgo, che lo ha condannato a sette anni di reclusione per omicidio, giudicandolo però non passibile di arresto. Dopo che sia il pubblico ministero sia la difesa hanno chiesto una revisione del processo, la corte di giustizia federale ha annullato il giudizio del tribunale di Amburgo e nel giugno 2004 ha dichiarato un definitivo non luogo a procedere.

Ai due processi condotti dal tribunale militare di Torino è seguito quello del tribunale militare di Verona contro l'ex-SS di origine ucraina Mischa Seifert, una delle guardie del campo di concentramento di Bolzano. Riconosciuto colpevole della morte di 18 persone, nel novembre 2000 Seifert è stato condannato all'ergastolo in contumacia. Il governo italiano ha avanzato un'istanza di estradizione al Canada, dove Seifert risiede da anni. Il successo della richiesta italiana è condizionato alla revoca all'imputato della cittadinanza canadese, su cui ancora le autorità di Ottawa non si sono pronunciate. La serie di processi aperta dalla scoperta dei fascicoli insabbiati è infine continuata col procedimento istruito dal tribunale militare di La Spezia contro i responsabili della strage di Sant'Anna di Stazzema, rimasta fino ad oggi impunita. Iniziato nel giugno del 2004, il processo si è concluso nel giugno 2005 con la condanna all'ergastolo in contumacia di dieci SS già appartenenti alla XVI divisione Panzergrenadier.

Il caso italiano mostra dunque una doppia anomalia: il numero estremamente limitato di processi condotti nell'immediato dopoguerra e la ripresa di un'azione giudiziaria intensa ma tardiva, dopo alcuni sporadici (anche se importanti) processi condotti fra gli anni Settanta e i primi anni novanta, quali il processo di Trieste contro i responsabili delle violenze e delle uccisioni compiute alla Risiera di San Sabba, quello di Bologna contro Schintelholzer e Fritz, quello infine contro il sottufficiale tedesco Lehnigk-Emden, responsabile della strage di Caiazzo. Dopo il fortuito ritrovamento dell'"armadio della vergogna", si sta dunque tentando oggi, a cinquant'anni dalla fine della guerra, di svolgere finalmente quei processi per tanto tempo impediti dalla ragion di Stato e di ristabilire in questo modo la giustizia negata. Allo stesso tempo si sta cercando di far luce sulle responsabilità politiche che hanno permesso l'insabbiamento delle inchieste. A questo scopo il Parlamento italiano ha istituito nel 2003 una commissione d'inchiesta per chiarire definitivamente motivi e responsabilità dell'occultamento dei fascicoli. La commissione terminerà i suoi lavori entro la fine della legislatura, nei primi mesi del 2006. La vicenda della punizione dei criminali di guerra tedeschi è dunque ancora lontano dal rappresentare una storia passata. Troppo intenso è il coinvolgimento dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime dei crimini tedeschi. Troppo rilevante è inoltre il significato politico della questione dei crimini nazifascisti per l'identità delle forze che ancora in Italia si richiamano all'antifascismo.

I processi ai criminali di guerra tedeschi nell'opinione pubblica e nel discorso politico. Riflessioni conclusive

L'opinione pubblica italiana ha seguito con grande partecipazione emotiva i principali processi contro criminali di guerra tedeschi tenuti in Italia: il processo contro Mältzer e von Mackensen (1946), quello contro Kesselring (1947), quelli contro Kappler (1948) e contro Reder (1951), e infine il processo contro Priebke negli anni Novanta. Quasi sotto silenzio sono invece passati i processi minori, di cui si stenta a trovare eco sulle pagine della stampa. L'attenzione e il coinvolgimento sono stati certamente più forti in quelle regioni dell'Italia centro-settentrionale che più di altre hanno sofferto lutti e sofferenze provocati dall'occupazione tedesca. Sentimenti fortemente radicati nel paese si sono manifestati anche nelle vibrate proteste seguite nel 1952 alla liberazione di Kesselring e poi, come già ricordato, in occasione della fuga di Kappler, della scarcerazione di Reder e del giudizio di primo grado su Priebke. A muovere gli animi in queste occasioni sono stati non solo il ricordo delle stragi ancora vivo in vasti settori della popolazione, ma anche la memoria della lotta combattuta contro "il Tedesco" coltivata da tutte le forze eredi dell'antifascismo. Queste nel dopoguerra hanno edificato e celebrato una memoria della seconda guerra mondiale basata sull'esaltazione della Resistenza quale lotta di liberazione nazionale contro il "tedesco invasore e il fascista traditore", la quale si è imposta come memoria collettiva dominante, grazie anche all'opera delle istituzioni della Repubblica. Come è stato rilevato da Antonio Missiroli, il retaggio della comune battaglia condotta contro l'"oppressore" tedesco, con il ricordo bruciante delle sofferenze da questo causate agli italiani, ha rappresentato nel tempo uno dei principali elementi di coesione fra le diverse forze antifasciste, pur schierate a lungo su fronti politici contrapposti.

A partire dagli anni Ottanta, e in maniera più evidente negli anni Novanta e all'inizio del nuovo millennio, tale memoria della Resistenza è stata posta sotto accusa e contestata con progressiva intensità sia sul piano storiografico sia sul piano politico, in questo caso da attori interessati ad un radicale rinnovamento dell'assetto politico e istituzionale del paese e delle sue basi di legittimazione. In particolare, si è manifestato l'intento di screditare e delegittimare il Partito comunista e i partiti sorti poi dal suo scioglimento attraverso una critica serrata e incalzante nei confronti della Resistenza e dell'antifascismo, ovvero di quei pilastri sui quali il PCI aveva cercato di fondare nel dopoguerra la propria legittimità democratica. Erede di una memoria anti-antifascista profondamente sedimentata nel paese, quest'azione, delineatasi negli anni Ottanta in concomitanza con le prime proposte di riforma della costituzione in senso presidenziale avanzate dal leader del Partito socialista Bettino Craxi, si è sviluppata successivamente in forma più incalzante allorché alla guida del paese è giunta per due volte, nel 1994 e nel 2001, una coalizione di centro-destra. Se da un lato la crisi della cosiddetta Prima Repubblica aveva visto all'inizio degli anni Novanta il collasso di tutti i partiti storici che avevano dato vita al CLN (DC, PSI, PCI, PLI), dall'altro lato la vittoria elettorale della coalizione guidata da Silvio Berlusconi sanciva l'affermazione di due nuovi soggetti politici privi di radici nell'antifascismo (Forza Italia e Lega Nord) e addirittura quella di una compagine come il MSI-AN, poi AN, i cui legami con la tradizione del neofascismo italiano rimanevano robusti. Non stupisce che queste forze politiche abbiano sviluppato un attacco massiccio, tuttora in corso, alla memoria della Resistenza "egemonizzata" dai comunisti e all'antifascismo accusato di essere un valore ormai sorpassato, di ostacolo alla formazione di una identità nazionale capace di unire gli italiani al di là dei vecchi steccati prodotti dalla guerra. Al posto della memoria della Resistenza si è così cercato di promuovere una memoria nazionale "riconciliata" fondata sulla presunta pari dignità storica e morale di fascisti e antifascisti. Si tratta di una dura lotta per l'egemonia culturale, che si gioca sul terreno conteso della memoria storica.

Messe alle strette dall'offensiva politico-culturale della destra, le forze legate alla tradizione antifascista, di matrice sia liberale che cattolica e socialista, hanno trovato alla metà degli anni novanta coesione e capacità di reazione proprio grazie alla riattivazione della memoria delle stragi naziste. In questo, un elemento di svolta ha rappresentato il processo contro Priebke. Le indignate reazioni popolari suscitate dal giudizio di primo grado, espressione di un sentimento spontaneo ampiamente diffuso, sono state nondimeno efficacemente utilizzate per rianimare e rilanciare una memoria della guerra che il passare del tempo e l'iniziativa degli avversari stavano velocemente disgregando. Il processo contro Priebke e gli altri processi successivamente condotti dalle procure militari italiane hanno così avuto una doppia funzione: quella diretta di riportare giustizia dopo tanti anni a centinaia di vittime (e di familiari delle vittime) della violenza nazista perseguendo i colpevoli di crimini rimasti fino ad allora impuniti e quella indiretta, sopra descritta, di rianimare la memoria della Resistenza sottoposta all'offensiva di avversari particolarmente accaniti. Da questo punto di vista l'azione giudiziaria si configura come un fattore non secondario nel confronto politico in atto per la ridefinizione della memoria storica e dell'identità nazionale.

Se ripristinare una giustizia per tanti anni negata va senz'altro considerata un'azione meritoria ancorché tardiva, rianimare la memoria della Resistenza e dell'antifascismo unicamente facendo perno sul ricordo delle stragi naziste e sulle reazioni emotive che da lì scaturiscono risulta certamente un'azione efficace ma non priva di alcuni limiti. Sarebbe auspicabile infatti che nella coscienza storica del paese trovasse posto non solo la memoria dei crimini nazifascisti subiti, ma anche il ricordo dei crimini di guerra commessi da militari e civili italiani contro popolazioni straniere aggredite, etiopiche, libiche, greche, albanesi, jugoslave e russe, non meno incolpevoli dei civili trucidati dai tedeschi alle Fosse Ardeatine, a Marzabotto o a Sant'Anna di Stazzema.


L'articolo, col corredo scientifico delle note, uscirà nel marzo 2006 sugli Annali dell'Istituto La Malfa. Una versione in tedesco è di prossima pubblicazione nel volume: Norbert Frei (Hg.), Transnationale Vergangenheitspolitik. Der Umgang mit deutschen Kriegsverbrechen in Europa nach dem Zweiten Weltkrieg, Wallstein Verlag.