Centrale, nella logica serratiana, fin dai tempi della prima guerra mondiale era la concezione del Partito come elemento ordinatore di un vasto e composito movimento. Nel
dicembre del 1919 scrisse che «la dittatura del proletariato è dittatura cosciente del partito socialista. E’ il partito che ha preparato gli uomini, le organizzazioni, i mezzi» [Il Comunista,
postilla a C. Niccolini, I Comitati di fabbrica, «Comunismo», 15-31 dicembre 1919]. Tale caratteristica era una riaffermazione assoluta della priorità della politica, che si ripercuoteva
sia nel rapporto con l’economia sia nella relazione con la innovativa via bolscevica alla rivoluzione socialista. Secondo Franco De Felice, tale «apparente radicalismo rivoluzionario», comune a
gran parte del massimalismo, che assegnava al partito il ruolo di leader, lasciava «l’impianto, la conduzione e la conclusione delle lotte al sindacato». Sarebbe a dire, che il rapporto tra
politica ed economia era quello classico del marxismo: «L’ipotesi serratiana è tutta fondata su di un innesto senza mediazioni e articolazioni di una scelta politica rivoluzionaria sui movimenti di
lotta». Evidentissima tale ipotesi nel momento cruciale dell’occupazione delle fabbriche, quando la preminenza della politica pareva risolversi «nello sviluppo della coscienza del carattere
rivoluzionario del momento attraversato» [De Felice, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920, cit., 92, 113, 111].