Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Il fallito processo di beatificazione di tre martiri trinitari spagnoli ad Algeri (sec. XVII)

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Abstract

This essay aims to reconstruct the events related to the last years of life and the alleged martyrdom of three Spanish Trinitarian friars (Juan de Águila, Bernardo Monroy, Juan de Palacios), who died in slavery in Algiers and tries to explain the possible reasons for the failure of their canonisation. The background of the story is the redemption of captives held in 1609 in Algiers, where the friars were imprisoned and died between 1613 and 1622, suddenly being considered as martyrs. But martyrdom does not always lead to sanctity: on the basis of unpublished sources, conserved in Spanish and Vatican archives, this essay intends to shed light on the reasons that resulted in the failure of their canonisation process.

Las enseñanzas de Cristo no van en dirección a ser
una religión de salvados, cuanto de salvadores.
López Barrios 2017, 117

Martirio e canonizzazione. Un binomio di lunga durata

La recente storiografia ha messo in evidenza come la retorica della Crociata e del martirio – inteso come sacrificio di sé per la difesa della fede, o della nazione – sia sopravvissuta al tramonto dell’Antico Regime (Menozzi 2020). Termini come “martire”, “guerra santa” o “crociata” sono spesso stati strumentalizzati e, seppur sotto varie forme, hanno trovato applicazione ancora per tutta l’età contemporanea, fino a oggi. Analogamente, per strano che possa sembrare, pur in una società chiaramente laica come quella attuale i temi della santità e la retorica del sacrificio di sé per la fede o per un ideale non sono tramontati. Tutto ciò è indice che ci troviamo di fronte a un tema di lunghissimo periodo, come dimostrano, peraltro, anche le canonizzazioni più recenti, avvenute sotto il pontificato di papa Francesco [1]. Tale straordinaria continuità ci pone di fronte a due domande: che cosa si intende esattamente per martirio e qual è la relazione tra martirio e santità, o tra martirio e canonizzazione. Per provare a rispondere a queste domande prenderemo in esame un particolare caso di studio, relativo al primo quarto del secolo XVII, che risente del «resurgir del ímpetu martirial» (Cañeque 2020, 30) del primo Seicento, epoca in cui (non a caso) appaiono un gran numero di trattati, agiografie, vite di santi e martiri, spesso usate come prove nei processi di canonizzazione [2]. D’altra parte, per quasi tutta l’età moderna il martirio non è considerato una disgrazia, ma un desiderio, un anelo, una speranza: non si fugge da esso ma lo si ricerca attivamente e lo si accetta con gioia. Il francescano scalzo Matías de San Francisco, compagno di Juan de Prado – brutalmente ucciso per aver predicato la fede cristiana al re del Marocco nel 1631 –, al ritorno da quella missione scrive una relazione in cui racconta di aver avuto modo di conoscere molti religiosi, alcuni dei quali erano poi morti da martiri. In qualche occasione si era ritrovato a un passo da morire martire anche lui, ma – scrive – «mis pecados, y cortos merecimientos lo estorbaron, y no me dieron lugar a tan dichosa suerte, que tanto mi alma ha deseado» (Matías de S. Francisco 1675, 2-3). Scrive l’autore della relazione che, tra i vari religiosi che partirono per il Marocco «se ofreció por primicias de la sangre que a Dios ofrece dar en defensa de la Fè esta Provincia, su primero Provincial hijo vuestro, el venerable P. Fray Juan de Prado, cuyo Martirio [en esta obra] se refiere». E conclude: «Por estas razones […] te suplico, Padre mío para la gloria de Dios, honra de tus Siervos, veamos esta sangre vertida de tu hijo Canonizada por su Iglesia, para que le podamos numerar entre los gloriosos mártires de la Iglesia» (ivi, s.n.).

Dunque, desiderio di martirio, accettazione del martirio in quanto sacrificio della vita per la difesa o la propagazione della fede: il martirio diventa imitatio Christi, strumento per raggiungere la perfezione, culmine glorioso del cammino spirituale del miles christi (Bellomo 2000, 439-41; Pinilla 2000). Per questa ragione, il martirio apre le porte alla beatificazione e, in ultimo grado, alla santità. Tutti questi elementi, intrecciati ed esaltati dalla sapiente retorica degli ordini religiosi, sono pressoché una costante in tutti i processi di canonizzazione e li ritroviamo anche nel processo di beatificazione dei tre frati trinitari Juan de Águila, Bernardo Monroy e Juan de Palacios, conosciuti come “martiri di Algeri”, oggetto del presente saggio.

I “martiri” trinitari di Algeri

Ma chi erano questi tre religiosi e cosa sappiamo di loro? Juan de Águila era nato ad Ávila nel 1563; Juan de Palacios era nato intorno al 1560 a Villanueva de Presa, un paesino nei pressi di Carranza (Biscaglia); Bernardo Monroy era nato a Carrión de Calatrava (Ciudad Real) nel 1559 circa (Porres Alonso 1994, 33-46, 59-62). Nel 1608 il capitolo provinciale trinitario di Castiglia li nominò redentori di captivi, in vista della missione che di lì a poco l’ordine avrebbe inviato ad Algeri per provvedere alla liberazione degli schiavi cristiani detenuti nei bagni della città nordafricana [3]. A fare da sfondo alla loro vicenda è, dunque, la redenzione di captivi inviata nel 1609 ad Algeri, dalla sua difficile gestazione fino alle faticose negoziazioni con il bey e i padroni mori. Alla fine, al termine di estenuanti negoziazioni e dopo aver subìto estorsioni e prevaricazioni, i frati riuscirono a ottenere la liberazione di circa 130 persone (Porres Alonso 1994, 71) [4]. Ma proprio quando redentori e redenti erano in procinto di ripartire, le autorità algerine bloccarono la nave in porto e fecero arrestare i religiosi (ivi, 73-9) [5]. Il motivo del loro arresto fu il sequestro di una dodicenne, Fatima, figlia di Mamet Axá, un ufficiale turco di Algeri [6]: catturata dai cavalieri di Santo Stefano, fu riscattata da un mercante corso ma non fece più ritorno a casa perché fu trattenuta a Calvi (Corsica) e battezzata, contro la volontà sua e del padre, dal benedettino Pietro Lomellini, vescovo di Sagona, che le pose il nuovo nome di Maria Maddalena. Interrogati di fronte al diwan e al cospetto del bey di Algeri, i tre frati negarono qualunque relazione con la bambina, assicurando che la decisione di rilasciarla non stava nelle loro mani, che essi si erano recati ad Algeri unicamente per effettuare la redenzione di captivi e che non avevano nulla a che fare con quella vicenda. Tuttavia, aggiunsero che, quand’anche la decisione fosse dipesa da loro, non l’avrebbero rilasciata comunque, poiché la bambina era stata battezzata: pertanto, rispedirla ad Algeri e consegnarla agli infedeli avrebbe significato condannare un’anima cristiana alla dannazione, cosa che naturalmente essi non avrebbero mai consentito (ivi, 73-4). E così, i tre frati rimasero in carcere ad Algeri, in ostaggio fino a che non avessero ottenuto il ritorno a casa della piccola Fatima. Ma i tre si mostrarono inamovibili, disposti a perdere la libertà e la vita, se necessario, per difendere la “santa fede cattolica”. Sulla loro vocazione redentrice è stato scritto che «de manera tal se comprometieron con esa ‘cruda realidad’ de la esclavitud, que por liberar de la opresión a esos cautivos (al quedar cautivados por el amor de Jesucristo-Redentor), de ‘redentores’ pasaron a ser ‘esclavos’, a semejanza de su Señor» (López Barrios 2017, 119). Ci sembra opportuno riportare le parole con cui il Vega riferisce l’accaduto:

[El bey] mandó con gran imperio à aquellos Padres inocentes, que sin dilación hiziessen las diligencias vivas, para que bolviese al poder de su padre la muchacha, so pena de poner en rigurosa prisión à ellos, y à sus rescatados. […] A que respondió el Bendito Padre, que si la muchacha avía llegado al uso de la razón, como era cierto, y libremente se había hecho Christiana, no era lícito ponerla à riesgo de que perdiesse la Fè Catholica: y así, que ni él, ni sus compañeros se podían obligar à traerla; y que si por esto perdían su libertad, y la vida, serían dichosos, haziéndoles Nuestro Señor la gracia de morir en defensa de su Religion Catholica. Si juzgáis, les dijo, que con amenazas nos habéis de acobardar para ofrecer lo que no podemos cumplir, estáis en manifiesto error, aquí están nuestras cabezas dispuestas para que las cortéis, quando os diere el gusto, en testimonio de la verdad, y que somos verdaderos discípulos de Nuestro Divino Maestro (Vega y Toraya 1729, 69-70).

La vicenda divenne presto un caso diplomatico internazionale, che per dodici anni (dal 1609 al 1621) tenne impegnati lo stesso re di Spagna Filippo III (perfino nei difficili mesi dell’espulsione dei moriscos nel 1609), il papa Paolo V, cardinali, diversi dogi di Genova e governatori della Corsica (all’epoca possedimento genovese), il vescovo di Sagona, il bey e il Diwan di Algeri e altre autorità civili ed ecclesiastiche (Porres Alonso 1994, 81-4; Hershenzon 2016). Dal canto suo, la Spagna insisteva nel presentarsi come baluardo e difensore della cattolicità contro il nemico islamico: Fatima era stata battezzata contro la volontà sua e del padre, perché la guerra contro i turchi nel Mediterraneo si combatteva anche così, a colpi di battesimi e conversioni, sincere o forzate (Dursteler 2011; 2017; Fiume 2012). Ma che i tre frati trinitari si ritrovano loro malgrado implicati in questa vicenda, fino a subire sulla loro pelle le conseguenze della escalation di tensione internazionale, si deve forse a una considerazione molto più banale: in fondo, nell’ottica dei mori, i religiosi «[erano] tutti papassi, e dove[vano] pagare gli uni per gli altri» [7]. I frati furono minacciati di ricevere una punizione esemplare: se non fossero riusciti, con la loro opera di mediazione, a ottenere il rilascio della piccola Fatima, le autorità di Algeri avrebbero inflitto loro una morte atroce. Davanti a tali minacce il padre Águila rispose pacatamente, dicendo che quelle pene non lo spaventano e che, anzi, era disposto a soffrire martirio per la fede. L’ufficiale algerino, adirato, reagì a sua volta strappandogli il rosario dalle mani e glielo sbatté in faccia più volte fino a ridurlo in mille pezzi: questo è quanto racconta Juan Figuerola, testimone dei fatti, che si trovava schiavo in quei mesi nel medesimo carcere (Porres Alonso 1994, 114). Secondo quanto affermato dai testimoni ascoltati al processo di beatificazione, durante gli anni trascorsi in schiavitù i tre frati subirono ripetuti maltrattamenti, minacce e vessazioni da parte dei mori, nel tentativo di convincerli ad accettare lo scambio, ma ogni sforzo si rivelò vano. Questa almeno la versione tradizionalmente sostenuta dai trinitari (Vega y Toraya 1729, 90-3; Porres Alonso, 133-6). Per la verità, un tentativo di mediazione fu fatto dagli stessi frati, come dimostra la documentazione. Nel 1611, quando i religiosi erano prigionieri ad Algeri già da due anni, nel tentativo di sbloccare la situazione Bernardo Monroy scrisse al papa una lettera in cui proponeva un incontro tra la bambina e il padre: in tal modo, la giovane avrebbe avuto l’opportunità di dire lei stessa al padre che la sua conversione al cattolicesimo era stata sincera e volontaria, che non era stata forzata e che era sua intenzione rimanere cristiana e in terra di cristiani. [8] L’incontro si sarebbe svolto sull’isolotto di Tabarca, possedimento genovese sulla costa di Tunisi, ma anche luogo simbolo degli scambi di schiavi cristiani e musulmani vittime della guerra da corsa mediterranea (Riggio 1938; Kaiser 2013, 261-2). In un primo momento la Santa Sede preferì non esprimersi e lasciò nelle mani del vescovo di Sagona la decisione se Fatima potesse o no recarsi a vedere la sua famiglia a Tabarca [9]: tali esitazioni da parte delle autorità ecclesiastiche per organizzare l’incontro tra Fatima e i suoi genitori autorizzano a supporre che, nel corso degli anni, la bambina abbia forse potuto non essere realmente convinta della sua conversione (Pomara 2023). Alla fine, il citato vescovo si oppose, obbligando i membri del Sant’Uffizio romano a comunicare al padre Monroy il rifiuto della sua proposta [10]. Gli ostacoli interposti, sia dal vescovo che dal Sant’Uffizio, fecero sì che la questione si chiudesse così, nell’infelicità di tutti. E così, uno dopo l’altro, i tre frati morirono in carcere ad Algeri. Il padre Águila fu il primo a spirare, all’età di cinquanta anni: stando a quanto dichiarato dai testimoni al processo, la causa della sua morte sarebbero stati proprio i ripetuti maltrattamenti subiti in carcere, che gli avrebbero provocato «una grave malattia». La sua scomparsa fu «muy sentida y llorada» da tutti i captivi di Algeri, che con lui perdettero un punto di riferimento morale e spirituale: Águila era stato in quegli anni uno dei pochi sacerdoti captivi, che aveva somministrato i sacramenti agli altri reclusi del suo bagno, ma più in generale, una persona che aveva dato loro conforto e protezione. Anche il decesso del padre Palacios avvenne per cause naturali, benché, secondo quanto raccontato dai testimoni, la sua salute fu duramente compromessa dal «mal trato que recibía en la prisión» e dalle «bastonadas que le daban» (Porres Alonso 1994, 123). Spirò il 20 settembre 1616.

Rimase vivo solo Bernardo Monroy, che nel 1617 per ordine del governatore fu prelevato dal bagno e rinchiuso in isolamento in una torre della Kasbah [11] (Vega y Toraya 1729, 112-3). In carcere il padre Monroy era alimentato a pane d’orzo e acqua, ma il Vega, che ne scrive la biografia, assicura che «con la continua asistencia de Dios, y regalos que venían de su mano poderosa, nada de este mundo le hacía falta: con los néctares celestiales se olvidaba de comer, y dormir […] y si alguna vez se recostaba un poco, era sobre una dura piedra». Descrivendo gli ultimi giorni del frate, il biografo lo descrive come un santo, desideroso soltanto di ricongiungersi con Dio:

Suspiraba sin intermisión el Siervo fiel por su amado, érale molesto el vivir en este mundo ausente de la dulce quietud, que esperaba tener en los brazos de su Esposo: estas eran sus continuas ansias, y solo contemplar estas dichas le hazian sabrosas sus penas. Compadeciose el Dueño de las almas de los trabajos, que por su causa avia padecido el Siervo de Dios en este miserable destierro, y quiso agradecer sus finezas, poniendo fin à su vida, y llevando al eterno descanso su alma (ibid.).

Alla fine di luglio 1622 il frate, vecchio e ammalato, fu rinchiuso in un sotterraneo pieno d’acqua, dove sopravvisse per tre giorni, poi morì. Così fu riferito da diversi testimoni, in primis dal trinitario portoghese Luis de Los Angeles, catturato poche settimane prima dai corsari algerini mentre faceva ritorno dal Brasile e morto di peste poco dopo. Vega dedica un intero capitolo della sua Crónica (XXIX) ai momenti finali della vita di Bernardo Monroy: la condanna al carcere perpetuo, gli stenti e la morte ai primi di agosto del 1622; successivamente, la salma del frate venne trasportata in Spagna e sepolta nel convento trinitario di Toledo (ivi, 114-5). Poche settimane più tardi, con autorizzazione apostolica, si iniziò a raccogliere le informazioni e testimonianze necessarie ad avviare il processo di canonizzazione per lui e i due suoi confratelli, deceduti pochi anni prima.

Candidati agli altari. Il processo di beatificazione

Alla morte di Monroy, l’allora provinciale trinitario di Castiglia, fra Simón de Rojas, sollecitò al nunzio apostolico a Madrid l’apertura del processo informativo per l’avvio della causa di canonizzazione dei tre frati. Era infatti convinto che essi avessero percorso un cammino di perfezione: esemplari si erano dimostrati senza dubbio nelle virtù cristiane e nelle carceri algerine; avevano dato la loro vita per Cristo, morendo come martiri della fede (Porres Alonso 1994, 137-9). Così, già nei primi mesi del 1623, a istanza di Simón de Rojas si diede avvio al processo informativo sulla loro vita e martirio. Dopo una prima raccolta di informationes a Palma de Mallorca (in cui furono sentiti per lo più prigionieri liberati dai tre ad Algeri) [12], il processo diocesano si aprì nel luglio 1623 a Madrid, con il giuramento e le deposizioni dei testimoni [13]. Vengono interpellate in tutto cinquantanove persone, individuate tra coloro «que con verdad pudieran decir lo que acerca de la vida, santidad, fama, virtud, martirio y milagros de estos siervos de Dios hubiesen visto, oído y sabido» [14]. A tutti i testimoni chiamati a deporre vengono rivolte le stesse domande (o comunque, tutte quelle a cui il testimone poteva rispondere in base alla sua esperienza). L’interrogatorio si compone di ventotto domande: innanzitutto, si chiede all’esaminato se avesse conosciuto personalmente i tre frati, se sa se fossero figli di cristiani dell’antica nobiltà («viejos hidalgos, de sangre noble de los caballeros antiguos y notorios») e che si erano recati ad Algeri come redentori di captivi. Poi doveva dichiarare sulle virtù dei tre religiosi prima e dopo l’ingresso nell’ordine trinitario [15], sulla loro «composición exterior» (ovvero, che avessero sempre mostrato affabilità, rettitudine e irreprensibilità morale, nel tono, nei modi e nei comportamenti, senza mai mostrarsi alterati o irruenti), sulla loro fede e devozione ai misteri della SS. Trinità, passione e risurrezione di Cristo, così come alla Madonna [16]. Ancora, si indaga sulle virtù della penitenza, umiltà, obbedienza, castità e povertà, sui favori e grazie che Dio avesse concesso ai religiosi come ricompensa per il loro infinito amore verso il prossimo e per la carità coi captivi, mostrando sempre grande sconforto per i cristiani che rinnegavano. Soprattutto, si chiede ai testimoni di suffragare le cause dell’arresto e detenzione dei tre nella città maghrebina [17], di esporre quanto sanno circa la morte dei padri Águila e Palacios e, in una sezione a parte, sulla morte del padre Monroy. Qui il testo dell’interrogatorio si dilunga in una profusione di dettagli e illazioni intorno agli ultimi momenti di vita e sulle circostanze in cui avvenne la morte di Monroy, supposizioni che si danno per veritiere e che si chiede ai testimoni di confermare. Alcuni di loro raccontano di averlo visto poco prima della sua morte [18], sebbene sia difficile credere che essi abbiano realmente avuto accesso alla torre dove il padre era stato rinchiuso per quasi cinque anni, né tanto meno al pozzo dove infine morì. Altro punto su cui si vuole far luce è se al momento della sepoltura di Monroy fu trovato ancora sano e incorrotto il corpo del padre Palacios (morto nove anni prima). L’interrogatorio mira a indagare, soprattutto, la fama di santità dei tre Servi di Dio e i miracoli operati da Dio per intercessione dei tre religiosi, in vita o dopo la loro morte. Uno degli episodi citati è quello secondo cui ad Algeri, poco dopo la morte dell’ultimo dei tre, durante un periodo di siccità (non infrequente nell’area) gli schiavi cristiani, invocando i nomi dei religiosi, pregarono Dio affinché facesse piovere, e subito dopo cominciò a piovere con tanta abbondanza che i mori stessi pensarono a un miracolo.

Queste, dunque, le domande da sottoporre ai testimoni. La causa di beatificazione, istruita dal procuratore generale dell’ordine della SS. Trinità, Fernando Ramirez, con licenza del nunzio apostolico in Spagna, fu assegnata al giudice apostolico don Sancho de Contreras, «refrendario de su santidad y en la curia [romana]» [19].

«Probanza de las virtudes, santidad, y dilatado martirio de los siervos de Dios»

Lo scopo del processo, dunque, è accertare «la santidad, virtudes, fama y dilatado martirio y milagros de los siervos de dios […] que por la exaltación de nuestra santa fe católica y en tan heróica ocupación y ministerio [de] redimir cautivos cristianos, dieron sus vidas con penoso y dilatado martirio» [20]. Il riferimento al «dilatado martirio» dei tre religiosi era un’ammissione esplicita che essi non erano stati uccisi materialmente da un carnefice per mezzo di un atto violento (un’azione precisa che ne determinò la morte immediata), ma furono lasciati morire di stenti, prolungando deliberatamente la loro sofferenza e agonia. Pertanto, i tre sarebbero morti per la scarsa alimentazione, per le deboli condizioni fisiche in cui la schiavitù li aveva ridotti, esposti alle intemperie e ai continui maltrattamenti dei loro aguzzini, rendendo il loro martirio, appunto, dilatato nel tempo. Come spesso accade in questo genere di processi, i testimoni non sono chiamati a esprimere un giudizio spontaneo e autonomo sulle persone di cui si intende accertare virtù e azioni, bensì gli si propone un testo già scritto, una sorta di format precompilato (che abbiamo riassunto in precedenza) e che veniva letto dal giudice apostolico al momento della deposizione. A tale interrogatorio il singolo testimone non deve far altro che rispondere sì o no, e se lo ritiene, aggiungere dei dettagli o informazioni ulteriori sulla base della sua esperienza diretta, magari specificando dove ha visto o da chi ha sentito dire questo o quell’altro. I testimoni dovevano dichiarare sotto giuramento cose difficili da provare: ad esempio, se avevano conosciuto e potevano accertare la «admirable constancia» dei tre religiosi, «su predicación, su encendida caridad con los prójimos, su alegría en los continuos trabajos y cautiverio, ofreciéndolo todo a Dios nuestro señor por quien lo padecían» [21]. Viene loro chiesto, inoltre, se sono a conoscenza di scritti, lettere, memoriali o testi spirituali dei candidati santi: chi ne avesse posseduto qualcuno era obbligato a consegnarlo al giudice apostolico entro nove giorni, pena la scomunica.

Uno dei punti nodali del processo è l’accertamento delle cause della prigionia dei frati, cioè le ragioni per cui, al termine della redenzione, furono detenuti e poi lasciati morire in schiavitù ad Algeri. La domanda XVI dell’interrogatorio è relativa proprio alla «causa de su prisión»:

Si saben o han oído decir que, habiendo los dichos Padres […] cumplido con su oficio de redentores en aquellas partes de Argel, y ejercitado su grande y encendida caridad, rescatando mucho número de cautivos cristianos, […] resueltos ya de venirse con ellos a España […] llegó un bajel de mercaderes corceses que de Liorna había salido con algunos moros rescatados, a los cuales un turco rico y poderoso de Argel, llamado Mamet Axa pidió le entregasen una hija suya llamada Fátima que juntamente habían rescatado, y ellos dieron por descargo que trayéndola rescatada habían tocado en Calvi, puerto de Córcega, y que el Obispo de Saona (cuya diócesis es la dicha villa de Calvi) […] la había hecho sacar del bajel con fuerza de armas por haber oído decir que en Liorna había querido ser Cristiana y los dichos mercaderes viendo su manifiesto peligro que tan de cerca les amenazaba con el mucho sentimiento que el dicho turco hacía, se resolvieron de echar la culpa a los benditos Padres diciendo: que pues el Obispo de Saona les había quitado a Fátima, se la pidiesen à ellos, como lo hizo el dicho Turco haciéndolos parecer en juicio en malos tratamientos y grandes amenazas. Como dirán los testigos […] [22].

Altro punto cruciale riguarda la morte dei tre frati (domande XXI-XXIII). Nel caso di Monroy, in particolare, si chiede:

Si saben, o han oído decir que el dicho Siervo de Dios sufrió los trabajos de hambre, desnudez, malos tratamientos y otros infinitos que dirán los testigos, con mucha constancia y valor cristiano, sin que le pudiesen contrastar ni los valdones que le daban, ni angustias que sentía; antes mientras más oprimido y apretado, más intrépido y valeroso se mostró; y así estuvo en vida tan penosa sepultado antes de muerto tiempo de cinco años […] afligido de hambre y falto de todas las cosas necesarias para su salud, sin consuelo humano, solo pero muy acompañado del Señor […] que daba su vida por Cristo, su amado, cosa que tanto había deseado, repitiendo muchas veces el dulcísimo nombre de Jesús y María, y haciendo ternísimos y amorosos coloquios con Dios le dio su alma a primero de Agosto de mil y seiscientos veinte y dos, poniendo con esto fin a la tragedia de tan miserable vida y martirio tan dilatado, como padeció por la fe de Jesucristo, su pública confesión y predicación y encendida caridad del remedio de los prójimos. Y sintiendo los guardas que ya estaba muerto le echaron un lazo, y medio desnudo como estaba le subieron arrastrando hasta la puerta del Castillo, donde le pusieron con mucha ignominia […] [23].

In generale, i testimoni confermano la «gran constancia y deseo de morir y padecer por Jesucristo» dei tre frati e la loro «encendida caridad con sus prójimos» [24]. Inoltre, qualcuno assicurò che quando il corpo senza vita di Monroy fu trascinato fuori dal pozzo dove lo avevano lasciato morire, i mori gli trovarono l’indice e il pollice sovrapposti come a formare una croce, e pare che dovettero fare molto sforzo per separare le due dita: la cosa (verosimilmente attribuibile al comune rigor mortis) fu nondimeno da alcuni considerata miracolosa [25]. Così come fu considerato miracoloso il ritrovamento del corpo incorrotto del padre Palacios, quando nove anni dopo fu riaperta la sua fossa per dare sepoltura al Monroy, appena defunto: Palacios fu trovato «tot censer, sin faltarli cosa ninguna […] y per haber estat sempre soterrat en terra lo tenien tots a miracle» [26].

Il vescovo di Barcellona Juan Sanz accennò a un’esosa richiesta fatta dai mori ai captivi per poter dare sepoltura al corpo di Monroy: a quanto pare le guardie carcerarie pretesero il pagamento di 700 reali per consegnare la salma del defunto padre e permettere così ai captivi di seppellirlo [27]. L’episodio è confermato anche da un altro testimone catalano (n. 36), che riferisce che dopo la morte di Monroy i mori non volevano consegnare il cadavere ai cristiani, e che fu richiesto il pagamento di 700 reali castigliani, una somma che i captivi con molti sforzi riuscirono a raggranellare e che il detto testimone contribuì a pagare, insieme ad altri, ciascuno con quel poco che aveva. Il corpo senza vita di Monroy fu allora trascinato fuori dal pozzo, dove era spirato, legato a una corda: a recuperare la salma furono gli stessi cristiani captivi, con grande sconforto e profonda tristezza [28]. Il testimone, che aveva aiutato a tirar fuori il corpo del frate, fu presente anche alla sua sepoltura e racconta che, avendo trovato il corpo del padre Palacios, morto nove anni prima, ancora intero e incorrotto, tutti i cristiani ne furono meravigliati e lodarono Dio, esaltarono la sua misericordia e onnipotenza «per veure un miracle tan manifest y patent» [29].

Nel novembre 1623 è chiamato a testimoniare il frate Gerónimo Díaz, che nel 1617 era stato inviato ad Algeri per ordine del re Filippo III per dare conforto spirituale ai captivi e ottenere un nuovo salvacondotto per i trinitari di Portogallo: in quell’occasione aveva conosciuto il padre Monroy, all’epoca ancora rinchiuso nel bagno di Algeri. Anche lui riferisce delle vessazioni, maltrattamenti e crudeltà sofferte dai tre per mano di turchi e mori. Assicura che tutti i captivi ricordavano «su gran caridad y misericordia […] aun estando presos, de lo poco que alcanzaban y eran socorridos partiéndolo en los pobres y más necesitados que había, [a]demás de la doctrina enseñarlos, confesiones y ejemplo de la vida y paciencia cristiana en que allí se ejercitaron hasta el fin de sus días» [30]. Il detto testimone (che, lo ricordiamo, aveva conosciuto il padre Monroy prima che questi fosse rinchiuso nella torre della Kasbah) raccontò anche che durante il periodo di quaresima poté notare la sua «gran penitencia y abstinencia […] y deseos de que todos fuesen santos, y virtuosos». Ancora, racconta di aver ascoltato le sue messe e sermoni, «llenos de gran consolación y espíritu, que ponían ánimo a los cautivos cristianos» [31]. Ma dice soprattutto che i suoi sermoni e le cure spirituali che ogni giorno dedicava ai cristiani prigionieri nei bagni della città risultavano di tal conforto per i captivi, che riuscì a evitare che uno di loro rinnegasse la fede per convertirsi all’Islam [32] (cosa che – come sappiamo – non era infrequente, specie per chi aveva perso la speranza di un riscatto) [33]. Sono in molti a testimoniare che le prediche e i discorsi spirituali tenuti dai tre frati in schiavitù ai captivi furono capaci di evitare che molti di loro decidessero di rinnegare e convertirsi all’islam. María Sánchez de Villar, anch’essa all’epoca schiava ad Algeri e ora testimone al processo, assicura che «por sus predicaciones muchos dejaron el camino errado que intentaban renegando de nuestra santa fe catholica» [34], tra cui una giovane captiva maiorchina, il cui padrone le insegnava il Corano [35]. Parole ugualmente di elogio sono rivolte al padre Juan de Águila, che la stessa testimone aveva assistito durante la malattia che lo portò la morte: la sua scomparsa causò gran commozione e lutto tra i captivi cristiani, che con lui perdettero un «padre y amparo que los socorría y favorecía en sus necesidades y trabajo» [36].

Uno dei punti cruciali che si cerca di dimostrare attraverso le deposizioni dei testimoni è che la morte dei tre religiosi abbia avuto alla base l’odium fidei [37]. A ciò vengono in aiuto diverse testimonianze, tra cui ancora quella di María Sánchez de Villar, che presenziò alla morte di Juan del Águila e raccontò che «era tanto el odio y aborrecimiento que los turcos habían cobrado a los dichos padres», che alla morte del frate le autorità algerine non volevano permetterne la sepoltura. Non fu presente, invece, la testimone alla morte di Palacios, perché nel frattempo era già stata riscattata ed era tornata in patria, ma ricorda che anche lui era stato vittima di innumerevoli «oprobios y malos tratamientos que los turcos le hacían», come quando lo afferravano per la barba e «dando vuelta con ella a la mano le tiraban y traían arrastrando por el patio». Ma sopportava tutto ciò, assicura, «con mucha paciencia y alegría, pareciéndole que no era nada» in confronto con i benefici che il martirio gli avrebbe regalato [38].

Alla maggior parte delle domande i testimoni rispondono che quanto si diceva sui tre frati fosse «público y notorio, pública voz y fama»: tanto bastava, se unito alla bona fama del testimone, per fare di quelle voci «la verdad», specie se dichiarata sotto giuramento e, appunto, da «personas fidedignas». Il punto stava, allora, nel poter disporre di testimonianze pesanti, rilasciate cioè da «muy graves personas», considerate degne di credito per la loro posizione sociale o politica, che rendeva le loro dichiarazioni affidabili, a prescindere da qualunque conflitto di interessi [39].

I decreti urbaniani «super non cultu» e il quadro della discordia

Nel frattempo, nell’ottobre 1623, nella chiesa dei Trinitari Calzati di Madrid fu collocato un quadro raffigurante i tre “martiri”, dipinti con aureole e raggi in segno di santità, che divenne subito oggetto di offerte votive [40]. Meno di un mese dopo, il procuratore della causa, il trinitario Gaspar Manuel de Silva, chiese licenza al nunzio apostolico a Madrid per trasmettere la causa alla Congregazione dei Riti e, al tempo stesso, l’autorizzazione necessaria per poter accogliere ed esporre le offerte e i numerosi ex voto dei fedeli davanti al detto ritratto e alle reliquie dei tre “servi di Dio”. Il nunzio trasmise subito la supplica al giudice apostolico designato per la causa, don Sancho de Contreras, il quale nominò una giunta di teologi che si riunì nel novembre 1623 per esaminare il caso. La giunta, formata da ventidue ecclesiastici e dottori in diritto canonico, presa visione dei documenti e delle dichiarazioni dei testimoni, quello stesso giorno deliberò la liceità e concesse l’autorizzazione alla venerazione dei tre candidati santi in forma di culto privato: ovvero, diede parere favorevole sul poter esporre immagini votive, ricevere offerte e preghiere ai tre religiosi davanti al loro ritratto e alle reliquie, con l’avvertenza, però, che

con esto no se pretende dar de presente a los dichos Siervos de Dios adoración ni culto público en manera alguna, si bien en cierta forma un culto particular y privado como lo determinan que se puede hacer muchos y graves autores antiguos y modernos, y la común opinión de que hay ejemplares aun de cosas mayores [41].

La questione, insomma, rimase aperta e la giunta, che preferì non esprimersi in modo definitivo, lasciò l’ultima parola al papa Urbano VIII, «a quien tocan los actos mayores de esta causa» [42]. E così, nello spazio sottostante il detto quadro – esposto all’interno della chiesa della SS. Trinità di Madrid e raffigurante i tre religiosi «con las insignas de sus martirios» – fu collocato un piccolo altare, che in pochi giorni si riempì di offerte, ceri, braccia e gambe di cera, un reliquiario, due manufatti di angeli in bassorilievo, una lampada d’argento, e altri doni «de mucho valor y precio» [43].

La venerazione dei fedeli era ormai palese. Così, il giudice apostolico Sancho Contreras ritenne opportuno renderla ufficiale: a tal fine fece emettere al notaio apostolico Francisco Martínez un atto in cui, in considerazione delle eccelse virtù e prolungato martirio dei tre servi di Dio, era concessa ai fedeli la facoltà di raccomandarvisi e chiedere loro grazie e miracoli, seppur «con culto particular y privado» [44]. Pochi mesi più tardi (1624) il capitolo provinciale trinitario di Andalusia stabilì che in tutti i conventi dell’ordine dovessero dipingersi quadri o affreschi raffiguranti i tre martiri di Algeri [45].

«Dubia an constet huiusdem martyrium». L’arresto della causa di beatificazione

Da Madrid il processo informativo fu inviato a Roma nel settembre 1626, a istanza di Juan de la Peña [46]. Nel frattempo, però, nel 1625 papa Urbano VIII aveva promulgato i noti decreti super non cultu che riformavano i processi di canonizzazione [47]. La devozione popolare che i tre martiri trinitari avevano suscitato, le numerose offerte votive e preghiere di intercessione che da molti mesi i fedeli gli tributavano (prima che fossero stati ufficialmente beatificati) contravvenivano alle istruzioni imposte da Urbano VIII [48]: pertanto, in ottemperanza ai nuovi decreti, che riservavano alla Santa Sede ogni decisione riguardo il culto pubblico da tributare ai servi di Dio, la causa di beatificazione fu paralizzata (Porres Alonso 1994, 139) [49].

Ma perché quest’arresto improvviso? Fu davvero questa la ragione della sospensione e della mancata riapertura del processo? Il dubbio è legittimo e, in effetti, una ricerca più approfondita su fonti attualmente inedite sembrerebbe suggerire un’altra motivazione [50]. Nelle pagine precedenti si è fatto riferimento a una lettera, che Monroy scrisse al papa nel 1611 (quando i religiosi erano ancora tutti e tre in vita) in cui proponeva di organizzare un incontro tra Fatima – ribattezzata Maddalena – e suo padre Memet Axà a Tabarca, con l’intenzione che fosse la bambina stessa a spiegare al padre in prima persona le ragioni della sua conversione e a confermarne la sincerità. Questa soluzione avrebbe probabilmente permesso (o quanto meno agevolato) la liberazione dei frati ma, come si è detto, la proposta fu respinta e, sebbene una nuova redenzione permise il ritorno in patria dei captivi, i tre morirono in schiavitù.

Nel 1630 i trinitari, con il sostegno dell’ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede, sporsero una petizione alla Congregazione dei Riti per il rilascio delle lettere remissoriali [51], in cui si fa presente che «vista la causa, et il martirio provato, si lasciò di pigliar la resolutione per rispetto di vederi se una lettera, che si pretendi scritta dal detto Padre Maestro Mo[n]roy, quale si trova nella Congregatione del Santo Officio, poteva far difficultà alcuna» [52]. A detta dei procuratori trinitari, la citata lettera non poteva essere «di nocumento alcuno» [53]: secondo loro, di fronte alle pressanti richieste dei mori di aver restituita Fatima, Monroy si era sempre mostrato irremovibile e pronto a subire il martirio, se necessario, per salvare l’anima della giovane [54]. Quella lettera infatti era stata scritta undici anni prima della morte del frate, «e dopoi detta lettera consta per il processo che detto Servo di Dio ha fatto innumerabili atti di fede per li quali patì il martirio e mostrò di morir volentieri per la fede sì come morì» [55]. In altre parole, come assicurava uno dei testimoni al processo, «cuando él perdiese la vida por tan santa causa, la daría por bien cumplida» [56].

Pomara (2023) sottolinea la coincidenza paradossale per cui gli anni in cui i tre frati si trovano in carcere ad Algeri sono gli stessi in cui in Spagna si decreta l’espulsione dei moriscos (peraltro, a insaputa del papa). Quella deportazione di massa colpì migliaia di individui, bambini compresi, discendenti di musulmani spagnoli, ma anch’essi cristiani battezzati, molti dei quali trovarono rifugio proprio in Maghreb, in terram infidelium. La questione è che alla corte di Filippo III si erano fatte sempre più insistenti le voci di chi li considerava cristiani di dubbia fede e li accusava di una conversione solo di facciata (Pomara 2017, 29-66; Fiume 2014). Fatima invece – ora Maddalena – aveva un’anima ancora pura e, contrariamente ai bambini dei moriscos (espulsi insieme ai loro genitori), non rappresentava un potenziale pericolo né un nemico interno per i regni di Spagna: anzi, la sua conversione incarnava la vittoria del cattolicesimo, la sua capacità di attrazione per una giovane infedele ravvedutasi in tempo. Tutto questo faceva sì che la bambina potesse e, dunque, dovesse essere salvata. È questo il motivo per cui, nei primi anni della vicenda, il vescovo di Sagona, responsabile del sequestro e della conversione di Fatima, nonché del tutto estraneo alla decisione sull’espulsione dei moriscos, si rifiuta categoricamente di tornare sui suoi passi e rispedire la giovane ad Algeri, in una fase in cui ancora da Roma si cerca di temporeggiare (Pomara 2023). Ma è anche questa, a mio avviso, la ragione per cui alla morte dei tre, in un contesto ormai cambiato (con un nuovo papa e una stretta sulle canonizzazioni) il Santo Uffizio considererà che Monroy e compagni non erano candidati idonei agli altari e farà sì che il processo apostolico non venga mai autorizzato. Malgrado gli sforzi fatti dall’ordine e le meticolose spiegazioni offerte dai postulatori, la secca risposta della Congregazione dei Riti chiuse ogni spiraglio di possibilità: «Non esse concedendas litterae remissoriales» [57]. Ancora nel luglio 1630 il procuratore dei trinitari presentava una nuova supplica al papa affinché concedesse licenza per l’apertura in Roma del processo apostolico e sollecitava che vi si procedesse con una certa urgenza «[ne] pereant probationes» [58]. Neanche due mesi dopo, il 10 settembre, la Sacra Congregazione dei Riti espresse parere negativo alla richiesta, atteso che «Sanctitas Sua non intendit derogare decreto generali» [59]. La causa, in altre parole, era ormai da considerarsi chiusa.

In conclusione: una vicenda ancora aperta

Torniamo al punto da cui eravamo partiti. Abbiamo iniziato infatti dicendo che martirio e santità sono temi tutt’altro che tramontati; a conferma di ciò, segnaliamo che nel 2015 il processo di beatificazione dei tre trinitari – rimasto incompiuto per quasi quattro secoli – è stato riaperto e si trova attualmente in esame presso la Congregazione delle Cause dei Santi. La nuova apertura del processo ha come obiettivo dimostrare il martirio in odium fidei dei tre frati spagnoli morti in schiavitù nelle carceri di Algeri. La nuova legislazione in materia di canonizzazioni, promulgata da Giovanni Paolo II, ne ha semplificato la procedura, accordando maggior autorità ai vescovi in fase istruttoria (Pereira e Vidal 2015). Questo ha reso più facile la riapertura del caso presso l’Arcidiocesi di Toledo, a istanza del frate Antonio Sáez Albéniz; e così, dopo 385 anni, è stata riaperta una causa che per i Trinitari è particolarmente significativa, in quanto «se trata de tres figuras espléndidas, de religiosos completamente inermes que pagaron con su vida […] el servicio a la libertad y a la fe de los cautivos cristianos, según el carisma de la orden». La loro attualità, è stato scritto, «no puede ser mayor, cuando nos enfrentamos a continuos reclamos de la Iglesia que sufre en tantos lugares del mundo y nos piden a los cristianos y a los trinitarios una clara respuesta, consciente y capaz de llegar a las últimas consecuencias» (ibid.).

Nelle pagine precedenti si è fatto riferimento al fatidico quadro, esposto nella chiesa della Ss.ma Trinità di Madrid, che ritraeva i tre presunti martiri con i simboli tipici della santità, quando ancora questa non era stata sancita con decreto papale, il che, come si è detto, contravveniva le recenti disposizioni urbaniane. Il trinitario Porres Alonso (1994, 13, 73-4) sostiene che fu unicamente per tale ragione, puramente tecnica, che la Santa Sede ne paralizzò la causa di canonizzazione. A mio avviso una simile spiegazione non è convincente: ha piuttosto l’aria di un pretesto, addotto forse dai postulatori del processo o forse dalla Santa Sede, per coprire qualcos’altro. Ci sarebbe una spiegazione più logica: si volle punire in modo esemplare la leggerezza commessa da frate Bernardo Monroy con la citata lettera del 1611, quando, nel tentativo di sbloccare la situazione, aveva proposto un incontro tra Fatima e il padre, in cui la giovane avrebbe avuto l’occasione di spiegare che la sua conversione al cattolicesimo era stata volontaria. La proposta di Monroy era che l’incontro avvenisse sull’isolotto di Tabarca (e non in un convento femminile in Corsica, come voleva il papa) (Pomara 2023). Il Sant’Uffizio interpretò quella missiva come un’inaccettabile imprudenza e la Congregazione dei Riti vi scorse forse l’indizio di un vacillamento nella volontà e nell’accettazione del martirio da parte del frate. Malgrado le esitazioni e l’incertezza sul da farsi durante una prima fase delle trattative (ibid.), alla fine il tribunale si oppose alla proposta di Monroy e i tre religiosi rimasero in ostaggio nella città africana fino alla morte. Se adesso il Sant’Uffizio avesse autorizzato la Congregazione dei Riti a concedere le lettere remissoriali per l’apertura del processo canonico, sarebbe stato come ammettere la propria responsabilità nella morte in carcere dei tre religiosi e riconoscere, post mortem, la legittimità e la sensatezza della richiesta avanzata dal frate undici anni prima. È per questo che alla fine il processo viene paralizzato: il Santo Uffizio romano non permetterà che i tre frati siano santificati, perché non intende (e non può) ammettere che sia stata la sua linea rigorista la causa che ha portato al loro martirio. Non può permetterselo, specie in anni marcati dai difficili rapporti tra la Santa Sede e la Corona di Spagna, che dopo la canonizzazione di quattro santi spagnoli nel 1622 sperimenta un brusco cambio di rotta con l’avvento al soglio pontificio di Urbano VIII (Dandelet 2001, 188-201). La neutralità della Santa Sede nella prima fase della Guerra dei trent’anni – che dai contemporanei è percepita come un posizionamento filofrancese (Visceglia 2004, 184-6; 2010, 41-3) – causa forti tensioni con Madrid: anche per questa ragione, quando nel 1630 giunge alla Congregazione dei Riti la detta supplica per la concessione delle lettere remissoriali, il momento non era dei più propizi. Solo pochi anni più tardi, una sorte molto simile a quella dei tre trinitari toccherà a sei frati carmelitani calzati, anch’essi spagnoli, coinvolti loro malgrado nell’affaire del rinnegato ferrarese Francesco Guicciardo, alias Aly, catturato nel 1626 e detenuto come apostata nelle carceri dell’Inquisizione spagnola di Palermo (Fiume 2012). Anche in questo caso, il tribunale si oppose al suo scambio con i frati, che nel 1640 si trovavano schiavi a Tunisi, obbligandoli a rimanere in schiavitù, malgrado le pressioni esercitate da più parti, pur di non autorizzare il rilascio di un cristiano rinnegato [60]. In entrambi i casi, insomma, aveva vinto l’intransigenza del Santo Uffizio – tanto di quello romano, come dello spagnolo – e si era imposta la linea rigorista, una linea di assoluta chiusura e assenza di elasticità che rendeva impossibile qualunque mediazione.

Ringraziamenti

Desidero ringraziare il personale dell’Archivio Vaticano della Congregazione per la Dottrina della Fede, ed esplicitamente il padre Javier Carnerero Peñalver, Procuratore e postulatore generale dell’Ordine Trinitario, nonché responsabile dell’Archivio del convento di San Carlo alle Quattro Fontane in Roma, e parimenti la dott.ssa Simona Durante, archivista responsabile della Congregazione delle Cause dei Santi, per la loro gentile disponibilità, per l’aiuto offertomi nella ricerca e consultazione dei fondi conservati presso detti archivi e per la cortesia che hanno avuto nei miei riguardi, permettendomi di accedere ai locali e realizzare il mio lavoro di ricerca malgrado le restrizioni anti-Covid dell’autunno del 2020 e del 2021.

Abbreviazioni e bibliografia

Archivi, Biblioteche, Fondi, Serie

  • ACCS = Archivio della Congregazione delle Cause dei Santi, Città del Vaticano
  • ACDF = Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, C. del Vaticano
  • AHN = Archivo Histórico Nacional, Madrid
  • ASC = Archivio di San Carlino (Ordine SS. Trinità), Roma
  • BNE = Biblioteca Nacional de España, Madrid
  • Pos. Decr. Rescr. = Positiones Decretorum et Rescriptorum

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Note

1. Ci limitiamo a ricordarne appena un paio: nel settembre 2020 la Congregazione delle Cause dei Santi promulgò i decreti riguardanti – tra gli altri – il martirio di quattro operarios diocesanos, uccisi “in odio alla fede” tra 1936 e 1938, durante la Guerra civile spagnola. Più recentemente, nel maggio 2021, è stato beatificato il giudice siciliano Rosario Livatino, assassinato dalla mafia nel 1990 e di cui la Santa Sede ha riconosciuto il martirio in odium fidei (in odio alla fede), facendone così il primo magistrato dichiarato ufficialmente Beato dalla Chiesa.

2. Moroni 1840; 1841; Boesch Gajano 1999; Dandelet 2000; Gotor 2002, 285-95, 373-96.

3. In spagnolo baños (o mazmorras), in francese bagnes (Dan 1649, 28-9): così si chiamavano le prigioni sotterranee presenti nelle principali città portuali del Maghreb ottomano, dove i captivi europei erano detenuti in condizione di schiavitù in attesa di riscatto: Martínez Torres 2004, 59-68.

4. Il numero esatto dei riscattati non è chiaro: secondo Vega (1729, 65) furono 130, altri autori o testimoni parlano di 127 persone, altri ancora 136 o 140: Porres Alonso 1994, 71.

5. Alla vicenda si fa riferimento in diversi testi coevi, tanto mss. (infra), quanto a stampa (Gaspard 1613).

6. Memet Axá era baluch baxí (letteralmente, “capo archibugiere”), un ufficiale di epoca ottomana equiparabile in certa misura al comandante di polizia della Reggenza algerina (Encyclopédie de l’Islam 1913).

7. L’espressione è tratta da un episodio, già riferito da Orse (1868, 88) e citato in Grammont (1885, 16).

8. La lettera è citata in ACCS, Pos. Decr. Rescr., fasc. 10.307, ff. 1r-6v (ma su questo torneremo infra).

9. Lo si apprende da documentazione di alcuni anni posteriore (maggio 1621), citata in Pomara (2023). Ringrazio l’autore per avermi dato la possibilità di leggere il detto lavoro prima della sua pubblicazione.

10. La lettera, datata Roma, 24 novembre 1621, è citata ancora in Pomara (2023).

11. Nei documenti di parte cristiana – dalle cronache al processo di canonizzazione – il luogo è indicato come il “castello del bey” o “torre del Emperador” (infra). Si tratta del luogo fortificato che in Marocco e nelle reggenze nordafricane era destinato allo stanziamento delle truppe a difesa della città (Medina) e a residenza del governatore (Encyclopédie de l’Islam 1927).

12. Proceso Informativo sobre el cautiverio y muerte en Argel de los PP. Bernardo Monroy, Juan de Águila y Juan de Palacios (1609-1622), hecho en Palma de Mallorca los días 27 de enero a 28 de marzo de 1624. BNE, Ms. 3584, ff. 262-355.

13. Proceso Informativo sobre la vida, cautiverio y muerte en Argel de los PP. Bernardo de Monroy, Juan del Águila y Juan de Palacios, hecho en Madrid (1623-24). ASC, Ms. 52, f. 3r.

14. Ivi, ff. 3v-5r.

15. Tale quesito, ovviamente, viene posto solo a coloro che avevano dichiarato di conoscerli da molto tempo (per esempio alcuni loro confratelli, o secolari originari delle medesime diocesi). Si chiede al testimone se fosse a conoscenza del fatto che i tre religiosi avrebbero potuto vivere onorevolmente e agiatamente da secolari, perché non gli mancavano i mezzi e il talento per accedere a una professione e condurre una vita benestante da laici, e, nonostante ciò, decisero di abbandonare tutto, prendere i voti e diventare frati dell’ordine trinitario per dedicarsi alla liberazione degli schiavi in potere dei mori. Ivi, ff. 7r-v.

16. «En cuya consideración y contemplación – si legge nell’interrogatorio – les comunicaba Nuestro Señor muy tiernos afectos y lágrimas con que cada día se iban encendiendo en esta sagrada devoción, y otros señalados favores y mercedes espirituales que dios les hizo». Ivi, f. 7v.

17. Il testimone deve confermare (o smentire) che i frati furono tratti in giudizio e che «de allí los llevan en cadenas; ponenlos en el baño con cadenas y hácenles muchos malos tratamientos». Ivi, f. 8r.

18. Uno di questi è il testimone n. 14, Tomás Pinto, 26 anni, che fu captivo per un anno ad Algeri (1620-21) e assicura di aver visto il padre Monroy quando si trovava rinchiuso nella prigione della torre del castello del bey. Ivi, f. 43r. Porres Alonso (1994, 145) dà per buona la deposizione del testimone.

19. Ivi, ff. 7r-15r. Il testo dell’interrogatorio, redatto dal frate Gaspar Manuel da Silva, fu anche stampato e fatto circolare a Madrid con il titolo: Interrogatorio por donde se han de examinar los testigos que depusieren acerca de la vida, virtudes heróicas, santidad, dilatado martirio y milagros de los siervos de Dios padre Maestro fray Bernardo Monroy, de la orden de la Santissima Trinidad, redentor general en las partes de Argel, Presentado fray Juan del Águila, y fray Juan de palacios, sus compañeros de la dicha Orden, s.l., s.a. [Madrid, 1623]. de la Asunción 1898-1899, II, 493-4.

20. Ivi, ff. 5r-v.

21. Ivi, ff. 5v-6r.

22. Ivi, ff. 10v-11r.

23. Ivi, ff. 13v-14r.

24. Ivi, f. 57v.

25. Ivi, f. 57v.

26. Ivi, f. 83r.

27. Ivi, f. 83r.

28. Ivi, f. 86v.

29. Ivi, f. 87r.

30. Ivi, ff. 98r-101v.

31. Ivi, ff. 98v-99r.

32. «Confesaba y comulgaba y procuraba todo el remedio de medicinas y mantenimiento, que era causa que muchos no desmayasen y faltasen en la Fe, y de gran consuelo y ánimo a todos». Ivi, f. 99r.

33. Fra gli altri, Rostagno 1983; Scaraffia 1993; Fiume 2016.

34. ASC, Ms. 52, ff. 104 r-v.

35. Ivi, f. 104v.

36. Ivi, ff. 103r-104v.

37. Si trattava di dimostrare che i tre frati, coscienti del rischio a cui andavano incontro, avessero sopportato la schiavitù «con ánimo y voluntad de padecer por Dios y morir por su sancta fe católica, encendidos en el deseo de Martirio […] muriendo (como murieron) como verdaderos mártires». Ivi, f. 9v.

38. Ivi, ff. 104v-105r.

39. Il tema dei conflitti di interesse nei processi di canonizzazione è ovviamente un punto di importanza cruciale, su cui non possiamo soffermarci in questa sede. Basti ricordare, però, che la notorietà e credibilità dei testimoni, insieme alla solidità delle relazioni politiche del postulatore della causa, rivestivano un ruolo fondamentale nel determinare le sorti del processo, il cui successo era legato anche alle capacità persuasive degli ordinari e delle reti di relazioni messe in moto. Gotor 2002; Alabrús 2016; Castagnetti e Renoux 2016; Vincent-Cassy 2016.

40. Lo attestano gli stessi documenti del processo di beatificazione: ASC, Ms. 52, ff. 105v-108v.

41. Ivi, f. 108v.

42. Ivi, ff. 108 r-v.

43. Segni inequivocabili che «va creciendo la devoción que los fieles cristianos tienen con estos Siervos de Dios». Fray Gaspar Manuel de Silva alla Sacra Congregazione dei Riti. Ivi, ff. 106 r-v.

44. Ivi, f. 108v. Per la verità, già nel novembre 1623 il giudice apostolico aveva espresso un certo riserbo nei confronti della fama di santità così precoce che i tre frati avevano suscitato, tanto che di fronte alla profusione di offerte votive, ceri ed ex voto che i fedeli gli tributavano aveva inteso porre un freno a cotanto fervore devozionale, decretando che «no en más se reciban y admitan los votos y ofertas [que] de aquí adelante se hicieren a los dichos Siervos de Dios […] por cualesquier personas y se pongan delante de su retrato y reliquias». Ivi, f. 106v. Le offerte e voti già apposti, invece, furono mantenuti.

45. Domingo López, Historia de la Provincia de Andalucía, t. III, f. 248v (cit. in Porres Alonso 1994, 139). Sappiamo, ad esempio, che tra i numerosi quadri di santi e trinitari illustri che adornavano il chiostro del convento trinitario di Cuenca alla vigilia dell’esclaustrazione (1835-1837) vi erano anche quelli dei tre martiri di Algeri, dipinti nella prima metà del secolo XVII. AHN, Códices, 295 B, f. 344v.

46. ACCS, Positiones Decretorum et Rescriptorum, fasc. 6813, ff. 1-2.

47. Moroni 1840; 1841; Caffiero 1996, 6; Boesch Gajano 1999, 77; Gotor 2002, 376-7; Serrano Martín 2016, 194-7.

48. Così lo sancì la Sacra Congregazione dei Riti, interpellata sulla questione: Decreto in Hispania de anno 1623 facto quod in dicto processu annotatum reperitus de apponendis imaginibus praedictorum cum votis, et tabellis, quod est contra decretum Sanctitatis suae de anno praecedent[i] editum. Die 12 septembris 1626. ACCS, Regestum Decretorum Servorum Dei, vol. I (1592-1654), f. 304.

49. Da quel momento – come si dirà meglio più avanti – la causa rimase ferma per secoli e, malgrado i ripetuti tentativi di riapertura fatti dall’Ordine trinitario, fu impossibile portarla a termine.

50. Mi riferisco fondamentalmente alla documentazione conservata presso l’Archivio dell’ex Congregazione dei Riti (oggi Cause dei santi), in particolare l’intero dossier relativo a Bernardus de Monroy … et II Socii, O. SS. Trinitatis, in odium Fidei, uti fertur, interfecti”. ACCS, Regestum Decretorum Servorum Dei, vol. I (1592-1654), ff. 304, 309-310 (Varia circa proc. et cultum); f. 458 (Instantia proc. et cultum); ff. 466-467 (Negantur litterae remissoriales). Tale documentazione, non citata da Vega y Toraya (1729) né da Porres Alonso (1994), integra i fondi dell’Archivio del Santo Uffizio romano, oggi Congregazione per la Dottrina della Fede (ACDF, Decreta 1621-1622), permettendo di ricostruire le versioni delle due parti in causa.

51. Le lettere remissoriali, rilasciate all’ordinario o al procuratore della causa al termine della fase diocesana, rappresentano la delibera della Sacra Congregazione dei Riti con cui si autorizza l’istruttoria al riesame dei testimoni che da avvio alla fase apostolica del processo di canonizzazione (Gotor 2004, 17, 45).

52. ACCS, Posit. Decr. Rescr., fasc. 8577, ff. 1 r-v.

53. Ivi, f. 2r.

54. Alle obiezioni interposte dalla Congregazione «si risponde, che non contradice al primo proposito poiché […] in detta lettera non dice che detta figliola si dia in mano del Padre Turco, ma solo se li dia sodisfattione che li possa parlare in un luogo de Christiani sicuro, come quello di Tabarca dove poteva andare detta figliola con il suo marito similmente christiano acciò il padre havesse questa sodisfattione di parlarli et intender da lei che di sua vera e spontanea voluntà si era fatta christiana». Memoriale dei Trinitari alla Sacra Congregazione dei Riti. ACCS, Posit. Decr. Rescr., fasc. 10.307, ff. 1r-6v.

55. Ivi, f. 3r.

56. ASC, Ms. 52, f. 61v.

57. ACCS, Pos. Decr. Rescr., fasc. 10.307 (sul dorso).

58. Il documento riporta «me», ma è chiaramente un errore del copista, che invece di trascrivere ne ha trascritto me. Il senso della frase è infatti che l’ordine della SS. Trinità supplica alla Sacra Congregazione di ripetere il processo apostolico affinché non si perdano le testimonianze (ne pereant probationes): il timore dei trinitari era infatti che, se il processo non si fosse riaperto in tempi rapidi, i testimoni sarebbero defunti e non avrebbero più potuto testificare al processo. ACCS, Regestum Decretorum Servorum Dei, vol. I (1592-1654), f. 458.

59. La Congregazione si riunì nuovamente «ad effectum videndi an essent concedendae remissoriales, et Sacra Congregatio respondit negative». ACCS, Regestum Decretorum Servorum Dei, vol. I (1592-1654), f. 458 e ff. 466-467.

60. Discurso sobre si un renegado pertinaz, cuya causa pende en la Inquisición, se puede lícitamente dar a los Tunecinos en reventa de un sacerdote que tenía cautivo (1640). BNE, Mss. 8512, ff. 214v-216r.