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Dossier

L'emigrazione italiana in Europa 1945-57. Dibattito sul libro di Michele Colucci "Lavoro in movimento"

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Dibattito sul libro di Michele Colucci Lavoro in movimento

Patrizia Audenino

Da più parti negli ultimi anni è stata segnalata, nei confronti degli studi sull’emigrazione italiana, una situazione con aspetti paradossali[1]. Si è infatti verificata una crescita esponenziale del discorso pubblico sull’emigrazione, un’improvvisa dilatazione del suo utilizzo mediatico, attraverso libri di grande diffusione e meritevoli di premi prestigiosi, come Vita di Melina Mazzucco, premio Strega 2001, o come L’orda di Gian Antonio Stella, o grazie a film come Nuovomondo di Crialese, e attraverso grandi mostre come quella di Genova del 2008, e infine con la moltiplicazione di iniziative museali.
Contemporaneamente gli studiosi hanno segnalato con crescente disagio una situazione di stallo e quasi di smarrimento nella ricerca. In varie sedi sono stati lamentati soprattutto il carattere aggiuntivo di molte indagini, la conseguente difficoltà di pervenire a sintesi, e il perdurante carattere settoriale del tema, percepito dalla storiografia come un ambito marginale e non del tutto appartenente alla grande storia. Insomma la disciplina, come ha ricordato Franzina nel 2003, ha a lungo sofferto di uno «stato di minorità» alimentato dalla «malintesa nozione di minorità» collegata all’oggetto di studio[2].

In questo quadro si collocano nuove ricerche che ci indicano al contrario quanto si sia ancora lontani da una compiuta conoscenza del nostro passato migratorio e come vi sia ampio spazio per porre problemi storiograficamente rilevanti, cercandone la soluzione attraverso fonti inedite e perspicue, interrogate con adeguata strumentazione disciplinare[3]. È questo il caso dell’importante libro di Michele Colucci Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa 1945-57 (Donzelli, Roma 2008), che ha scelto come periodo di indagine quel secondo dopoguerra considerato come uno dei settori più sguarniti di indagini. [[figure caption="Copertina di Lavoro in movimento di Michele Colucci"]]figures/2009/emigrazione-italiana-in-europa/emigrazione-italiana-in-europa_2009_01.jpg[[/figures]] Andreina De Clementi ha indicato le ragioni di questo relativo vuoto storiografico: la ripresa migratoria fra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Settanta è risultata schiacciata fra la grande migrazione della prima metà del secolo e l’inizio dei fenomeni di immigrazione che sono presto apparsi nella loro portata epocale[4]. Tuttavia già Federico Romero nel 1991 aveva indicato questa fase migratoria successiva alla Seconda guerra mondiale come cruciale almeno per due aspetti: il nesso fra flussi migratori e andamento dell’economia europea, e il tentativo dei governi italiani di inserire la disoccupazione del nostro paese nella costruzione della politica europea, in altre parole di trasferire il problema della disoccupazione italiana in un problema collettivo dell’Europa.

A quali domande si propone di dare risposta la ricerca di Michele Colucci? In primo luogo Colucci parte dall’interrogativo di quando e perché le classi dirigenti italiane decisero, subito a ridosso dalla conclusione del conflitto, di incoraggiare l’emigrazione verso l'Europa e di costruire dei circuiti per promuoverla. In secondo luogo egli si interroga sul ruolo che l’immigrazione avrebbe dovuto svolgere nei paesi del continente e in quali di questi paesi e con quali percorsi si sono effettivamente diretti gli emigranti italiani, ponendosi anche il problema della reazione delle società di arrivo. Al cuore della ricerca sta tuttavia l’interrogativo riguardante le istituzioni pubbliche preposte alla gestione della politica migratoria italiana: infatti un ruolo centrale nella documentazione vagliata per rispondere a questi problemi è svolto da quella del Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale.

Riguardo agli interrogativi sottesi alla ricerca di Colucci, occorre fare esplicito riferimento a quella che è stata indicata come la “memoria debole” dell’emigrazione operaia, vale a dire di quell’emigrazione prevalentemente maschile, temporanea e diretta verso l’Europa che ha finora trovato meno spazio rispetto all’epica dell’esodo di colonizzazione della grande migrazione. Un altro importante riferimento riguarda i condizionamenti e il quadro normativo di questa fase migratoria: Colucci opportunamente richiama la definizione di fase delle «porte aperte» proposta da Sarah Collinson[5], ma al contempo nota come quello stesso periodo fosse caratterizzato da un labirinto politico e amministrativo tale da rendere in realtà difficile attraversare le porte dell’emigrazione. A questo riguardo l’analisi degli accordi internazionali mostra la scarsa capacità negoziale dell’Italia e la persistenza dell’emigrazione assistita, secondo un modello sperimentato fin dagli accordi italo-tedeschi del 1938. Ma soprattutto ne viene illuminata la gestione disattenta dal punto vista umano degli emigranti, come mostrano le varie storie disseminate nel libro e scelte con grande sensibilità per illustrare peripezie e situazioni drammatiche che hanno caratterizzato l’esperienza dei migranti.

Il libro si chiude con il 1957, seguendo una rigorosa dimensione cronologica che attraversa esattamente il periodo compreso fra la riapertura dei flussi, nel 1945, e, attraverso la stagione degli accordi bilaterali, giunge fino al trattato di Roma, che modificò radicalmente il quadro normativo degli emigranti italiani nei paesi aderenti al Mercato comune. Da quel punto si sarebbe affermato un modello rotatorio dell’emigrazione, che produsse fra l’altro quella che venne definita come “modernizzazione senza sviluppo”. La sfida che ci lascia Colucci è di ricostruire i percorsi dell’intero periodo della seconda metà del 900, dato che come è noto l’emigrazione non si è conclusa con il biennio 1973-75. Quello posteriore al 1957 è il periodo più difficile da affrontare a causa della maggiore libertà di circolazione e quindi della minore registrazione degli espatri. Le fonti a cui affidarsi divengono in modo privilegiato quelle dei paesi di arrivo e di quei mercati del lavoro europei in cui la manodopera italiana si è trovata in concorrenza con quella proveniente dall’Europa balcanica e dall’Africa settentrionale.

Matteo Pasetti

Del bel libro di Michele Colucci vorrei mettere a fuoco alcuni temi che lo attraversano carsicamente, e che mi sembrano importanti anche perché, collocando il fenomeno dell’emigrazione italiana del secondo dopoguerra in un ampio sfondo storico, permettono di allargare la discussione oltre il campo degli specialisti.

Le prime osservazioni riguardano la periodizzazione. Com’è esplicito fin dal sottotitolo, l’autore circoscrive il suo studio a un ben definito arco cronologico: 1945-1957. La scelta del 1945 come termine a quo non necessita di particolari spiegazioni: per l’Italia, la fine della Seconda guerra mondiale significò anche la ripresa dell’emigrazione di massa e l’inaugurazione di una politica migratoria per favorirla. Altrettanto ineccepibile risulta la scelta del 1957, o più precisamente del biennio 1956-57, come termine ad quem: il forte impatto sull’opinione pubblica della tragedia di Marcinelle, l’accordo bilaterale stipulato con la Repubblica federale tedesca, l’istituzione del Mercato europeo comune con la conseguente apertura di una fase nuova nella gestione comunitaria della circolazione dei lavoratori, la conclusione della ricostruzione economica e l’avvio della stagione delle grandi migrazioni interne determinarono una ridefinizione sia della geografia dei flussi migratori italiani, sia della stessa politica migratoria. Uno dei meriti dell’autore è però quello di non rendere troppo rigida e schematica tale periodizzazione, bensì di sottolineare ripetutamente, accanto alle rotture, alcune continuità, che attraversano entrambi i limiti cronologici.

Rispetto al termine a quo, e su scala europea, le linee di continuità sono tracciabili innanzitutto come dirette conseguenze di una guerra che generò appunto fenomeni migratori di dimensioni inedite (si pensi agli undici milioni di profughi presenti sul continente alla fine del conflitto o all’arrivo di nuovi migranti in seguito all’avvio del processo di decolonizzazione) e che lasciò eredità culturali pesanti anche nel campo delle relazioni tra emigranti e popoli dei paesi di destinazione (su tutte, la memoria delle occupazioni nazifasciste). Se si considera il 1945 come l’“anno zero”, diventa impossibile insomma comprendere la complessità del problema delle migrazioni nel dopoguerra. Tanto più che un’ulteriore continuità emerge dal confronto tra le politiche migratorie postbelliche e quelle sperimentate dai governi durante la guerra, vero e proprio laboratorio di provvedimenti per impiegare manodopera proveniente dall’estero, in seguito spesso riutilizzati. A questi generali elementi di continuità, in varie occasioni segnalati dalla storiografia, Colucci ne aggiunge altri specifici del caso italiano:

  1. La scelta di puntare sull’emigrazione per favorire la ricostruzione economica maturò tra le future classi dirigenti già negli anni di guerra, in seguito a un dibattito che coinvolse esponenti antifascisti, sindacalisti, economisti, ma anche dirigenti e funzionari dell’amministrazione di età liberale e fascista.
  2. Gli uffici preposti in età repubblicana a organizzare l’emigrazione erano in buona parte uffici preesistenti.
  3. La «condizione di eccezione» stabilita per i lavoratori italiani all’estero era già stata sperimentata durante la guerra, con provvedimenti straordinari che introducevano deroghe alle regole del diritto del lavoro e della cittadinanza.
  4. Certi caratteri dell’emigrazione italiana postbellica presentavano inoltre stretti legami con un passato più remoto. Per esempio si riproducevano esperienze consolidate, come i mai interrotti flussi di emigrazione clandestina verso Svizzera e Francia. Oppure si riproponeva il mito della “grande emigrazione” di inizio secolo: dalla nostalgia per l’epoca dei pionieri, che avevano “colonizzato” e “civilizzato” il nuovo mondo, derivava almeno in parte l’idea, propria di alcuni esponenti democristiani, di privilegiare l’emigrazione individuale rispetto a quella collettiva.

Le linee di continuità non sono tracciabili però solo all’indietro, osservando il passato precedente, ma anche in avanti, attraversando i decenni successivi. Rispetto al termine ad quem, l’autore sottolinea infatti sia la permanenza dei flussi migratori italiani verso l’Europa dopo il 1957, nonostante la prevalenza delle migrazioni interne negli anni del boom economico, sia la persistenza di un nesso tra emigrazione e contratto di lavoro, che è rimasto il cardine delle politiche migratorie elaborate in tempi più recenti per l’arrivo di migranti extraeuropei. Si possono allora sollevare - e rivolgere in primo luogo a Colucci - un paio di questioni. Da un lato, se la rottura rappresentata dalla fine della Seconda guerra mondiale vada in qualche misura ridimensionata. E dall’altro, se sia comunque possibile restituire una specificità al primo decennio del dopoguerra, specificità che nel campo dei fenomeni migratori potrebbe risiedere non solo nella tendenza a una forma di interventismo statale più compiuta, ma soprattutto nell’affermazione su scala europea di questo nesso tra emigrazione e contratto di lavoro.

Quest’ultimo punto introduce una seconda serie di considerazioni, più strettamente connesse con il tema del lavoro. Una concerne il “paradosso della disoccupazione” delineato dall’autore: nonostante venisse presentata - e a lungo sia stata interpretata - come una soluzione al problema della disoccupazione, in realtà nella maggior parte dei casi l’emigrazione coinvolse lavoratori, qualificati o semi-qualificati, già occupati. La sua efficacia come valvola di sfogo per la disoccupazione risulterebbe dunque tutt’altro che provata, e semmai si potrebbe sostenere l’esatto contrario. Un’altra considerazione tocca invece il ruolo dei sindacati, italiani e stranieri. Dalle pagine di Colucci mi pare che emerga un atteggiamento sostanzialmente ambiguo di tutte le forze sindacali: in Italia, sospeso tra l’esigenza di tutelare gli emigranti e la condanna del fenomeno; all’estero, oscillante tra l’obiettivo di sindacalizzare anche i lavoratori provenienti dall’Italia e la scelta di privilegiare gli interessi dei connazionali. In breve, in riferimento ai problemi del lavoro, comunque si provi a tracciare un bilancio dell’esperienza migratoria italiana nel primo decennio del dopoguerra, sembrerebbe prospettarsi un bilancio estremamente contraddittorio.

Per una terza riflessione si può partire dal capitolo conclusivo del libro, dove sono proposte quattro chiavi di lettura per definire la molteplice identità dei lavoratori che scelsero di varcare i confini: oltre ovviamente a diventare «migranti», al contempo questi lavoratori erano «stranieri» nei paesi d’arrivo, rimanevano comunque «italiani», e molto spesso si scoprivano «scomodi». Così, però, l’autore sembra qui trascurare un’ulteriore aspetto del fenomeno, fra l’altro opportunamente abbozzato nelle pagine introduttive, che riguarda il rapporto tra la ripresa dell’emigrazione di massa e il processo di integrazione europea: si potrebbe parlare insomma anche di “lavoratori europei”?

Secondo una tesi sostenuta fra gli altri da Emilio Franzina e Federico Romero, infatti, le migrazioni all’interno del continente avrebbero funzionato in generale come un incentivo all’integrazione europea, all’apertura internazionale delle generazioni coinvolte, alla sprovincializzazione di intere regioni. In altri termini, avrebbero contribuito a porre fine a quell’«ossessione dei confini» che per Charles Maier ha connotato la storia europea per un «lungo secolo». Anche i flussi migratori italiani andrebbero dunque inquadrati alla luce dei processi di internazionalizzazione dei mercati di lavoro e di avanzamento dell’integrazione europea. Questa tesi mi sembra ineccepibile sul lungo periodo. Ma sul breve? Il libro di Colucci fa sorgere qualche dubbio, almeno per quanto riguarda le zone di immigrazione: l’arrivo di ampi flussi migratori non produsse forse anche fenomeni di chiusura, di reazione, di difesa della propria identità locale, ostacolando o rallentando quindi il processo di integrazione? Ed è forse per questo motivo che nel capitolo conclusivo non compare un paragrafo sui “lavoratori europei”?

Michele Colucci

Patrizia Audenino e Matteo Pasetti aprono il dibattito a una serie di problemi molto delicati e non facili da mettere a fuoco rapidamente. La riflessione di Patrizia Audenino relativa alla storia lunga dell’ emigrazione italiana nei paesi europei e all’esigenza di una sintesi in ambito scientifico è a mio avviso un ottimo terreno di partenza. Credo infatti che il tentativo di mettere in comunicazione le vicende migratorie con l’insieme dei nodi storiografici di natura politica ed economica relativi all’Italia post-bellica non rappresenti soltanto un fondamentale terreno di confronto storiografico ma costituisca un metodo di lavoro irrinunciabile per chi voglia comprendere in profondità le caratteristiche della ricostruzione italiana.

L’emigrazione, da sola, non spiega il contesto sociale e politico in cui essa si manifestò. Sembra un’affermazione banale ma a ben guardare non lo è affatto, non solo perché gli studi hanno proseguito a lungo su binari separati (da una parte l’emigrazione, dall’altra tutto il resto) ma anche perché gli interessi che ruotano attorno all’ emigrazione italiana dopo la Seconda guerra mondiale e gli attori che si muovono sulla scena politica ed economica sono molteplici e determinano un intreccio molto difficile da districare. Dal punto di vista metodologico ho quindi scelto di affrontare questo intreccio a partire da un tema ben preciso: la ricostruzione della politica migratoria. Intendo per politica migratoria qualcosa di non riconducibile alla sola legislazione ma qualcosa di più esteso, che ha a che fare con la politica economica, con la politica estera, con la macchina organizzativa elaborata dalle istituzioni pubbliche per raggiungere quell’obiettivo che fin dall’estate del 1945 viene individuato come strategico dalle classi dirigenti: far partire il maggior numero di persone il più rapidamente possibile. Il rapporto tra Stato e migrazioni diventa infatti negli anni successivi alla seconda guerra mondiale sempre più stretto, e viene governato da una pluralità di soggetti che non sempre la pensano allo stesso modo (basti guardare alle differenze tra il Ministero del lavoro e il Ministero degli esteri) e che hanno a che fare con la ridefinizione complessiva del confine tra “pubblico” e “privato”, che nel settore migratorio è particolarmente evidente: dentro le istituzioni sono molto forti e molto presenti gli interessi di quei soggetti privati (uno su tutti: gli armatori) che condizionano in modo determinante l’azione delle stesse istituzioni.

Tra l’altro, il rapporto tra Stato e migrazioni è un tema all’ordine del giorno negli anni post-bellici: altri Stati moltiplicano infatti le proprie competenze rispetto al governo delle migrazioni. Si tratta di una tendenza visibile sia nei paesi dove giungono immigrati (si pensi al caso dell’Oni in Francia o alla Svizzera, che nel 1948 firma proprio con l’Italia per la prima volta nella sua storia un accordo finalizzato all’immigrazione di lavoratori) sia nei paesi da cui partono, come nel caso italiano ma anche nel caso di paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quali Tunisia, Algeria e Turchia, dove nascono enti pubblici che hanno il compito di seguire i flussi in uscita dai rispettivi territori. Nello stesso periodo inoltre si nota un forte protagonismo delle istituzionali internazionali, basti pensare alla nascita nel 1952 del Cime (Comitato intergovernativo per le migrazioni europee, che nel 1989 diventerà Oim, Organizzazione internazionale delle migrazioni), dell’Acnur nel 1949 (Alto commissariato delle nazioni unite per rifugiati), ma anche al ruolo fondamentale delle organizzazioni comunitarie, quali la Ceca e il Mec, che prevedono rispettivamente nel 1951 e nel 1957 nei loro trattati fondativi il principio della libera circolazione della manodopera. La scelta di concentrare molto l’attenzione sulle politiche migratorie di un paese di partenza (l’Italia) è legata alla necessità di guardare con attenzione al dibattito sulle migrazioni non solo rispetto all’attenzione per le scelte degli attori riconducibili allo Stato e alle istituzioni ma più in generale alla presenza diffusa dell’emigrazione nell’opinione pubblica e nella società. Sarebbe interessante a questo proposito ragionare sull’Italia del dopoguerra come “società migratoria”, in cui sono davvero numerosi non solo coloro che scelgono di partire ma anche i soggetti che prendono parte al dibattito sulle migrazioni.

Il periodo che ho scelto di approfondire è segnato da una emigrazione che Enrico Pugliese ha opportunamente definito “emigrazione difficile”. Questo concetto ci può servire a chiarire alcune questioni poste negli interventi di apertura. L’emigrazione è innanzitutto difficile da ricordare, perché è avvenuta in condizioni che hanno davvero poco a che vedere con “l’epopea migratoria” di primo Novecento a cui ha fatto riferimento Patrizia Audenino. Difficile da ricordare perché è avvenuta in condizioni complicate, in un periodo di forte controllo da parte degli stati dei rispettivi mercati del lavoro, di legislazioni rigide nei confronti di chi si spostava da un paese all’altro, di condizioni di vita e di lavoro particolarmente pesanti. Ecco quindi che questa emigrazione è anche difficile da studiare, perché le categorie interpretative utilizzate comunemente negli studi migratori non ci permettono di approfondire correttamente tutte le sue sfaccettature. Parlare ad esempio di comunità o di integrazione è molto azzardato, poiché la gran parte dei flussi migratori del periodo erano caratterizzati da contratti temporanei, che prevedevano la presenza dei lavoratori migranti limitata nel tempo e soprattutto nello spazio, in situazioni di isolamento residenziale che impedivano sia la formazione di aggregazioni organizzate di gruppi di stranieri sia i loro contatti con la cittadinanza locale. Anche per questo penso che se vogliamo guardare ai rapporti tra l’emigrazione e l’europeizzazione dei lavoratori italiani dobbiamo necessariamente guardare al periodo successivo a quello dell’immediato dopoguerra, quando non solo si fanno sentire gli effetti della libera circolazione della manodopera sulle scelte occupazionali (a partire dai primi anni Sessanta), ma soprattutto il lavoro dei migranti italiani è un lavoro tendenzialmente più qualificato e meno precario, come meno precarie sono ad esempio le condizioni di alloggio. E’ per questo che, per quanto concerne l' emigrazione italiana negli anni Cinquanta, fino alla fine del decennio i lavoratori italiani sono migranti, stranieri e scomodi, come li ho definiti nelle conclusioni del volume, ma non sono lavoratori “europei”, perché ho l’impressione che la dimensione dell’europeizzazione ancora non riguardasse la loro esperienza.

Il discorso sul sindacato è molto delicato. Gli studi più aggiornati hanno mostrato come effettivamente in ambito sindacale abbiano convissuto negli anni del dopoguerra diverse tensioni verso la realtà dell’emigrazione[6]. La definizione più interessante per capire la posizione nella congiuntura post-bellica è quella di emigrazione come “male necessario”, ripetuta più volte nei documenti sindacali a partire dal 1945. A fianco alla consapevolezza che i flussi diretti verso l’estero fossero necessari nel contesto della ricostruzione, il giudizio sull’emigrazione restava un giudizio negativo, che di fatto impediva l’elaborazione di una politica migratoria sindacale capace di andare oltre la dimensione dell’assistenza (pur fondamentale e praticata con intensità nei luoghi di emigrazione, anche in forma sostitutiva rispetto alla latitanza delle istituzioni). Da parte della Cgil, la critica alle forme con cui lo Stato italiano aveva gestito la ripresa dei flussi divenne col passare del tempo sempre più serrata, in coincidenza tra l’altro con la fine della collaborazione antifascista nel 1947 e la rottura dell’unità sindacale (le posizioni della Cisl nei confronti delle scelte governative erano più morbide rispetto a quelle della Cgil). Un cambio di passo nelle politiche sindacali si può individuare nei primi anni Sessanta, dopo il ciclo impetuoso delle migrazioni interne e delle loro conseguenze, quando la sensibilità verso i temi migratori aumentò notevolmente, ma siamo in un periodo già differente da quello affrontato nella mia ricerca.

Dal punto di vista della periodizzazione effettivamente il rapporto con la Seconda guerra mondiale è determinante. Ho scelto di iniziare questo lavoro partendo dall' emigrazione italiana dopo il 1945, ma nel corso della ricerca mi sono reso conto di quanto siano numerosi i rimandi agli eventi della guerra, soprattutto rispetto al periodo 1943-45. In sintesi, questi rimandi sono riconducibili ad almeno due fattori: il dibattito sulla ricostruzione che inizia negli anni finali di guerra e il ruolo dei prigionieri di guerra. Rispetto al primo punto, guardando al dibattito nel mondo politico ed economico, i riferimenti all’emigrazione tra i mezzi indicati per uscire dall’inevitabile crisi economica che sarebbe scoppiata alla fine della guerra sono numerosi e provengono dalle parti politiche più disparate, a partire dal celebre opuscolo sulle Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana pubblicato da De Gasperi alla fine del 1942. Rispetto al secondo punto, la questione dei prigionieri di guerra è importante non solo perché al termine del conflitto alcuni di loro non tornarono in patria ma restarono all’estero come lavoratori (diventando di fatto i primi emigranti del dopoguerra) ma anche perché i governi post-bellici scelsero di incoraggiarne il non ritorno, firmando quando possibile appositi accordi con gli altri paesi e inaugurando quella politica migratoria finalizzata alla promozione degli espatri tipica del secondo dopoguerra. In alcuni casi, intere catene migratorie sviluppatesi nel dopoguerra risalivano al richiamo per lavoro di ex prigionieri di guerra, che avevano soddisfatto nel periodo bellico le esigenze dei datori di lavoro. Guardando ai paesi di destinazione, il lavoro della manodopera straniera nel dopoguerra venne gestito tra l’altro in forte continuità con i modi con cui era stata gestita la manodopera straniera negli anni di guerra[7]. Basti pensare all’utilizzo in Belgio dei campi di prigionia per accogliere i minatori stranieri che giungevano nel paese dopo il 1945.

Più agevole è il discorso sulla seconda cesura, quella del 1957 e in generale della fine degli anni Cinquanta. È infatti evidente che i trattati di Roma e l’apertura delle frontiere comunitarie (per quanto lenta nella sua applicazione) aprono una fase nuova, che coincide con l’avvio del “miracolo economico”, con l’orientamento verso la Germania di quantità molto più significative di lavoratori, con una maggiore specializzazione dei partenti che si muovono dall’Italia. Le migrazioni italiane in Europa cambiano quindi in termini di qualità e di direzione a fianco alle più generali trasformazioni economiche del continente. Alla fine degli anni Cinquanta tra l’altro, accanto alle migrazioni provenienti dai paesi dall’Europa meridionale, si sviluppano nel continente in forma sempre più marcata le migrazioni provenienti dai paesi extraeuropei. In chiave di storia comparata delle migrazioni, questi flussi hanno attirato la mia attenzione per una caratteristica fondamentale: il modo con cui vengono governati (o con cui si tenta di governarli) è di fatto lo stesso con cui pochi anni prima avevano fatto i conti i lavoratori italiani, sui quali era stato sperimentato per la prima volta quel legame inscindibile tra contratto di lavoro e diritto di soggiorno che diventa nel corso del tempo l’asse di riferimento delle politiche migratorie europee.

[1] A. Martellini (ed.), Cinque domande sulla storiografia dell’emigrazione a Emilio Franzina e a Ercole Sori, «Storia e problemi contemporanei», 34 (2003), 15-29; M. Sanfilippo, Nuove risposte per vecchie domande, «Studi emigrazione», 158 (2005), 434-446; M. Sanfilippo, Emigrazione: qualche spunto comparativo, «Archivio storico dell’emigrazione italiana«, II, 2 (2006), 181-189; M. Colucci, Storia o memoria? L’emigrazione italiana tra ricerca storica, uso pubblico e valorizzazione culturale, «Studi emigrazione», 167 (2007), 721-728; P. Corti, Presentazione, Italia, Francia e Svizzera, «Altreitalie», 36-37 (2008), 8-16.

Note

[2] Martellini (ed.), Cinque domande sulla storiografia dell’emigrazione a Emilio Franzina e a Ercole Sori, cit.

[3] Ibid.

[4] A. De Clementi, “Curare il mal di testa con le decapitazioni”. L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. I primi dieci anni, «900», 8-9 (2003), 3-29.

[5] S. Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, Bologna, Il Mulino, 1994

[6] Cfr. P. Zanetti Polzi, Lavoro straniero. Cgil e questione migratoria dal 1945 a oggi, Archivio del lavoro, Milano 2006.

[7] Non necessariamente prigionieri: cfr. sulla Gran Bretagna il volume di I.R.G. Spencer, British immigration policy since 1939. The making of multi-racial Britain, Routledge, London-New York 1997.