Sono andato a dire addio alla valle del Mezzano [...]. Chi l’avrebbe detto quand’eravamo in tinella, sperduti nella tua immensità, che te ne saresti andata prima di noi? Tu che eri sulla faccia della terra da millenni, da quando ti chiamavi Padusa ed il Po, disarginato e sfrenato come un cavallo brado, si riversava in te mescolando le sue alle acque degli altri fiumi, sicché non si capiva dove fosse il mare1.
1. La bonifica in prospettiva culturale
Il tema della bonifica ha sollecitato una produzione storiografica particolarmente ricca. Dall’età antica a quella contemporanea, la necessità dell’uomo di modificare il territorio per adattarlo alle proprie esigenze ha rappresentato un veicolo di cambiamenti istituzionali, economici e tecnici. E così, molto spesso, la bonifica è diventata un fattore di modernizzazione e sviluppo, e come tale ha richiamato l’attenzione di studiosi di diversa formazione. La storiografia ha affrontato l’argomento da varie angolazioni, perché la storia della lotta dell’uomo contro le acque è storia istituzionale, dell’agricoltura, del pensiero politico, del diritto, dell’impresa, della cultura igienico-sanitaria, solo per individuare alcuni dei principali ambiti interpretativi2.A lungo gli storici si sono soffermati sugli aspetti istituzionali della bonifica, ossia sui processi politici di elaborazione degli interventi sul territorio, innescati da mutamenti di assetto, contese territoriali, o relazioni fra gruppi d’interesse, con varie alchimie nel rapporto fra pubblico e privato. Parallelamente, sono stati approfonditi gli aspetti di carattere tecnico, sia perché la bonifica è proceduta anche sull’onda di importanti innovazioni, che hanno via via consentito una migliore gestione delle acque, sia perché i saperi legati agli aspetti di controllo idrogeologico del territorio raramente sono rimasti confinati in questo ambito, e hanno conseguentemente influito – positivamente – sul progresso di attività protoindustriali e industriali. E ancora, sono stati analizzati gli esiti dell’attività di prosciugamento e irreggimentazione delle acque, in termini di progresso agricolo, di antropizzazione, o di crescita delle aree urbane3.
Più di recente, invece, è emerso un nuovo filone d’interesse, che mette in relazione la bonifica con la cultura economica e materiale. In questo senso, si vuole risalire alle motivazioni intrinseche che hanno originato determinati interventi ambientali, per comprendere – attraverso lo studio dei progetti – che tipo di visione e considerazione del territorio si è avuta nelle epoche passate. È abbastanza scontato che l’idea di palude che si poteva avere nel medioevo è radicalmente differente da quella ottocentesca, quando la cultura di uno sfruttamento intensivo e razionale del suolo aveva già ampiamente impregnato il senso comune. Ma quest’ultimo paradigma è a sua volta differente dalle elaborazioni culturali degli anni settanta e ottanta del Novecento, che in un certo senso – sull’onda dell’ecologismo e delle sensibilità ambientali – hanno riattualizzato le idee di una certa naturalità e genuinità dell’acquitrino, inteso come oasi faunistica da preservare contro l’avanzata di una civiltà in buona parte responsabile sulla distruzione dell’ambiente4.
Ad epoche storiche differenti – e ad aree geografiche differenti – corrisponde una diversa cultura della bonifica, dell’ambiente, del territorio e del suo sfruttamento economico. E in questa direzione molte piste di ricerca sono ancora da percorrere, e anzi il dibattito in merito appare assolutamente vivace e degno d’interesse. Una delle fonti privilegiate per questo genere di indagini è, come si è già anticipato, l’analisi dei progetti di bonifica relativi ad un determinato territorio, perché attraverso di essi si può capire moltissimo in fatto di cultura economica e dell’ambiente. Innanzi tutto, il «problema idraulico» che sollecita il progetto ci ragguaglia sulla principale motivazione della bonifica, che può essere di carattere difensivo, ossia per evitare periodici allagamenti, o igienico-sanitario, perché la palude alimenta le febbri malariche, o ancora esclusivamente economico, per ricavare terra coltivabile in un’area altrimenti non sfruttata. Oltre a questi aspetti, ogni progetto ci dice anche che tipo di razionalità sottendeva alla cultura dell’ambiente, perché in certi casi si voleva solo separare stabilmente la terra dalle acque, in altri, invece, si cercava di prosciugare completamente l’acquitrino. Mentre il primo caso è tipico dell’età medievale e moderna, quando la palude era considerata un elemento naturale del paesaggio, e pure una risorsa economica, il secondo rivela una razionalità tipica degli ultimi secoli, di dominio dell’uomo sulla natura, attraverso interventi profondi e radicali volti ad eliminare tutto ciò che è poco produttivo e a promuovere uno sviluppo di carattere capitalistico5.
In questo contributo, si vuole proporre un confronto fra due progetti, destinati a risolvere il medesimo problema idraulico, ossia i continui e gravi allagamenti e impaludamenti che interessavano una vasta area di pianura compresa tra Bologna, Ferrara e Ravenna. Qui, nel corso dell’età moderna, il Reno, il Po di Primaro e altri fiumi spagliavano le proprie acque in maniera disordinata e sposso incontrollata, tanto che per vari secoli il territorio fu caratterizzato dalle cosiddette «valli», ossia degli acquitrini particolarmente vasti e dai confini mutevoli, che rendevano problematico e disagevole l’insediamento dell’uomo, le coltivazioni agricole e le attività produttive in genere.
Il primo progetto che si vuole considerare è quello di Gian Battista Aleotti, datato 1601 nella sua versione definitiva6. Il secondo, invece, è quello di Giovanni Antonio Lecchi, successivo di oltre un secolo e mezzo, dato che risale al 17677. Nel corso del Seicento e della prima metà del Settecento, le condizioni del territorio emiliano-romagnolo qui considerato mutarono in maniera non troppo significativa, e allo stesso tempo il grado di sviluppo tecnologico non cambiò radicalmente, per cui possiamo dire con una certa approssimazione che gli strumenti tecnici a disposizione di Aleotti e di Lecchi erano i medesimi. Certamente la scienza galileiana aveva fatto i suoi progressi, così come lo Stato della Chiesa, fiorente e ben organizzato agli inizi del Seicento, sarebbe stato in significativo declino un secolo e mezzo più tardi, ma si tratta di questioni che non inificiano il nostro confronto. Più che altro, come vedremo, i due progetti sono strutturalmente differenti, perché ubbidiscono ad orizzonti culturali diversi, che implicano esigenze di trasformazione territoriale altrettanto discordanti.
Va anche ricordato che i progetti idraulici qui considerati, così come tutti gli altri delle medesime fasi storiche, non erano elaborazioni scientificamente astratte, ma tenevano conto di interessi concreti, che li sottendevano e determinavano. Infatti, data la contrapposizione politica fra bolognesi, ferraresi e romagnoli, la bonifica diventava un vero e proprio terreno di scontro, per cui nei singoli progetti si ritrovano tentativi di favorire questa o quell’altra parte o di cercare una mediazione. Tuttavia, se l’insieme degli interessi in campo poteva indubbiamente incidere su certe scelte tecniche, pare difficile credere che potesse condizionare la cultura dell’ambiente propria di chi redigeva materialmente il piano di intervento. Quindi, nel presente contributo, si lascerà sullo sfondo l’analisi dei condizionamenti «politici» nei confronti di Lecchi e Aleotti, perché non funzionali al tipo di analisi che qui si vuole fare.
In sintesi, si vuole affrontare un caso locale in generale abbastanza studiato – la bonifica nella pianura emiliano-romagnola centro-orientale – da un’ottica essenzialmente nuova, in linea con le tendenze storiografiche più recenti e con una metodologia aggiornata ma allo stesso tempo solida. Il contributo euristico che emerge da questo studio, poi, non ha esclusivamente una valenza locale, perché si inscrive in un dibattito di più vasta portata, relativo alla transazione da una cultura economica di antico regime ad una di carattere protocapitalistico, che conteneva già molti di quegli ingredienti che avrebbero trovato adeguato sviluppo tra Ottocento e Novecento.
2. L’assetto del territorio
Prima di calarci nell’analisi dei progetti di Aleotti e Lecchi è necessario ripercorrere per sommi capi l’assetto del territorio qui considerato dalla fine del Cinquecento alla seconda metà del Settecento. Si tratta di un periodo nel quale varie trasformazioni intervennero a modificare l’ordine idraulico della pianura bolognese, ferrarese e ravennate, ma nessuno di questi cambiamenti ebbe un carattere risolutivo e radicale, per cui – come anticipato – i problemi che si presentavano a cavallo tra il XVI e il XVII secolo e quelli della metà del XVIII secolo erano molto simili, e soprattutto avevano origine dalle medesime cause8. In questo paragrafo, quindi, si forniscono le informazioni generali e fondamentali sulle caratteristiche idrogeologiche di questo territorio, mentre i singoli dettagli – magari mutati fra l’inizio del Seicento e la metà del Settecento – si ritroveranno consustanzialmente all’analisi dei progetti.
La zona compresa tra Bologna, Ferrara e Ravenna è parte della più vasta pianura padana, nata per effetto delle alluvioni millenarie provocate dai fiumi alpini e appenninici nelle loro cangianti traiettorie. Nell’alta pianura emiliano-romagnola, la lieve inclinazione altimetrica fu sufficiente perché i torrenti si escavassero autonomamente il proprio alveo conoidale, senza che occorressero troppi interventi umani per regolare il deflusso. Invece, nella pianura media, e ancor più nella cosiddetta «bassa», dove l’inclinazione è molto ridotta, i fiumi tendevano a interrire i letti con i propri detriti di origine montana e collinare, e si elevavano sul piano della campagna, con conseguenti spagliamenti d’acqua9. Dall’antichità, lungo i secoli medievali, fino alla prima età moderna, l’azione dell’uomo si esercitò innanzi tutto attraverso opere di arginatura che contenessero le portate dei torrenti. In caso di rotte, però, era spesso impossibile ripristinare la situazione precedente, e il fiume si escavava un nuovo alveo, che a sua volta poteva venire arginato. Questa instabilità è storicamente cronica nell’area a ridosso del Po di Primaro (o Po d’Argenta), ramo meridionale del Po che fungeva da collettore principale dei fiumi appenninici, e che era letteralmente circondato da aree paludose e acquitrini collegate da riazzi torrentizi, che oltre a «valli» prendevano a volte il nome anche di «lame»10.
L’interrimento dei fiumi principali, come il Reno o i vari rami del Po, non significava solamente un rischio di esondazioni, ma anche un danno per i commerci fluviali, all’epoca frequentissimi, dato che la navigabilità dei corsi d’acqua era fortemente compromessa. Per questo, nel corso di tutta l’età moderna, un ingente volume di risorse fu impiegato nel riescavo degli alvei dei principali fiumi navigabili11.
Infine, dato che l’azione dell’uomo poteva modificare in maniera significativa il paesaggio, anche solo con un’arginatura, un taglio o una disalveazione, le dispute idrauliche fra le comunità locali limitrofe furono accesissime, e fonte di tensioni, conflitti, particolarismi. Questa situazione fece sì che nel corso del Seicento e della prima metà del Settecento venissero eseguiti un buon numero di piccoli interventi, spesso di natura locale, ma che non si trovasse mai una concordanza fra bolognesi, ferraresi e romagnoli per un progetto di ampia portata. I principali ingegneri idraulici dell’epoca, ingaggiati ora dall’una ora dall’altra parte, elaborarono piani che beneficiavano una zona piuttosto che un’altra, con il risultato che nessun progetto trovò mai una unanimità di consensi12. Questo immobilismo, in sintesi, è la principale ragione della similitudine idraulica dell’Emilia-Romagna al tempo di Aleotti e a quello di Lecchi.
3. Il progetto di Giovan Battista Aleotti
Giovan Battista Aleotti, noto anche come l’Argenta, dal nome della città in provincia di Ferrara dove era nato nel 1546 fu uno dei principali architetti e ingegneri emiliani di tutta l’età moderna. Quando, novantenne, si spense a Ferrara, lasciava un patrimonio di scritti e di realizzazioni materiali assolutamente di rilievo, tanto che ancora oggi rappresenta una figura degna di grande interesse storico13. Seguace di Andrea Palladio, a lui si devono molte costruzioni civili e religiose, nonché importanti interventi idrogeologici. Molti suoi lavori riguardarono i territori compresi tra il Po di Venezia e il Po di Primaro, per cui è a ragione considerato uno dei principali esecutori della bonifica ferrarese14.Nel 1594, per ordine di Alfonso II d’Este, duca di Ferrara, Modena e Reggio chiuse una grave rotta del Po di Primaro a Lavezzola. A seguito di questo intervento d’urgenza, iniziò a considerare la possibilità di un nuovo assetto delle valli comprese tra Bologna, Ferrara e Ravenna che ampliavano i propri confini – con grave danno per le comunità limitrofe – a seconda delle stagioni e delle piene del Reno, del Po di Primaro e degli altri fiumi di origine appenninica.
Nel 1598 mandò una prima relazione a papa Clemente VIII, nella quale prospettava una robusta attività di bonifica delle valli di ferraresi, bolognesi e romagnole, fino al mare Adriatico. Un anno dopo, la medesima relazione, con alcune modifiche, fu inviata al duca di Modena Cesare d’Este insieme al Disegno delle valli bolognesi, imolesi, romagnole e ravegnane che documentava lo stato del territorio in destra al Primaro e i relativi suoi progetti per la sistemazione15.
Al progetto di Aleotti furono mosse varie critiche, in particolare dal ravennate Cesare Mengoli, che scrisse un breve trattato in merito16. A seguito di queste disapprovazioni, Aleotti compilò una nuova versione del proprio progetto, in buona misura analoga a quella originaria, in cui però si preoccupava di smontare le obiezioni che gli erano state mosse da Mengoli. Questa redazione manoscritta fu poi stampata nel 1601 e rappresenta, dunque, la versione ultima del piano di bonifica di Aleotti. In sede storiografica, questo volume è generalmente chiamato Difesa, dal primo vocabolo di un titolo molto più lungo, che oltretutto richiama lo spirito dell’opera, ossia una confutazione delle tesi di Mengoli per ribadire lo spirito del progetto originario17.
Non ci interessa assolutamente, in questa sede, una collazione delle varie redazioni del progetto e della cartografia allegata. Ci basti sapere che dalla prima relazione a papa Clemente VIII, nel 1598, alla pubblicazione della Difesa nel 1601, non ci fu alcuno stravolgimento, per cui la sostanza del piano di Aleotti rimase sostanzialmente inalterata.
La necessità di un intervento di bonifica nell’area compresa fra Bologna, Ferrara e Ravenna derivava, secondo Aleotti, dal carattere aleatorio dell’assetto idraulico, per cui – contrariamente a quanto avveniva in altre porzioni di territorio – il confine tra aree irrigue e asciutte non era affatto stabile. Al contrario, a seconda delle precipitazioni, e quindi delle piene, le valli si ingrandivano a danno di aree coltivate o abitate, e rendevano particolarmente precaria la vita delle comunità. I fiumi con una portata maggiore, e dunque responsabili dei principali allagamenti, erano il Po e il Reno. Il primo si divideva addirittura in varie diramazioni, a partire dalla zona di Ficarolo dove un ramo principale – detto Po Grande – procedeva lungo il confine attuale tra Emilia e Veneto, fino a sboccare in Adriatico all’altezza di Porto Tolle, mentre un ramo secondario, detto Po di Ferrara, scendeva a lambire l’omonima città, per poi dividersi a sua volta in due diramazioni, cioè il Po di Volano, che attraversava la provincia estense, e il Po di Primaro che correva lungo l’attuale confine fra le province di Ferrara e Ravenna.
Il Reno, a sua volta, si immetteva nel Po di Ferrara, e ne ingrossava le acque al punto da provocare frequentemente delle esondazioni. Proprio il tratto più meridionale del Po di Primaro era letteralmente circondato da zone vallive, ossia paludi che sovente arrivavano a nasconderne il letto, e che occupavano complessivamente centinaia di migliaia di ettari18. Queste aree acquitrinose, poi, erano ulteriormente alimentate dai fiumi di origine appenninica, compresi tra il Reno e il Lamone, nonché dalla rete di canali che interessava la pianura che serviva a scolare verso nord le acque piovane. Se la zona a sinistra del Po di Primaro, compresa tra quest’ultimo e il Po di Volano era storicamente in buona parte allagata, l’area alla sua destra era sensibile delle variazioni maggiori, con valli che diminuivano o crescevano di grandezza a seconda delle stagioni. La prima che si incontrava procedendo da Ferrara all’Adriatico era quella di Marrara, fra Malalbergo, S. Martino e Ospital Monacale, ed era alimentata dal Savena e dallo Zena. A sud-est di questa, si trovavano le valli di Mar Morta e d’Argenta, che molto spesso erano unite e comprese fra Molinella, Conselice, S. Biagio e appunto Argenta. Queste erano accresciute dalle acque dell’Idice, del Quaderna e del Sillaro. Il Santerno, invece, affluente del Po di Primaro e in buona parte arginato, la lambiva lungo il tratto orientale e segnava il confine con la valle successiva, detta di Ravenna (o Ravegnana), che andava da S. Biagio a S. Alberto, ma che era intersecata dalle acque del Senio, anch’esso in parte arginato, per cui appariva divisa fra un bacino occidentale ed uno orientale19.
Questa lunga fascia, da Ferrara a S. Alberto, era perennemente ridotta ad un acquitrino dai contorni precari. Il progetto di Aleotti era volto ad alleggerire il carico di acque che gravavano su questo territorio attraverso un più agevole scolo delle stesse in Adriatico e una serie di manufatti che avrebbero consentito un’adeguata irreggimentazione idraulica. Il principio fondamentale applicato da Aleotti era una deviazione degli alvei dei fiumi appenninici nel loro tratto finale, a ridosso delle aree acquitrinose, in modo che la loro portata non gravasse né sulle paludi più occidentali né sul Po di Primaro. In questa maniera, le zone allagate di Mar Morta e d’Argenta erano alleggerite, ma a danno di quella di Ravenna, più prossima all’Adriatico:
Che si debbano levare i fiumi Sillaro e Santerno, quello che più non venga nella valle d’Argenta e questo nel Pò, dove sbocca di preferente, e per quel luogo, ò luochi, che sarà giudicato, ò giudicati migliori, si debbano insieme condurre nella valli di Ravenna, che sono trà i fiumi Santerno, e Senio20.
Per evitare un sovraccarico della valle Ravegnana occidentale, poi, il Senio era a propria volta dirottato interamente nel bacino orientale:
Frà tanto si debba chiudere il Senio in quel luogo, che sarà giudicato più a proposito, per che non venga più nel Po per il suo vaso solito, e che gli sia fatto un’alveo nuovo, che lo conduce nella nelle valli di Ravenna, che sono tra’l Senio e il Lamone, […] dove ancho di presente corre, aprendoli la strada, perché la sua acqua colà scenda con la maggiore facilità possibile21.
Il Po di Primaro, quindi, veniva alleggerito delle acque del Santerno e del Senio, in modo da ridurre di molto il rischio di esondazioni; allo stesso tempo, tutte le valli alla sua destra venivano rese comunicanti attraverso una serie di «bocche», per cui dalla zona di Marrara le acque sarebbero tutte gradatamente scolate sino alla valle di Ravenna. Alla messa in comunicazione di queste valli, si aggiungeva la creazione di un nuovo alveo, da realizzarsi «in quel luoco, che sarà più à proposito giudicato et eletto», ma comunque all’interno della zona paludosa, e da essa separato attraverso degli argini. Questo nuovo letto avrebbe accolto le acque del Sillaro, del Santerno, del Senio e infine del Lamone e le avrebbe condotte direttamente a sfociare in Adriatico. In pratica la disalveazione dei fiumi, immessi nelle valli, per bonificarle con le bellette, avrebbe gradatamente creato – con l’aiuto di appositi interventi22 – un nuovo alveo più elevato e rettilineo che sarebbe corso entro le valli e parallelamente al Po di Primaro fino al mare:
Et intanto che sua fatto un’Alveo capace dei fiumi Santerno e Sillare atraverso del fiume Senio […]: il quale Alveo congiunga le valli, che lì sono una di qua e l’altra di là da detto fiume, acciò le acque de sudetti fiumi, poste nelle valle sudette tra’l Santerno e Senio, passino senza difficoltà nelle valli inferiori, […] e che […] sia serrato il vaso del Pò, perché le acque che egli porterà non si confondano con le torbide de’ detti fiumi: Ma siano portate al Mare da per se23.
Per evitare interferenze con il Po di Primaro, a monte di Sant’Alberto, quest’ultimo fiume sarebbe stato deviato, perché passasse a nord del fienile della famiglia Coccapani, per poi essere ricondotto nel proprio alveo e sfociare in Adriatico. Il letto del Po bypassato a sud del fienile dei Coccapani sarebbe stato utilizzato per immettervi le acque provenienti dal Sillaro, dal Santerno, dal Senio e del Lamone, che poi avrebbero imboccato l’alveo appositamente scavato che le avrebbe condotte a sboccare in località Testa d’Asino, ossia poco a sud della foce del Po di Primaro;
Sia fatto derivar un cavo novo preparato che porti queste acque tra’l Pò e le valli di Comacchio, in quella parte del Pò che sarà restata di sotto dalla intestatura fatta di sotto dal fenil nuovo de’ Coccapani, per condur l’acque de sudetti fiumi dal lato verso la valle di Savarna, nella sacca di Testa d’Asino; chi ciò eseguito si dice che le valli di Marrara et d’Argenta haveranno un’Alveo, il quale porterà le sue acque senza impedimento alcuno al Mare et che li paesi loro adiacenti ritorneranno allo stato, nel quale furono già venticinque e trenta anni passati24.
Nell’assetto immaginato da Aleotti, il rischio maggiore era riposto nella valle Ravegnana, anello ultimo di quella concatenazione volta ad alleggerire il carico delle acque da occidente a oriente. Se, per una qualche ragione ci fosse stata un’esondazione, questa sarebbe molto probabilmente occorsa nei tratti fluviali più prossimi al mare, e dunque proprio la valle di Ravenna si sarebbe espansa, a danno dei territori circostanti, ossia delle comunità di Savarna, Mezzano e Alfonsine25. Per evitare questi rischi – evidenziati da Cesare Mengoli – Aleotti proponeva due interventi complementari. Il primo riguardava un robusto complesso di arginature delle valli stesse, che sarebbero state racchiuse entro un lunghissimo terrapieno: «Et perche li terreni adiacenti alle valli di Ravenna, per le quali passaranno li sudetti fiumi, non patiscano né d’inondazioni, ne nemeno d’iscolazione, si circonderanno le valle dette d’Argini gagliardi, et sicuri»26.
Il secondo intervento, invece, riguardava le acque basse di quella zona, ossia la rete di canali, imperniata sul collettore Fosso Vecchio, che raccoglieva le acque piovane e le instradava verso le valli stesse, in modo che l’alta pianura non rimanesse allagata in caso di precipitazioni. Per evitare un sovraccarico, Aleotti proponeva di condurre queste acque «a passar con botte sotto i fiumi fatti di nuovo, acciò possino commodamente iscolare per di sotto da essi nel Pò, ricettacolo solo d’acque chiare, dicendosi che per rispetto della loro caduta, et della bassezza, à che converà stare il Pò, sgombro da sudetti fiumi, che scolaranno felicemente»27.
Pur se quest’ultimo intervento pareva di difficile realizzabilità, la bonifica proposta da Aleotti si fondava su un importante assunto. Il Po di Primaro non doveva più essere l’unico fiume della zona a sboccare in Adriatico, ma ad esso si andava ad aggiungere un «Alveo» che raccoglieva le acque del Sillaro, del Santerno, del Senio e del Lamone; le portate di questi quattro fiumi, quindi, non avrebbero più alimentato le valli, né avrebbero sovraccaricato il Po di Primaro, e conseguentemente, l’area paludosa si sarebbe ritirata. Non solo, ma poiché le valli erano tutte messe in comunicazione attraverso le «bocche», le acque sarebbero gradatamente scolate da quella altimetricamente più elevata – Marrara – a quella più bassa – Ravegnana –, attraverso le zone di Mar Morta e d’Argenta. E per evitare che questo deflusso gonfiasse pericolosamente la valle di Ravenna, questa sarebbe stata circondata da argini e alleggerita delle acque basse dei canali, convogliate nel Po di Primaro attraverso delle botti.
Pur se ridisegnava ampiamente l’assetto idraulico, il piano di Aleotti non stravolgeva il territorio; basti pensare che le zone acquitrinose non scomparivano affatto, ma semplicemente si riducevano. Più che altro l’escursione stagionale veniva molto ridotta attraverso la messa in comunicazione delle aree paludose e l’arginatura di quelle altimetricamente più basse; più che una vera e propria trasformazione, quindi, Aleotti ricercava la governabilità idraulica (cfr. cartina 1).
4. Il progetto di Giovanni Antonio Lecchi
Giovanni Antonio Lecchi nacque a Milano nel 1702, e sempre in questa città sarebbe morto nel 1776. È considerato uno dei più importanti ingegneri idraulici italiani del XVIII secolo, sebbene si sia votato a questa materia solamente oltrepassati i cinquant’anni. Entrato nell’ordine dei gesuiti, infatti, si dedicò innanzi tutto alla matematica, disciplina che insegnò all’Accademia di Brera dal 1738 al 1773. Dopo varie pubblicazioni, in particolare relative all’algebra, alla geometria e alla trigonometria28, nel 1757 diede alle stampe un primo scritto di idraulica teorica29. Tre anni dopo, sempre a Brera, affiancò all’insegnamento di matematica quello di idraulica. Nelle opere successive, le tendenze alla matematizzazioni e gli impianti teorici – fatti di applicazioni algebriche alla dibattuta questione della misura della velocità e della portata delle acque – avrebbero lasciato gradualmente il posto ad una maggiore concretezza e praticità30.
Negli anni sessanta del Settecento, su richiesta di papa Clemente XIII, Lecchi si occupò della secolare controversia relativa all’assetto idraulico nelle province di Bologna, Ferrara e Ravenna. In particolare, assieme al veneto Tomaso Temanza e al toscano Giovanni Verace, fu impegnato in un sopralluogo delle zone vallive, a seguito del quale scrisse una Relazione sullo stato del territorio31. Questo primo scritto, pubblicato nel 1767, fu accompagnato dall’edizione di un Piano per l’inalveazione delle acque danneggianti il Bolognese, il Ferrarese e il Ravennate, ossia un progetto meglio definito, che indicava le soluzioni per risolvere il disordine idraulico32. Infine, dopo essere stato rimosso dall’incarico, e pochi anni prima di morire, Lecchi pubblicò anche delle Memorie idrostatico-storiche nelle quali rendeva ragione degli aspetti pratici del progetto e delle soluzioni compromissorie attuate per questioni contabili, tecniche o politiche33.
Contrariamente a quanto accaduto per il progetto di Aleotti – rimasto, di fatto, inattuato34 – il piano di Lecchi trovò effettiva, ma non integrale, applicazione, e ridefinì l’assetto idrografico della pianura romagnola, bolognese ed estense, dandole una struttura che – salvo qualche variazione successiva – è in buona parte analoga a quella attuale35. Lo stesso Lecchi diresse i lavori fino al 1772, quando fu sostituito da Giannandrea Boldrini, a sua volta rimpiazzato da Giovanni Attilio Arnolfini nel 1785; i lavori furono poi completati da Giovanni Battista Giusti insediatosi nel 178936.
In questa sede, però, non ci interessa tanto la realizzazione materiale del piano idraulico di Lecchi, bensì l’analisi del progetto, che conteneva due fondamentali elementi di novità. Il primo era una sostanziale divisione fra un sistema idraulico di acque alte, cioè dei fiumi arginati, ed uno di acque basse, cioè di acque piovane e vallive raccolte dai canali di scolo. In questa maniera, con opportune arginature, le acque dei fiumi e quelle delle valli non sarebbero state comunicanti, ma irreggimentate in maniera tale da essere autonome le une dalle altre.
Per le acque alte, il progetto di Lecchi seguiva le intuizioni di «idraulici» precedenti, ossia prevedeva di fare del Po di Primaro il nerbo del deflusso in Adriatico. Questo avrebbe raccolto le acque del Reno, del Quaderna, del Sillaro, del Santerno e del Senio e le avrebbe convogliate verso il mare. Naturalmente occorreva sistemare adeguatamente l’alveo, con alcuni drizzagni, e soprattutto con una robusta arginatura che mettesse al riparo dal rischio di rotte ed esondazioni. In particolare, bisognava evitare che le acque del Po di Primaro e degli altri fiumi appenninici potessero confondersi e mescolarsi, come invece accadeva molto spesso, con quelle delle paludi vallive a ridosso del suo corso37. Questa prima parte di lavoro era descritta da Lecchi come relativamente semplice e rapida, perché non si trattava che di assecondare una «naturale» inclinazione delle acque ad incamminarsi lungo determinati percorsi;
Affermiamo, che il Reno dalla Rotta Panfilj già si è fatta una gran parte della sua inalveazione, e cavamento in mezzo alle sue colmate, e nel restante suo corso già chiaramente ci ha indicato la via, che si è aperta, e si va disponendo fino al Primaro con l’unione già fatta dei principali influenti del Bolognese, e della Romagna. Noi teniamo per certo che sarebbe per lo meno un grande azzardo il tentare ora altre linee diverse da quella unica, sulla quale corre già il Reno, e vi si sono incamminati da gran tempo tutti gli altri fiumi: che qui non fa bisogno di nuove dispendiosissime escavazioni; ma basta che con l’arte si pongano in opera le forze immense del fiume ad iscavarli, ad ampliarsi, e perfezionarsi la medesima sua già incominciata inalveazione fino al mare38.
Il secondo elemento di novità era relativo al sistema idraulico delle acque basse, cioè piovane e vallive, che rischiavano di ristagnare nella pianura a ridosso degli argini dei fiumi, impossibilitate ad immettersi nei loro letti. Lecchi, infatti, progettò un lungo canale a destra del Po di Primaro, che sarebbe corso parallelamente a quest’ultimo, e che avrebbe funto da collettore per tutti gli scoli di acque basse. In pratica, sarebbe stato realizzato un cavo in grado di raccogliere tutte le portate dei canali della bassa pianura e di convogliarle in Adriatico. Dato che questo collettore sarebbe stato parallelo al Po di Primaro, avrebbe intersecato tutti i fiumi appenninici affluenti di quest’ultimo, e poiché il sistema progettato da Lecchi poggiava sulla separazione tra acque alte e basse, occorreva realizzare delle «botti», cioè delle sottovie idrauliche, per evitare la mescolanza della portate. In pratica, questo «scolo più universale fino al mare», come lo definì Lecchi, avrebbe sottopassato il Sillaro, il Santerno, il Senio e così via fino a sboccare in mare poco più a sud della foce del Po di Primaro:
Ci parrebbe perfetta la nostra rappresentanza – scriveva Lecchi –, quando si fosse potuto estendere il nostro nuovo canale di scolo ad isboccare libero nel Mare, tra la foce del Primaro, e quella del Lamone, prolungandolo per altre 22 miglia. [...] In questo parere siamo senza molta pena convenuti [...], per la somma utilità, e necessità di poter’asciugare tutte le più depresse Valli Ravegnane, il fondo delle quali è bensì più basso del pelo di Primaro alla Beccara, anche nella sua magrezza, ma è assai più alto del pelo basso del Mare. [...] Sappiamo benissimo, che a primo incontro parrà una novità, la quale per l’addietro ad altri non è caduta in mente. Ma rispondiamo che tutti gli altri Scrittori non ebbero altra mira, che di risanare le superiori Campagne più alte del Poggio, di Malalbergo, di Digliolo ec., e di dare a tutte queste lo scolo. Ma poi non pensarono allora a preparare lo scolo alle Valli più basse di Lugo, di Fusignano, di Buonacquisto, di Medicina, di Durazzo, della Corla, di Marmorta, di Argenta. Or se a queste ancora si può dare la salute, chi vorrà vietarlo?39.
L’idea di Lecchi di separare le acque alte da quelle basse e di scolare queste ultime in Adriatico attraverso un collettore unico era molto originale, e soprattutto ubbidiva ad uno scopo assolutamente nuovo, e cioè quello di «asciugare le valli», ossia di eliminare in maniera radicale e definitiva l’acquitrino. Anche se questa parte di progetto non sarebbe stata realizzata per motivi di budget, di difficoltà tecnica e di opposizione «politica» – ma l’idea di Lecchi sarebbe stata rivisitata e realizzata nel Novecento40 – rappresentava decisamente una svolta nel dibattito sull’assetto idraulico della pianura compresa fra Bologna, Ferrara e Ravenna. La palude cessava di essere considerata una parte del paesaggio, ma diveniva, nella razionalità di Lecchi, un elemento negativo, e come tale da eliminare. Anche se le valli non erano completamente improduttive, dato che consentivano la pesca, e la raccolta di canne e strami, si trattava comunque di aree economicamente più marginali rispetto a quelle appoderate e coltivate. Dunque, l’area paludosa era percepita da Lecchi come «un gran disordine», ed era necessario attuare una bonifica con l’intenzione di «asciugare tutte quelle immense campagne, le quali si chiamano Valli»41. Tanto più, che tra il 1764 e il 1767 una grave carestia aveva interessato il Bolognese e – in misura meno drammatica – anche altre province limitrofe, per cui la possibilità di strappare terre coltivabili all’acquitrino era avvertita da Lecchi come un’urgente necessità. Per questo, il suo «scolo più universale fino al mare» era un progetto autenticamente originale, dato che ubbidiva al bisogno di trasformare il territorio anziché limitarsi a governarlo (cfr. cartina 2).
5. Conclusioni
Da un punto di vista tecnico, sia Aleotti che Lecchi immaginavano la bonifica come un processo di agevolazione del deflusso delle acque in mare. Il problema della pianura compresa fra Bologna, Ravenna e Ferrara – su questo erano concordi – derivava da una difficoltà di scolo delle acque dovuto a pendenze insufficienti. Accadeva, quindi, che i fiumi non riuscissero a scavarsi una strada verso l’Adriatico, perché i loro letti tendevano ad interrirsi e le loro acque si aprivano vie continuamente nuove, in un assommarsi di meandri, allagamenti, spagliamenti.
Toccava, quindi, all’uomo dare un ordine a questo caos idraulico, con interventi di arginatura, escavo degli alvei, e raddrizzamento dei tragitti, in modo da rendere più facile il deflusso in mare. In questo senso, sia Aleotti che Lecchi erano abbastanza d’accordo; unicamente, mentre il primo preferiva ripartire il carico su due corsi d’acqua – il Po di Primaro, che riceveva il Reno, e un nuovo «Alveo» che raccoglieva il Sillaro, il Senio, il Santerno e il Lamone – il secondo aveva optato per una soluzione più audace, con il Po di Primaro adeguatamente arginato che raccoglieva tutte le affluenze.
Questa irreggimentazione dei fiumi, e cioè delle cosiddette acque alte, provocava una difficoltà di scolo delle acque basse e vallive, che già di per sé tendevano all’impaludamento, ma che erano ulteriormente bloccate nello scolo per gravità dalle arginature. In un certo senso, quindi, la costruzione di argini e terrapieni risolveva il problema dello scorrimento dei fiumi, ma aggravava quello del deflusso vallivo.
Sulla risoluzione di questo problema, Aleotti e Lecchi proponevano soluzioni radicalmente differenti. Il primo aveva escogitato un sistema di messa in comunicazione di tutte le valli, in modo che, per gravità, le acque confluissero principalmente in quella di Ravenna, che sarebbe stata circondata da un robusto terrapieno. In questo modo, in caso di variazioni del livello dell’acqua a seguito di piogge, l’escursione maggiore sarebbe stata proprio in quest’ultima, e senza effetti negativi perché gli argini erano stati pensati proprio per reggere ad un simile carico. Nelle valli più a monte, conseguentemente, si sarebbe avuta una escursione molto più modesta, con il risultato di un mantenimento della palude entro confini certi. Lecchi, invece, aveva immaginato la costruzione di un lungo canale di scolo, in grado di raccogliere le acque basse e vallive e di dare loro sfogo in mare, in maniera da risolvere il cronico problema degli acquitrini e rendere asciutta una vasta porzione di territorio.
In sintesi, i progetti di Aleotti e di Lecchi avevano diversi punti in comune, ma ubbidivano anche a due culture bonificatorie differenti. Aleotti aveva come obiettivo la creazione di un sistema idraulico in cui le terre paludose e quelle asciutte fossero divise da un confine stabile, e dunque non soggetto a modificazioni durante i cicli stagionali, quando si potevano avere piene o piogge. In un certo senso, il suo piano prevedeva la messa in sicurezza di determinati territori, in modo che l’attività umana non venisse posta a repentaglio dagli allagamenti che periodicamente si registravano, con il consueto seguito di morti e danni materiali. A Lecchi questa prospettiva non bastava più, perché gli premeva asciugare l’acquitrino – «dargli la salute», come scriveva lui stesso in maniera molto efficace – allo scopo di sfruttare in maniera produttiva un territorio altrimenti incolto.
Questa differente visione della bonifica derivava innanzi tutto dal diverso contesto culturale nel quale erano maturati i due ingegneri idraulici. Aleotti si era formato in età Rinascimentale, quando le scienza e la tecnica avevano appena acquisito una dignità autonoma, scissa da considerazioni extrascientifiche42. Inoltre, Aleotti era anche un architetto, e in quanto tale la sua forma mentis era orientata a considerare l’armonia, l’equilibrio e la concordanza come temi imprescindibili del paesaggio e delle creazioni umane, che quindi si componevano di sintesi fra aspetti ed elementi differenti43. Lecchi, invece, aveva respirato l’atmosfera del secolo dei lumi, e per di più si era occupato a lungo di matematica, per cui era dotato di una razionalità molto più incisiva e pregnante44, che si ritrova appunto nella radicalità di un progetto di bonifica, il quale non si limitava a governare una situazione, ma puntava alla metamorfosi del territorio. In questo senso, Lecchi appare già molto vicino all’Ottocento e alla cultura economica dell’efficienza, per cui lo sguardo al paesaggio diviene all’unisono un giudizio su ciò che è produttivo e ciò che non lo è affatto o che lo è meno. E la lotta contro la palude, che nella sua sistematicità parte da Lecchi – almeno per il caso bella bassa fra Emilia e Romagna –, diventa una lotta per l’affermazione di una razionalità del territorio, che sminuisce quegli elementi di armonia fra paesaggi differenti che invece si ritrovano ampiamente nella visione aleottiana.
Note
1 F. Serantini, Addio alle valli, Ravenna, Edizioni del Girasole, 1981, 191.
2 Tra i principali contributi, cfr. L. Gambi, L’insediamento umano nella regione della bonifica romagnola, Roma: Cnr, 1949; G. Porisini, Bonifiche e agricoltura nella bassa valle padana (1860-1915), Milano, Banca commerciale italiana, 1978; T. Isenburg, Acque e Stato. Energia, bonifiche, irrigazione in Italia fra 1930 e 1950, Milano, Franco Angeli, 1981; C. Poni, Fossi e cavedagne benedicon le campagne: studi di storia rurale, Bologna, Il Mulino, 1982; P. Bevilacqua e M. Rossi-Doria, Le bonifiche in Italia dal ‘700 ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1984; F. Cazzola, La bonifica del Polesine di Ferrara dall’età estense al 1885, in Consorzio della grande bonificazione ferrarese, La grande bonificazione ferrarese, vol. I, Vicende del comprensorio dall’età romana alla istituzione del Consorzio, Ferrara, Sate, 1987, 103-251; P. Bevilacqua, Le rivoluzioni dell’acqua. Irrigazione e trasformazioni dell’agricoltura tra Sette e Novecento, in Id. (a cura di), Storia dell’agricoltura in età contemporanea, Venezia, Marsilio, 1989, vol. I. Spazi e paesaggi, 255-318; F. Cazzola, P. Luciani e G. Capuzzo, La terra emerse dalle acque. Le fasi storiche della grande bonificazione ferrarese dallo scolo naturale al sollevamento meccanico, Ferrara, Consorzio di bonifica primo circondario Polesine di Ferrara, 1995; P. Bevilacqua, Le bonifiche, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1996, 405-416; P. Sorcinelli, Storia sociale dell’acqua. Riti e culture, Milano, Bruno Mondadori, 1998; M. Tozzi Fontana (a cura di), Bologna e l’invenzione delle acque. Saperi, arti e produzione tra ‘500 e ‘800, Bologna, Compositori, 2001; S. Ciriacono, Dutch Technological Transfer and Land Reclamation in Early Modern Italy, in H. Danner, J. Renes, B. Toussaint, G. Van De Ven e F.D. Zeiler (a cura di), Polder Pioneers. The Influence of Dutch Engineers on Water Management in Europe, 1600-2000, Utrecht, Koninklijk Nederlands Aardrijkskundig Genootschap, 2005, 151-168; A. Saltini, Dove l’uomo separò la terra dalle acque. Storia delle bonifiche in Emilia Romagna, Reggio Emilia, Diabasis, 2005.
3 F. Cazzola, Tecnici e bonifica nella più recente storiografia sull'Italia contemporanea, in «Società e storia», n. 32, 1986, 420-439; Z. Ciuffoletti, Le bonifiche in Italia. Bilancio storiografico e prospettive di ricerca, in «Rivista di Storia dell’agricoltura», n. 2, 1987, 33-36; S. Ciriacono, Venise et la Hollande, pays de l’eau (XVe-XVIIIe siècle), in «Revue historique», n. 578, 1991, 295-320.
4 Cfr. A. Caracciolo, L’ambiente come storia. Saggi e proposte di storiografie dell’ambiente, Bologna, Il Mulino, 1988; P. Acot, Storia dell’ecologia, Roma, Lucarini, 1989; A. Caracciolo e G. Bonacchi (a cura di), Il declino degli elementi. Ambiente naturale e rigenerazione delle risorse nell’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 1990; L. Segre (a cura di), Agricoltura, ambiente e sviluppo economico nella storia europea, Milano, Franco Angeli, 1993; C. Widmann (a cura di), Ecologicamente. Psicologia del rapporto uomo-ambiente, Ravenna, Longo, 1997.
5 Cfr. V. Giura (a cura di), Gli insediamenti economici e le loro logiche, Napoli, Esi, 1998
6 G.B. Aleotti, Difesa di Gio. Battista Aleotti d’Argenta, Architetto, per riparare alla sommersione del Polesine di S. Giorgio, & alla rouina dello Stato di Ferrara, e per confutar, con ragione, il Discorso del S. Cesare Mengoli da Ravenna, scritto all’Illustriss. & Reverendiss. Sig. Cardinale Visconte, in materia della Navigazione del Pò di Primaro, e dell’essiccatione delle paludi, che le sono à destra in Romagna. Discorso di Cesare Mengoli all’Illustrissimo e Reverendissimo Sig. Cardinal Visconte, Ferrara, Vittorio Baldini stampatore camerale, 1601.
7 G.A. Lecchi, Piano per l’inalveazione delle acque danneggianti il Bolognese, il Ferrarese e il Ravennate formato per ordine di Nostro Signore papa Clemente XIII dal matematico padre Antonio Lecchi della Compagnia di Gesù e dai signori architetti Tommaso Temanza e Giovanni Verace del medesimo p. Lecchi disteso, Roma, 1767.
8 A. Giacomelli, Appunti per una rilettura storico-politica delle vicende idrauliche del Primaro e del Reno e delle bonifiche nell’età del governo pontificio, in La pianura e le acque tra Bologna e Ferrara: un problema secolare. Mostra documentaria ed iconografica, Cento 18-27 marzo 1983, Cento, Centro studi Girolamo Baruffaldi, 1983; Id., La sistemazione delle acque, in W. Tega (a cura di), Storia illustrata di Bologna, Milano, Aiep, 1989, vol. II, 321-340. Si rimanda anche ad A. Giacomelli, Progetti di bonifica nel Settecento bolognese, tesi di laurea in due volumi in Lettere moderne, Facoltà di Lettere e filosofia, Università di Bologna, relatore prof. L. Marini, a.a. 1969-1970.
9 P. Fabbri, L’idrografia della pianura emiliano-romagnola, in Federazione delle casse di risparmio e delle banche del monte dell’Emilia e Romagna, Il mondo della natura in Emilia Romagna. La pianura e la costa, Cinisello Balsamo, Amilcare Pizzi Editore, 1990, 95-118.
10 F. Cazzola, Bonifications, investissements fonciers et problèmes hydrauliques dans la basse vallée du Pô (XVe-XVIIe siècles), in S. Ciriacono (a cura di), Eau et développment dans l’Europe moderne, Parigi, Editions de la Maison de sciences de l’homme, 2004, 117-137
11 G. Tocci, Le bonifiche in Emilia-Romagna dal ‘500 ai primi del ‘900, in I settant’anni del Consorzio della Bonifica Renana, 1909-1979, Bologna, Forni, 1980, 55-92.
12 S. Escobar, Il controllo delle acque: problemi tecnici e interessi economici, in G. Micheli (a cura di), Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento a oggi, Annale III della Storia d’Italia, Torino, Einaudi, 1980, 85-153. Si veda anche C. Casanova, Comunità e governo pontificio in Romagna in età moderna, Bologna, Clueb, 1981
13 Il suo testo più importante, Della scienza et dell’arte di ben regolare le acque di Gio. Battista Aleotti detto l’Argenta architetto del Papa et del publico ne la città di Ferrara, pubblicato, dopo molte, rivisitazioni nel 1632, è stato rieditato pochi anni fa a cura di M. Rossi (Modena, Panini, 2000).
14 A.O. Quintavalla e E. Povoledo, Aleotti, Giovan Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 1960, vol. II, 152-154.
15 Archivio di Stato di Modena, Archivio per materie, Ingegneri, Aleotti, b. 1, 20 aprile 1599, Lettera di G.B. Aleotti al duca Cesare d’Este; cfr. anche Archivio di Stato di Ferrara, Archivio Familiare Mosti, rubr. XXXXIV, ins. 1.
16 C. Mengoli, Della navigatione del Po di Primaro & dell’essiccatione delle paludi che le sono a destra in Romagna, Cesena, Raverij, 1600.
17 G.B. Aleotti, Difesa di Gio. Battista Aleotti d’Argenta, cit.
18 Cfr. L. Gambi, Le bonificazioni, in Id. (a cura di), Storia di Ravenna, Ravenna, Marsilio, 1994, vol. IV, Dalla dominazione veneziana alla conquista francese, 583-615
19 Cfr. P. Novara, Il territorio a Nord di Ravenna in età moderna, in Id. (a cura di), Alle origini di Sant’Alberto. Materiali per una ricerca, Ravenna, Danilo Montanari, 2000, 73-77
20 G.B. Aleotti, Difesa di Gio. Battista Aleotti d’Argenta, cit., 26
21 Ibid.
22 Cfr. A. Giacomelli, La sistemazione delle acque, cit., 335.
23 G.B. Aleotti, Difesa di Gio. Battista Aleotti d’Argenta, cit., 26
24 Ibid.
25 R. Pasi, Storia di Alfonsine, Cesena, Il ponte vecchio, 2002; G. Tocci, Tra Santerno e Lamone: acque, terre e uomini nella Bassa Romagna tra Cinque e Settecento, in L’emergere di una comunità. Le Alfonsine nel Settecento, Ravenna, Longo, 1981, 15-34; C. Montanari, A. Barisani e G. Zannoni, Mezzano e il suo fiume. Spicchio di storia mezzanese, Ravenna, Comune di Ravenna, 1991; A. Barisani, Mezzano: paese nato dal fiume, Ravenna, Scaletta, 2001. Per la fase successiva cfr. C. Casadio, La formazione di un borgo bracciantile nelle campagne ravennati: Mezzano dal Settecento al Novecento, in F. Cazzola (a cura di), Il proletariato agricolo in Emilia Romagna nella fase di formazione, Bologna, Clueb, 1980, 185-225. Si veda anche F. Landi, Mezzadri e proprietari del ravennate nel secondo Settecento. La tenuta Rasponi di Mezzano, Faenza, Lega, 1973.
26 G.B. Aleotti, Difesa di Gio. Battista Aleotti d’Argenta, cit., 26
27 Ibid.
28 Ricordiamo le principali: Theoria lucis, oticam, perspectivam, catoptricam, dioptricam complectens, Milano, 1739; Arithmetica universalis Isaaci Newton sive De compositione et resolutione arithmetica, perpetuis commentariis illustrata et aucta, Milano, 1756; Elementa geometriae theoreticae et practicae… ad usum Universitatis Braidensis, I-II, Milano 1753-1754; ristampa Colonia 1758; Elementa trigonometriae theorico-praticae et sphaericae, Milano, 1756; De sectionibus conicis, Milano,1758.
29 G.A. Lecchi, Lettera intorno alla scelta della qualità del terreno per iscavare nuove inalveazioni; ed intorno al problema se alle diversioni de’ fiumi più convenga un canale rettilineo, oppure tortuoso, e serpeggiante a norma dell’alveo vecchio, s.l., 1757.
30 E. Brambilla, Lecchi, Giovanni Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della enciclopedia italiana, 2005, vol. LXIV, 267-269.
31 G.A. Lecchi, Relazione della visita alle terre danneggiate dalle acque di Bologna, Ferrara, e Ravenna per deputazione di Nostro Signore Clemente Papa XIII felicemente regnante, fatta dal p. Antonio Lecchi, della Compagnia di Gesù, Matematico delle LL.MM.II., dal signor Tommaso Temanza, Architetto della Serenissima Repubblica di Venezia, dal signor Giovanni Verace, Architetto di Sua Altezza Reale il Gran Duca di Toscana, e loro concorde parere esposto dal medesimo p. Antonio Lecchi, e da tutti tre sottoscritto, Roma, 1767.
32 G.A. Lecchi, Piano per l’inalveazione delle acque, cit.
33 Cfr. G.A. Lecchi, Memorie idrostatico-storiche delle operazioni eseguite nell’inalveazione del Reno di Bologna, e degli altri minori torrenti per la linea di Primaro al mare dall’anno 1765 fino al 1772, Modena, Società tipografica, 1773.
34 Nel 1604, infatti, papa Clemente VIII morì, e – dopo un brevissimpo pontificato di Leone XI – fu eletto al soglio pontificio Camillo Borghese, con il nome di Paolo V. Questi era stato vicelegato a Bologna e giudicava i progetti aleottiani troppo filoestensi.
35 In generale, il progetto di Lecchi fu realizzato quasi completamente, eccetto che nella parte che prevedeva la costruzione di un lungo canale in destra del Po di Primaro.
36 Cfr. A. Giacomelli, Nel Sei-Settecento: le lotte tra Bologna e Ferrara per le acque del Reno nella pianura e la sua foce, in R. Renzi (a cura di), Il Reno italiano. Storia di un fiume e della sua valle, fino al mare, Bologna, Cappelli, 1989, 66-71.
37 G.A. Lecchi, Piano per l’inalveazione delle acque, cit.
38 G.A. Lecchi, Relazione della visita alle terre danneggiate dalle acque, cit., 5-6.
39 Ibid., 149-150.
40 T. Menzani, Le bonifiche in Romagna. La costruzione del Canale in destra di Reno (secc. XVIII-XX), Imola, La Mandragora, 2008.
41 G.A. Lecchi, Relazione della visita alle terre danneggiate dalle acque, cit., 5-6.
42 A. Fiocca, D. Lambertini e C. Maffioli, Arte e scienza delle acque nel Rinascimento, Venezia, Marsilio, 2003.
43 A. Fiocca, Giambattista Aleotti e gli ingegneri del Rinascimento, Firenze, Olschki, 1998.
44 A. Masotti, Matematica e matematici, in Storia di Milano, XVI, Milano, 1962, 767-785; A. Fiocca, Ferrara e i gesuiti periti in materie d’acque, in G.P. Brizzi e R. Greci, Gesuiti e Università in Europa (secoli XVI-XVIII), Bologna, 2002, 353-357.