Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Donne che scrivono di storia nel Medioevo. Intrecci, passioni e avventure tra VIII e X secolo

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«History need not to be read as romance» afferma Janet Nelson in un importante contributo la cui lettura sarà centrale in questo breve intervento. La cifra stilistica caratteristica delle scrittici donne di storia in epoca altomedievale pare però essere proprio questa: una versione dei fatti vivace, attenta al gioco delle relazioni personali, aperta alle suggestioni delle narrazioni orali e folkloriche. E pertanto, lontana dai rigidi schemi dell’annalistica, dall’elenco arido di successioni regie e di battaglie mai decisive.

Il lavoro intellettuale delle donne

Leggere e scrivere nell’alto Medioevo erano attività che, ben lontane da costituire una riserva maschile, vedevano una partecipazione femminile di entità sorprendente: sorprendente, si intende, rispetto all’esclusione delle donne nel Medioevo dall’esercizio formale dell’autorità politica e religiosa con il quale l’alfabetizzazione è spesso, e strettamente, associata [Nelson 1991]. Tale ricostruzione della realtà culturale di quell’epoca lontana è acquisizione storiografica recente e non completamente condivisa: permane infatti anche fra gli specialisti più avvertiti sul tema, l’idea che la presenza di poche donne letterate assai note quali Dhuoda (secolo IX), Rosvita di Gandersheim (secolo X) e Ildegarda di Bingen (secolo XII) non sia sufficiente «a ridimensionare una depressione dell’alfabetismo femminile in un alto Medioevo che pur in una generalizzata incapacità di leggere e scrivere fu comunque, nel tessuto sociale maschile, meno analfabeta di quanto comunemente si creda» [Cavallo 2009].

In questa logica, l’argomento di prova più forte dell’analfabetismo femminile che viene proposto è quello della estrema rarità di sottoscrizioni autografe di donne nelle carte private, un argomento che però, io credo, prova soltanto la «presenza assai scarsa della donna nelle procedure di documentazione» [Cavallo 2009], e cioè la marginalità giuridica in cui esse erano confinate, indipendentemente dalla loro formazione intellettuale. Insomma, una cosa è sapere scrivere e firmare, altra cosa è che l’apposizione di quella firma sia un’azione giuridicamente significativa e pertanto necessaria e richiesta.

Nella produzione scritta dell’alto Medioevo, escludendo la documentazione sia notarile, sia cancelleresca, sono invece numerose – se messe in relazione con le notizie in merito alla pratiche culturali – le menzioni di donne colte, soltanto di estrazione aristocratica certo, che possiedono i libri, merce rara e preziosa, che li leggono e che ne commissionano la scrittura sia ad autori maschi, sia ad autrici femmine. Nei monasteri femminili, una realtà elitaria in quell’epoca, le monache copiano e illustrano manoscritti preziosi e scrivono lettere e agiografie, commedie, poesie, trattati morali e, infine, ricostruiscono e raccontano le vicende della storia, compilando annali e cronache.

L’autorialità femminile

Gran parte dei testi altomedievali che sono giunti fino a noi è stata tramandata in forma anonima: è realtà assai nota ma è opportuno ricordarla ora per introdurre il problema dell’autorialità femminile. Per lungo tempo la critica ha attribuito tutte queste opere ad “autori” anonimi, mai ad “autrici”, anche senza il sostegno di indagini specifiche, una sorta di automatismo che può contare sulla complicità delle regole d’uso delle nostre lingue contemporanee che fanno prevalere sempre, anche nell’indeterminatezza di genere, la declinazione maschile. A partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, quando Peter Dronke [1984] dedicò uno studio pionieristico alla scrittura femminile nel Medioevo, ci si è cominciati a interrogare su quali strumenti critici impiegare per identificare l’autorialità femminile nelle opere anonime. Alcuni, rilevando che spesso nelle poche narrazioni certamente opera di autrici, il ruolo delle donne nello svolgimento delle vicende assume un rilievo del tutto peculiare, hanno creduto possibile impiegare questo criterio, cioè il protagonismo delle donne nelle narrazioni, per attribuire alcune opere tramandate anonime a una penna femminile, un criterio che però, se sottoposto a una critica più serrata, diventa presto inconsistente. Soprattutto, come nota Janet Nelson, quando ci si trova di fronte a racconti che hanno quali protagoniste femmine guerriere, come in Orderico da Vitale, nelle vite di Giovanna d’Arco per giungere fino ai poemi di Tasso e Ariosto, si può essere certi di trovarci di fronte a manifestazioni dell’immaginario maschile in merito alle quali uno psicoterapeuta troverebbe probabilmente più materiale per discutere rispetto a uno storico.

Quando sono le donne in prima persona a scrivere di storia non immaginano gloriose prestazioni di guerriere o di leggendarie amazzoni; piuttosto, si preoccupano di raccontare i nomi delle madri, delle sorelle e delle mogli dei protagonisti maschili della politica e degli eserciti, e di narrare le imprese quotidiane di quelle donne, imprese legate alla sfera delle relazioni private, degli scontri per la gestione dei patrimoni e delle eredità, dei conflitti familiari. In un contesto sociale alto, quale quello in cui sono ambientati sempre i testi narrativi altomedievali, tali episodi privati assumono un rilievo strategico importante e sono testimonianze che permettono oggi di maturare ricostruzioni più complesse delle motivazioni dell’azione politica e militare.

La precisa menzione delle donne, il racconto delle loro vite, il ricordo delle loro azioni non segue sempre una logica laudatoria: non sempre si parla bene delle azioni femminili, anzi. Si incontrano mogli adultere, matrigne crudeli, giovani donne malvage i cui riprovevoli comportamenti vengono stigmatizzati, anche con forza. Non si riescono a identificare le storie scritte dalle donne neppure sulla base di questo parametro, e cioè che le donne siano “trattate bene” dalla penna di che scrive; è allora necessario fare attenzione ad altri aspetti della narrazione.

Janet Nelson, sulla base di un’analisi stilistica accurata delle due opere storiche sicuramente attribuibili a donne fra X e XI secolo, e cioè i Gesta Othonis di Rosvita di Gandersheim e l’Alessiade di Anna Comnena, ha proposto un criterio che combina almeno tre diversi indicatori: la menzione numerosa di protagoniste femminili, delle quali non si ricordi soltanto il nome ma se ne descrivano anche le caratteristiche personali, le qualità e l’importanza delle azioni; l’attenzione alle motivazioni soggettive dei protagonisti, maschi o femmine che siano, delle vicende narrate; e infine, come si ricordava all’inizio, un tratto stilistico inusuale, “romanzesco”, che esula completamente dai generi letterari codificati e si arricchisce invece di episodi vivaci con una larga riproposizione di materiali folklorici. «Con la libertà dell’epica, il racconto storico procede per momenti esemplari, soffermandosi sui ritratti dei personaggi della famiglia ottoniana, sul loro carattere e sulle reazioni emotive agli avvenimenti» [Pillolla 2003]: è così che la curatrice della traduzione italiana del poema di Roswita di Gandersheim sintetizza nell’introduzione lo stile dell’opera. Un esempio emblematico, a tale proposito, è la narrazione della fuga di Adelaide vedova del re italico Lotario e imprigionata in una cupa fortezza da Berengario II che temeva la forza politica della donna che sarebbe presto diventata moglie del suo rivale, Ottone I. A dispetto del titolo del suo lungo poema, che dovrebbe vedere come unico protagonista Ottone I, re di Germania e poi anche del regno italico e imperatore (961), Rosvita dedica ben 120 esametri, su un totale di 1125 versi conservatisi – una cospicua lacuna del manoscritto ci nega circa 300 versi secondo l’editrice – per raccontare la prigionia e la fuga della regina Adelaide. Impariamo così che ella «nella sua prigione non aveva nessuna persona al suo servizio che eseguisse obbediente i suoi ordini, se non soltanto un’ancella e un sacerdote di irreprensibile condotta di vita», notazione che fuga immediatamente ogni malizioso sospetto sulla forzata e isolata convivenza della regina con un uomo. E poi Rosvita racconta i preparativi per la fuga: l’unica possibilità di uscire incolumi dalla fortezza era che i tre «lavorando in segreto, avessero scavato una galleria sotterranea nascosta». Nel corso di una notte propizia, approfittando del sonno delle guardie, la regina e i suoi due compagni percorsero la galleria e fuggirono per le campagne, fino alle prime luci dell’alba quando «la regina tenendosi nascosta attentamente in riparati rifugi, ora errava nei boschi, ora si celava fra i solchi, fra le spighe mature del grano che cresceva», per riprendere poi il cammino al riparo dell’oscurità.

In mezzo alle spighe mature la cerca Berengario in persona «provando a separare con la lancia protesa gli steli», ma grazie alla protezione divina la regina giungerà sana e salva nella città di Reggio Emilia dove il vescovo Adelardo la proteggerà e la restituirà agli onori che le erano dovuti.

Il racconto di Rosvita costituisce l’archetipo narrativo di questo episodio che sarà poi ripreso, con significative varianti, da autori che in tempi successivi attribuirono il successo della fuga della regina ad Adalberto Atto, vassallo del vescovo reggiano e capostipite della dinastia dei Canossa [Giovini 2004]. Nessuno però, neppure il monaco Donizone che impiegò l’episodio per legittimare con un così importante servizio reso a Ottone I l’affermazione politica della discendenza, ritornerà più a narrare con altrettanta immediatezza e colore la vicenda. È suggestivo osservare che l’autrice del racconto e la protagonista ebbero modo di conoscersi alla corte ottoniana e che il racconto, pur modulato secondo schemi narrativi in parte codificati, riprendeva per la prima volta la testimonianza diretta di chi aveva vissuto da protagonista quell’avventurosa esperienza.

Avventure, litigi, fughe

Sulla base degli argomenti di cui si è detto, Janet Nelson ha proposto l’attribuzione ad un’autrice femminile della Vita Mathildis reginae antiquior, un testo stravagante redatto nella seconda metà del secolo X in un monastero sassone, a Quedlimburg, forse, o a Nordhausen. Stravagante, perché esce programmaticamente dai generi letterari codificati: è a una prima apparenza una sorta di agiografia, non di una santa, come sarebbe stato lecito attendersi, ma di una regina, Matilde, la madre di Ottone I, da poco defunta. L’anonima monaca che scrive dichiara di voler raccontare non soltanto la vita di quella donna esemplare, ma di voler insieme ricostruire la storia della famiglia in cui entrò con il matrimonio, gli Ottoni, diventati al momento della scrittura la nuova dinastia imperiale d’Europa. Chi scrive questa storia dinastica e insieme privata è sicuramente una donna, al di là della presunzione di autorialità condotta da parte della Nelson sulla base di argomenti stilistici: nel proemio dell’opera l’autrice afferma infatti che:

per quanto noi sappiamo di non avere familiarità alcuna con questa cosa, ossia di scrivere ciò che si racconta, tuttavia, cercando di provocare grandi onde in un arido ruscello per rendere onore alla dignità imperiale, abbiamo occupato imprudentemente una materia che, a giusto titolo, dovrebbe essere riservata alla facondia degli scrittori, non con l’audacia dei maschi ma con prona devozione, e questo perché abbiamo ritenuto fosse un delitto tenere nascoste in un silenzio sconsiderato le virtù di persone così importanti.

È un «silenzio sconsiderato» il difetto che affligge le narrazioni storiche condotte dai maschi nel giudizio della nostra autrice: questi saranno anche più “audaci” a descrivere imprese politiche e militari, ma la “prona devozione” femminile è la strada che rende possibile descrivere e tramandare le articolate virtù dei protagonisti delle vicende di quegli anni. Coerente con tale dichiarazione programmatica, la nostra anonima autrice racconta episodi che nessun’altra fra le pur numerose narrazioni coeve menziona; svela intrecci parentali e intrighi e conflitti personali che contribuiscono a chiarirci le motivazioni di eventi noti, ma altrimenti poco comprensibili. Fra questi, grandissimo rilievo ha il racconto della lite che scoppiò fra la regina vedova Matilde e i figli, Ottone ed Enrico. A una verifica critica dei fatti, la narrazione è volutamente menzognera: Matilde si schierò a fianco del figlio Enrico, che non aveva ottenuto il regno dal padre, e lo scontro fu solo con Ottone. Ma il racconto resta la sola testimonianza sia pure in parte mendace che quella lite ci fu e, come ormai possiamo aspettarci, la cronaca di quell’evento è resa con la partecipazione emotiva e l’accuratezza delle descrizioni proprie di un romanzo: i due fratelli pretendono che la madre restituisca loro «cumuli di tesori nascosti» che ella invece donava alle chiese e ai poveri, ma visto che Matilde si rifiuta, «ordinarono ad alcuni esploratori di andare attentamente qua e là, per i fianchi delle montagne e sulle cime dei colli, per le terre incolte e per le selve, perquisendo quei luoghi nei quali la regina aveva consegnato le sue ricchezze ai monasteri». Gli esploratori, ogni volta che trovavano sulla loro strada persone che portavano con sé oggetti preziosi «dopo aver pesantemente insultato i servi che li portavano e averli loro sottratti con la forza, li lasciavano andare a mani vuote». Matilde fu costretta a fuggire e a rifugiarsi in un monastero lontano ma, «si abbatterono allora sopra il re Ottone molti flagelli come se, ferendo la madre, si fossero rovesciati i trionfi della vittoria e le altre fortune». Solo un discorso accorato della moglie Edith riesce a spiegare al re la ragione delle sue disgrazie ed egli allora manda a cercare la madre che, commossa da cotanto spontaneo affetto, «con le belle gote bagnate di pianto, baciava il figlio tenendolo stretto al petto» e «avendo ottenuto la soddisfazione della riconciliazione, concesse al figlio la parte dotale del regno».

Matrigne malvagie e mogli traditrici

Non sono soltanto madri esemplari e giovani fanciulle ingiustamente prigioniere a fungere da protagoniste delle avventurose narrazioni femminili di quegli anni: anche donne crudeli, mogli infedeli, vedove e matrigne trovano largo spazio nelle storie raccontate dalle nostre anonime autrici. Gli Annales Mettenses priores sono una narrazione storica che ci è giunta anonima e che è sempre stata attribuita a un autore maschio, prescindendo dal fatto che gli Annali furono sicuramente compilati nei primissimi anni del secolo IX nel monastero femminile di Chelles, che si trovava nell’attuale regione dell'Île-de-France. In quegli anni a capo del monastero si trovava la badessa Gisella, sorella di Carlo Magno, a lui legatissima, una donna colta, ben inserita nel circolo intellettuale di cui l’imperatore si era circondato. Anche per quest’opera è stata proposta l’attribuzione a una penna femminile, per la specifica attenzione al ruolo delle donne nelle vicende narrate e, ancora una volta, per lo stile romanzesco del racconto.

Negli Annali le vicende del regno dei Franchi nel secolo VIII sono esaminate da una prospettiva assai peculiare: la storia delle battaglie e della progressiva affermazione dei Pipinidi è strettamente connessa agli scontri e agli intrighi che caratterizzavano la vicenda intima della famiglia che assurgono a un ruolo di primo piano, diventando la sola motivazione concreta dell’azione politica. Esemplare la successione di Pipino che alla sua morte, nel 714, aveva lasciato un solo erede Carlo che però «sopportava con difficoltà le insidie della matrigna». La vedova di Pipino si chiamava Plectrude ed era «infiammata da un odio incomparabile nei confronti di Carlo» al punto che «ordinò di incarcerarlo pubblicamente». Aveva infatti deciso di «governare con un’astuzia femminile più crudele di quanto fosse necessario», in nome e per conto di un nipotino, ancora minorenne, del defunto marito. Sulla donna malvagia e sul piccolo erede si scatenarono allora i Franchi di Neustria che «nella silva Cozia, compirono un’immensa strage» e poi «entrati in Austrasia con grande impeto, saccheggiarono tutta quanta quella regione fino al fiume Mosa». Ma l’intervento divino riuscì a infine a sottrarre Carlo dalle insidie della sua matrigna:

allora, così come i luminosi raggi del sole fanno uscire la terra a piccoli passi dall’ombra dell’eclissi, così Carlo degnissimo erede di Pipino, risplendette come robustissimo difensore della salvezza del popolo davanti a coloro che soffrivano e ormai disperavano … e dunque, due anni dopo la morte di suo padre Pipino, Carlo riuscì a diventare re degli Austrasiani.

Un’altra donna perfida, la regina Fredegonda è una delle più celebri protagoniste del Liber historiae Francorum: ancora una volta un testo anonimo, redatto nei primi decenni del secolo VIII nella regione di Soisson dove si trovavano due centri monastici importanti, il monastero maschile di San Medardo e quello femminile di Notre-Dame: Janet Nelson, a differenza di chi in precedenza aveva indagato sul luogo di redazione del testo e che escludeva a priori che un monastero femminile potesse essere il luogo dove si era redatta una narrazione storica, ha attribuito invece sulla base dei criteri già più volte ricordati un’autorialità femminile all’opera, rilevandone i tratti epici, le tracce di tradizione orale, il forte protagonismo femminile descritto «in lively and inimitable fashion» [Nelson 1991]. La presentazione della regina, vissuta nella seconda metà del VI secolo, è icastica nella sua stringatezza: «La regina Fredegonda era bella e molto intelligente e non di meno adultera». Suo amante era il maggiordomo di palazzo, tale Landerico «un uomo astuto e capace». Accadde che un giorno il re, che dalla villa di Calais dove si trovavano stava per partire verso Parigi per andare a caccia, «dato che la amava troppo, dalla stalla dei cavalli tornò indietro nella camera del palazzo dove la donna si stava lavando i capelli e, avvicinatola da dietro, le percosse le natiche con un bastone. Ma ella, pensando che fosse Landerico, disse: «Perché fai così Landerico?». Sollevata la testa, girandosi vide che invece era il re e si spaventò tantissimo. Ma il re, colpito da troppa tristezza, si allontanò comunque per andare a caccia».

Fredegonda capisce bene che si tratta di una tregua provvisoria: una volta tornato il marito sia lei sia l’amante non avrebbero avuto scampo. Ordisce allora una trama viperina, chiedendo la complicità di Landerico, disperato e in lacrime.

Non aver paura – lo consola – ascolta la mia idea, facciamo così e non moriremo. Quando, alla fine di questa giornata, fattasi notte, il re tornerà dalla caccia mandiamogli incontro uomini che lo uccidano e che affermino che gli è stato teso un agguato da Childeberto, re dell’Austrasia. Una volta che sarà morto, noi regneremo insieme con mio figlio Clotario.

E così, quando nella tarda serata il re Chilperico tornò da caccia, mentre scendeva da cavallo

i sicari di Fredegonda, resi arditi dal vino, questi due gladiatori con la spada in pugno, colpirono il re nel ventre. Ed egli con un urlo straziante, morì. I sicari mandati dalla regina cominciarono allora a gridare a gran voce: «È un attentato, un attentato contro il nostro signore fatto da Childeberto, il re dell’Austrasia». L’esercito allora cominciò a correre di qua e di là ma, non avendo trovato nulla, tornarono tutti alle proprie case.

Il piano della regina funziona alla perfezione dunque e, una volta sepolto con tutti gli onori il marito, ella poté regnare con il piccolo re Clotario, suo figlio, e con Landerico che rimase al suo fianco quale maggiordomo di palazzo.

Romanzi o storia?

Sono narrazioni accattivanti, spesso divertenti, sicuramente vivaci e romanzesche quelle che ci hanno tramandato le nostre antenate altomedievali. L’anomalia rispetto alle coeve opere maschili riscontrabile sia nei contenuti, sia nella forma ci può essere d’aiuto per capire perché queste anonime autrici si dedicarono alla scrittura di storia, perché non vollero lasciare soltanto agli uomini il ruolo di narratori, e quindi di interpreti, delle vicende politiche coeve. Queste donne che appartenevano all’aristocrazia, che conoscevano bene il ruolo che gli intrecci parentali giocavano in una politica gestita in modo completamente clientelare come quella altomedievale, non volevano che un «silenzio sconsiderato», per citare l’autrice della Vita Mathildis, coprisse per sempre il retroscena dei legami personali che univano gli attori del gioco politico, fingendone un isolamento e una capacità di azione personale che non potevano spiegare bene la complessità degli avvenimenti. Le narrazioni femminili ridando corpo e voce alle emozioni dei protagonisti di quelle vicende lontane, raccontandone con vivacità le passioni, le debolezze, le malefatte, ricostruiscono la struttura delle reti informali dell’azione politica e sono per questo, per noi che ancora oggi ci occupiamo di quegli eventi lontani, preziosissime.

Testi citati

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