Storicamente. Laboratorio di storia

Biblioteca

Laura Di Fiore, “L’Islam e l’impero: Il Medio Oriente di Toynbee all’indomani della Grande guerra”

PDF

Laura Di Fiore, “L’Islam e l’impero: Il Medio Oriente di Toynbee all’indomani della Grande guerra”, Roma, Viella, 2015, 223 pp.

Poche personalità storiche del Novecento hanno incarnato meglio di Arnold J. Toynbee (1889-1975) il connubio tra ricerca accademica e servizio alla politica. Consulente del Foreign Office britannico durante gli anni della Prima guerra mondiale, Toynbee partecipò alla Conferenza di Parigi del 1919 e diresse, a partire dal 1925, il Royal Institute of International Affairs (Chatham House). A questa figura è dedicato “L’Islam e l’impero”, un libro di Laura Di Fiore, borsista della Fritz Thyssen Stiftung presso il Deutsches Historisches Institut di Roma, basato in larga parte su fonti primarie provenienti dal The National Archives di Londra.

Il volume, scorrevole e ben argomentato, offre un duplice contributo: rende più accessibile l’opera di uno dei più influenti intellettuali dell’Europa post-Prima guerra mondiale e fa luce, attraverso la sua produzione e il suo percorso di vita, sulle complesse dinamiche che interessarono le grandi potenze del tempo e sul loro modo di rapportarsi a temi epocali come la questione armena.

Toynbee, sulla cui figura erano già apparse in Italia alcune opere di spessore come quelle dello storico Teodoro Tagliaferri (ma si ricordi anche il contributo su Toynbee e l’Occidente apparso su «Passato e Presente» a firma di di Gianpasquale Santomassimo), analizzò i fattori ricorrenti che si manifestano nello sviluppo e nel declino delle civiltà e pose queste ultime al centro del suo interesse a scapito degli stati, delle nazioni e dei gruppi etnici. Riconoscendo la parziale inadeguatezza del principio di nazionalità, Toynbee pose in risalto gli aspetti culturali alla base delle differenze che dividevono l’umanità, proponendo una visione fondata sui «contatti di civiltà», ovvero sull’«incontro/scontro dell’Occidente con le altre civiltà esistenti» (98).

Giova sottolineare che il concetto di dialogo interculturale è relativamente recente e si è affermato in età moderna all’interno di società aventi l’uomo – e non dio e la religione – come proprio fondamento. A ciò si aggiunga che il concetto di «scontro di civiltà» – reso popolare dall’omonimo libro (1993) di Samuel Huntington – e quello di «dialogo» o «contatto tra le civiltà», rappresentano per molti versi due facce della medesima medaglia. Ciò premesso, l’autrice ha il merito di spiegare in modo convincente che le civiltà immaginate da Toybee differiscono in modo netto dal modello dei mondi isolati, rigidamente costruiti e incompatibili che traspaiono dall’opera di Huntington (121).

Nel libro viene sottolineato a più riprese che l’approccio dello storico britannico restò in ogni caso dominato da un orientamento marcatamente eurocentrico, che negava qualsiasi tipo di agency ai popoli non occidentali e che relegava la loro storia al rango di mere risposte a processi innescati dal «fattore occidentale» (106). Il contributo di Toynbee si pose in questo senso sulla falsariga di quanto proposto da altri grandi intellettuali dell’epoca, compreso Antonio Gramsci, il quale nei suoi Quaderni del carcere non mancò di sottolineare che «ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione ‘gerarchica’ della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammettere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea, la sola storicamente o concretamente universale, in quanto cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo» (1825). A differenza di Gramsci, tuttavia, Toynbee dedicò grande attenzione al «risveglio» in atto nella «civiltà islamica» (11) e fu attento a declinare la categoria di “civiltà” al plurale. Dunque, sebbene ancora lontano dall’individuare un ruolo storico attivo ai soggetti non occidentali, Toynbee mostrò un certo grado di consapevolezza dell’importanza delle altre “civiltà”, affermando con ciò l’urgenza di rapportarsi ad esse con maggiore profondità analitica (p. 14).

L’Islam e l’impero offre spunti di grande attualità e dalla sua lettura traspare un’evidente padronanza delle dinamiche che interessarono il Mediterraneo orientale e le grandi potenze occidentali nella fase posteriore alla Prima guerra mondiale. Pochi e tendenzialmente secondari i punti deboli del testo. L’autrice sostiene ad esempio che fu all’inizio del Novecento che la regione cominciò ad essere chiamata Medio Oriente (il termine era già in uso nell’Ottocento e abbiamo fonti premoderne, sia europee che islamiche, nelle quali è attestato il suo utilizzo) e si sofferma sul «sistema dei Millet», fornendone un’immagine rigida, sebbene la «pratica del Millet», come viene per lo più indicata oggi nella letteratura specialistica, fosse in larga parte il frutto di processi flessibili maturati dal basso verso l’alto. Qualche dettaglio in più su figure cardine come Jan Smuts, ispiratore del sistema dei mandati della Società delle nazioni nonché un aperto sostenitore della pratica della segregazione razziale, avrebbe fornito elementi aggiuntivi utili a contestualizzare l’epoca oggetto dell’analisi. Nel complesso, il libro di Laura di Fiore è uno dei più convincenti testi che siano stati pubblicati nel recente passato in Italia su tematiche legate al Mediterraneo orientale.