Storicamente. Laboratorio di storia

John Thornton, “Polibio. Il politico e lo storico”

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John Thornton, Polibio. Il politico e lo storico. Roma: Carocci, 2020. 425 pp.

Nella dedica a Enrico IV di Francia per l’edizione del 1609 delle Storie di Polibio, già Isaac Casaubon rilevava che non erano mancati benemeriti degli studi polibiani: chi pubblicando frammenti sconosciuti, chi traducendoli, chi commentandoli; lasciava intendere, inoltre, che ulteriori esegesi di Polibio non avrebbero potuto prescindere dal dato biografico. Il volume Polibio. Il politico e lo storico di John Thornton, ordinario di Storia romana alla Sapienza di Roma, si colloca a pieno titolo nel filone d’indagine sul politico e storico ellenistico (ca. 200–118 a.C.) di cui l’a. è un benemerito. Un’ampia scelta dei suoi contributi a riguardo si può apprezzare alle pp. 382-4: si rivolgono specialmente a Polibio e alla storiografia intorno alla multiforme risposta soggettiva del contesto greco – problematicamente recepita alla base di un successivo macrocontesto greco-romano – alle monarchie postalessandrine e a Roma. Una sintesi non teleologica di queste tendenze non è né facile né immediata. L’impegnativa premessa dell’a. è che «gli obiettivi politici che Polibio non può fare a meno di continuare a perseguire attraverso l’opera storica complicano drammaticamente il quadro» (p. 19) dell’interpretazione di questa fonte sul secolo lungo (264–146 a.C.) che va dall’inizio della prima guerra punica alla distruzione di Cartagine e Corinto con lo scioglimento della sua – questo il punto – Lega achea.

Complessità al centro di riflessioni pluridecennali da parte dell’a., che ci consegna ora uno studio non privo di continuità con un maestro come Domenico Musti – lui avviò «la reazione contro l’attribuzione a Polibio di una grossolana parzialità filoromana» (p. 19) –, in cui Roma, l’attore mediterraneo che le Storie lasciano ormai dominatore unico dell’ecumene (I 1, 5) e padrone della terra e del mare (I 3, 9), non si sovrappone a Polibio: uno studio polibiocentrico, più che romanocentrico. Lo confermano la modalità e l’ordine dell’esposizione. Questa si evolve nel lucido esame dell’educazione dello storico (§1), del côté di Megalopoli, in Arcadia (§2), della deportazione in Italia (§3) e del soggiorno a Roma (§4), con le ripercussioni sull’ultima parte della vita (§5), a cui segue lo studio del giudizio di Polibio sulle responsabilità della drammatica guerra del 146 a.C. fra Roma e la Lega achea (§6) – nonché sulle democrazie ellenistiche (§7) e sull’esemplarità dell’imperialismo romano (§8) – e del peso, in tale giudizio, dei modelli di Erodoto e Tucidide (§9).

L’articolazione tripartita ricalca la vita, l’opera e la fortuna, ma rivela già dai titoli una complessità ulteriore: I) Una vita nel flusso della storia, II) Politica e storiografia, III) L’ombra di Hegel (e di Bossuet).

La prima parte si apre su un doppio scenario puramente peloponnesiaco: gli onori funebri per Polibio e, con flashback, quelli del 182 a.C. per lo stratego della Lega Filopemene, cui Polibio prese parte portando l’urna cineraria (Plut. Phil. XXI). È suggestivo che anche la seconda parte si chiuda con un flashback della fatale caduta di Polibio da cavallo (Luc. Macr. XXII), paragonata a quella che sessant’anni prima aveva portato alla cattura e morte di Filopemene: «Non è dato sapere se Polibio, fra la caduta e la morte, abbia avuto tempo di cogliere quest’ultima analogia con l’esperienza umana del suo maestro e modello» (p. 133).

La persona pubblica di Polibio non è qui introduttiva all’analisi delle Storie, ma occupa buona parte del volume e ne costituisce la chiave di lettura, reagendo alla classica immagine di un Polibio avvolto da quella stessa nube – Roma – che il leader degli Etoli Agelao vide in arrivo da occidente (V 104, 10). L’a. rappresenta piuttosto Roma come viene percepita da una figura di spicco del Peloponneso, problematizzando la vulgata dell’«innamorato» (p. 264), e «talora persino il cantore» (p. 18), della conquista romana. All’a. non sfuggono le tracce, episodiche (secondo una plausibile approssimazione, solo un terzo delle Storie ci sarebbe giunto), di resistenze polibiane a tale egemonia: non Roma – secondo l’a. – calò il sipario sull’appartenenza politica e sulla vita di Polibio. Con il supporto dei testi, presentati nella traduzione dell’edizione cui l’a. collaborò [1], è alla luce dei condizionamenti di un membro della classe dirigente di Megalopoli, e ufficiale acheo, ipso facto difensore di una linea politica risalente ad Arato, che il sospetto di Polibio verso politiche favorevoli ai cittadini meno abbienti e ai piccoli possidenti – per esempio, dei filomacedoni della Beozia –, prende qui un indirizzo. La stessa valutazione degli obiettivi concreti della storiografia polibiana è illuminata dalle tracce che se ne sarebbero preservate: l’a. attribuisce alla nota polemica con lo storico Filarco di Atene (o Naucrati) una finalità concretamente ed essenzialmente politica: «Il dibattito sulle responsabilità di Arato, che Filarco denunciava come criminale di guerra, e che Polibio considerava l’eroe fondatore della Lega [...] dovette risultare così non meno acceso di quello su Robespierre» (p. 51).

Speciale attenzione merita, a mio avviso, la terza parte, che esplora con acume e vis polemica un importante aspetto della ricezione delle Storie. Muovendo da testi come il Discours sur l’histoire universelle (1681) di Bossuet, e altri ancor più antichi, a seguito dei quali la Fortuna (Tyche) – agente non secondario nelle Storie – fu interpretata come travestimento della Provvidenza ab initio filoromana, l’a. si sofferma sulla «lente deformante» (p. 263) con cui l’ottocentesca Geschichtsphilosophie e la «linea De Sanctis-Pasquali-Gigante» (p. 264) scorsero in Polibio, in termini hegeliani, un intellettuale che avrebbe intuito lo spirito del mondo/spirito del tempo e la missione universale, ineluttabile e teleologica di Roma. È dirimente l’uso che l’a. fa dei concetti, mutuati dal politologo James C. Scott, di public transcript («interpretazione dei rapporti di potere che soggiace alle relazioni pubbliche fra i subordinati e quanti esercitano il dominio», p. 55) e dell’opposto hidden transcript. Ne emerge non un Polibio innamorato dell’impero, ma, direi, i lineamenti di una complessa psicologia, così come sfaccettati si rivelano gli stessi costrutti teleologici dell’egemonia: il discorso su Roma sarà, quindi, non «immediato riflesso di convinzioni profonde», ma «l’adozione strumentale dell’autorappresentazione in termini evergetici dei vincitori, l’adesione al public transcript imposto dai potenti» (p. 283). Questa la chiave di lettura di centotrenta pagine di biografia di Polibio politico – una rarità per il soggetto – e di uno spazio di poco inferiore dedicato all’analisi delle Storie, alla luce delle considerazioni maturate, le quali, unitamente alle suggestioni finali – sintesi di tutto un metodo –, faranno di Polibio. Il politico e lo storico un punto di riferimento e interlocutore in itinere degli studi futuri.


Note

1. D. Musti (a cura di), Polibio. Storie. I–VIII, Milano 2001-6.