Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Sacrificio di sé e idea di stato in Balthazar de Ayala

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Abstract

The paper aims to explore the theme of self-sacrifice in Balthzar de Ayala, a Brabant judge of the second half of the 16th century in the service of the Spanish Crown. Ayala is on the whole a marginal figure in recent historiography and, moreover, only one work is ascribed to him: De iure et officiis bellicis et disciplina militari. Nevertheless, Ayala is a well-known figure in the juridical (and theological) culture of the so-called "long iron century," and Hugo Grotius mentions him in the Prolegomena of his De iure belli ac pacis. With this essay, therefore, which wishes to deepen Ayala's political conception as well as his doctrine on just war, I intend to add a piece to the knowledge of the themes and problems of the history of law(/theology) in the Early Modern Age.

La questione del sacrificio e il problema delle fonti di Grozio

È ben noto che il sistema groziano della giustizia bellica rappresenti il complicato tentativo di integrare, all’interno del paradigma tomistico del bellum iustum [1], la produzione che risulta dall’esperienza cinquecentesca della guerra infracristiana, codificata nelle opere di giuristi come Alberico Gentili ma anche dei cosiddetti “pratici” quali Pierino Belli e Balthazar de Ayala [2]. Al concetto di bellum iustum, così, Grozio accosta quello di bellum solemne, cioè di una guerra che è concepita come giusta in quanto “legale”, dichiarata da una auctoritas superior in modo formale [3]. Teoricamente, le guerre “solenni” sarebbero regolate dallo ius gentium voluntarium, fondato sulla volontà umana e vincolante in foro externo, mentre quelle tecnicamente “giuste” si adeguerebbero allo ius gentium naturale, derivazione del diritto naturale e vincolante nel foro della coscienza. In realtà, tuttavia, bellum solemne e bellum iustum non sono così nettamente distinti, al di là della concretezza dei fatti, anche dal punto di vista delle ragioni di principio, poiché alla guerra solenne, per Grozio, va comunque negata l’arbitrarietà. Detto altrimenti: anche il bellum solemne dev’essere, in qualche modo, iustum [4].

Di qui s’intuisce la complessità, la tortuosità, la fatica della riflessione groziana, che cerca di conciliare in un’unica soluzione due concezioni difficilmente raccordabili. Non stupisce cogliere una certa insoddisfazione nel grande giurista e teologo olandese, cui corrisponde l’esigenza di mettere a punto, precisare, forse comprendere meglio alcuni dettagli. Più specificamente, in altra sede è stato fatto notare che, tra le annotationes dell’edizione del 1642 del De iure belli ac pacis (d’ora in avanti IBP), Grozio predilige Cirillo di Alessandria ad Agostino quale auctoritas per il concetto di ius ad bellum nel caso di bellum solemne [5]. Per la precisione, Grozio prende le distanze da Agostino, il quale quo [i.e. bello] nos retrahit quantum potest e si rivolge verso una fonte in cui vengono elogiate le figure di Davide e, soprattutto, di Sansone. In ciò sembra quasi di poter misurare l’allontanamento di Grozio dal tracciato della letteratura giuridica classica dell’epoca con il suo avvicinamento ai protagonisti della letteratura castrense. Ricordo qui, difatti, che si tratta di un passaggio di estremo interesse non solo né tanto perché ci restituisce un’inedita attenzione per Cirillo risalente proprio agli stessi anni in cui Jean-Baptiste Aubert, il cui lavoro Grozio stava seguendo con apprensione, stava preparando l’editio princeps dei suoi opera omnia, ma soprattutto perché, nel riferirsi a Sansone, la riflessione groziana mostra di avere a che fare con la figura biblica all’epoca paradigmatica per la trattazione del tema del sacrificio di sé, come di recente ha mostrato a più riprese Vincenzo Lavenia (Lavenia 2019; 2021; 2022).

In questa sede, vorrei dunque cercare di capire l’incidenza del tema del sacrificio di sé, per contestualizzare il senso di quest’inquietudine groziana che tenterei di comprendere, per quanto possibile, alla luce del suo contesto storico. A tal fine, ritengo sia utile riscoprire e valorizzare il ruolo di Balthazar de Ayala, un giurista che per Grozio rappresenta un obiettivo polemico sin dai Prolegomena del suo IBP. Focalizzandomi su quei pionieri della scienza giuridica moderna che, a lungo dimenticati dalle principali tradizioni storiografiche, cominciano a essere riscoperti a metà Ottocento [6], vorrei così contribuire al tentativo con cui si sta cimentando il mainstream della più recente storiografia groziana (da Robert Feenstra a Randall Lesaffer e Carlo Focarelli, e da Richard Tuck a Benjamin Straumann e, sullo sfondo, Henk Nellen e Peter Haggenmacher) [7]. Certo, si tratterebbe di una questione minuta, di una narrazione della “grande storia” dalla prospettiva di una feritoia. Tuttavia desidererei accostarmi alla lettura del grande teologo e giurista olandese, considerandolo non tanto un padre del diritto internazionale, del giusnaturalismo e del pensiero politico moderno [8], ma come uomo del suo tempo, che scrive un trattato sulla guerra e sulla pace mentre la forgia della statualità moderna si compie nel conflitto trentennale che chiude la periodizzazione del lungo secolo di ferro [9]. In effetti, sullo sfondo di quelle che solo una lettura superficiale o preconcetta scambierebbe per mere questioni filologiche si possono riconoscere le impronte fossili di una trasformazione in atto. Le fonti letterarie, su cui si esercita una doverosa e preliminare Quellenforschung, divengono così punte di un iceberg profondo. A un tempo celano e rivelano la rideclinazione di un mondo medievale che non muta nella sua forma esteriore, quanto piuttosto nelle dinamiche interne, nei gangli del suo funzionamento, nella sacramentalità di cui vive la dialettica princeps/lex di un Impero diversamente Sacro e Romano.

Balthazar de Ayala

Sulla vita di Balthazar de Ayala si conosce davvero poco: la nascita anversana nel 1548, scarse notizie sulla sua famiglia, la formazione lovaniese, qualche dato sulla sua brillante carriera giuridica (e politica) nonché la sua morte, avvenuta ad Aalst nel 1584. Al netto di quanto era già noto all’erudizione dei secoli XVII e XVIII, che aveva, nella sostanza, perso le tracce dell’importanza storica di Ayala, si assiste, verso la fine dell’Ottocento, a una sua graduale riscoperta. Ernest Nys, dapprima, tenta una ricostruzione della biografia di Ayala sulla base di un’opera di scavo negli archivi di Stato del Belgio (Nys 1882, 173-82) che, vagliata, ricalibrata [10] e alla fine obliterata durante il franchismo, sarà appunto il volto con cui Ayala si presenterà alla storiografia novecentesca. Successivamente, Carl Schmitt [11] ne farà un riferimento per il moderno concetto di sovranità, in un processo storico destinato a compiersi con Emmerich de Vattel. Tuttavia nel complesso si può affermare, senza troppa approssimazione, che Ayala sarà a lungo, e per lo più, catalogato nei ranghi dei «precursori di Grozio» [12].

Se la nostra conoscenza della biografia di questo auditor general del campo y del ejército di Filippo II e consigliere del Gran Farnese risulta a grandi tratti obnubilata, lacunosa, la sua bibliografia, d’altro canto, non aiuta a riabilitarne la memoria. Al netto di una notizia che si ricava da Giusto Lipsio, il quale menziona, in una lettera del 1597 a uno dei fratelli di Balthazar un suo trattato De pace [13], di Ayala ci è pervenuta una sola opera, il De iure et officiis bellicis et disciplina militari, la cui editio princeps risale al 1582 (Duai) e di cui sono note tre ulteriori ristampe antiche, quella del 1597 (Anversa) quella del 1648 (Lovanio) e quella del 1793 (Madrid). Sotto il profilo editoriale, la panoramica sulla storia delle stampe di quest’opera è certo affascinante, se si considera che all’indomani del 1597 ebbe luogo la Pace di Vervins, che il 1648 pone fine alla Guerra dei trent’anni e alla cosiddetta Guerra degli ottant’anni [14] e che nel 1793 si è in piena Rivoluzione francese. Tuttavia non si può negare che si è di fronte a una produzione estremamente esigua e il rischio che si corre con tale scarsità di fonti e informazioni [15] è di sottovalutare la rilevanza storica del giudice brabantino, morto dopotutto prematuramente. In realtà, il caso di Grozio fa presupporre il contrario e, accanto e prima di Grozio, già Francisco Suárez come anche, implicitamente, lo stesso Jean Bodin, che pure con l’edizione francese della République era stato un riferimento indiscusso per Ayala, sentono la necessità di prendere una posizione (critica) nei confronti delle sue proposte. Negli ultimi anni, si può dire che Balthazar de Ayala è stato oggetto di una consistente rivisitazione storiografica che, da più parti, molto ha contribuito a far avanzare la nostra conoscenza sul suo ruolo nella trattatistica militare del tardo Cinquecento [16]. In particolar modo, è stato valorizzato il suo contributo al dibattito coevo sulla guerra giusta e le sue forme [17] e, di conseguenza, ci si è concentrati soprattutto sul primo libro del trattato di Ayala [18]. Non sono mancati, tuttavia, studi in grado di apprezzare il ruolo più complessivo di Ayala nel quadro della storia del diritto e del pensiero politico della Prima età moderna, che si sono occupati in specie degli ultimi due libri del De iure et officiis bellicis et disciplina militari, sottolineando soprattutto l’importanza del terzo [19]. Nel presente saggio cercherò di seguire le orme proprio di questo secondo filone di studi, tentando di chiarire alcuni aspetti della concezione ayaliana dello stato.

Patria, Respublica, princeps

Come ha evidenziato Diego Quaglioni, i tre libri del De iure et officiis bellicis et disciplina militari costituiscono un trattato sistematico su altrettanti argomenti: diritto di guerra (fondamentalmente ius ad bellum), diritto bellico (nella sostanza ius in bello) e disciplina militaris, vale a dire il diritto militare della Prima età moderna, la cui genesi è ascritta proprio ad Ayala e, ancor prima, a Pierino Belli (2007, 206; 2004a, 459). È precisamente rispetto a questa visione che l’IBP groziano rappresenta un atteggiamento conservatore, se non addirittura un tentativo di reazione.

Lo schema di Ayala era analogo a quello del De re militari et bello di Belli, ma il pensiero di Ayala pare più lucido ed esplicito. La trattazione della disciplina militaris, in specie, si articola in venti capitoli concernenti complessivamente due materie: l’amministrazione dell’esercito (ruoli e gradi militari, giuramento, congedo e i privilegi), capp. 2-7, e soprattutto il diritto penale militare (giustizia militare, reati e relative pene/ricompense), capp. 8-20. Già il primo capitolo del terzo libro enuncia l’idea che Ayala aveva della disciplina militaris. Per Ayala la disciplina dell’esercito, in guerra e in pace (III 1,10), è il fattore dirimente, capace di decidere del successo e dell’insuccesso di una campagna (III 1,1-3) e, più in generale, della vita o della morte di chi rispettivamente vi si adegua o la neglige (III 1,11). Su questo, il giudice fiammingo è chiaro quando chiosa:

III 1,4: Ut breviter dicam, nullum maius neglectae, vel retentae disciplinae militaris testimonium habere possumus, quam de Romanis; qui cum ante iusticiae opinione, ac belli gloria omnes populos superarent, postea labente disciplina, ab omnibus superati sunt.

Nel complesso, si può dire che lo scopo dell’intero terzo libro, vale a dire della sezione del trattato in cui si trovano codificate e concentrate le regole del diritto penale militare, è essenzialmente elaborare gli strumenti giuridici per sradicare l’indisciplina. L’indisciplina è infatti, per Ayala, il prototipo del vizio. Questa è la colpa, in specie, dell’esercito di Annibale che Ayala ritrova in Livio (XXIII 18,11):

III 1,2: adversus omnia humana mala saepe ac diu durantem, bonis inexpertum atque insuetum, quem nulla mali vicerat vis, perdidere nimia bona ac voluptates immodicae Capuanae.

In sostanza, chiosa Ayala, più generalmente, gli uomini di Annibale, in precedenza tanto valorosi, successivamente furono (III 1,2) sola licentia omnibus vitiis, neglecta disciplina militari, corruptos et consumptos.

Il primo capitolo del terzo libro, così, restituisce il senso, la ratio delle prescrizioni che avevano innervato i contenuti dell’intero e più noto primo libro, il cui focus principale andrebbe allora ricercato non solo – né soprattutto – nella discussione sulla giustezza della guerra, quanto piuttosto nelle caratteristiche del soldato disciplinato [20] e nelle pene che, previo passaggio per la giustizia militare [21], sarebbero spettate, di contro, ai soldati indisciplinati [22]. Ci indica e ricorda che nel primo – e nel secondo – libro a parlare di guerra giusta è innanzitutto “il giudice” Ayala che, di fatto, è proprio con questo suo terzo libro che traccia il confine, fissa il discrimine tra il disciplinamento e la executio iurisdictionis. Stabilendo le pene necessarie a eradere l’indisciplina, infatti, Ayala si comporta precisamente da magistrato inferiore (o meglio, is, qui iuris­dictionem habet, come aveva detto nel primo libro) [23] che, in nome o in vece del sovrano, esercita l’azione penale su chi contravviene alla legge [24]. Da questa prospettiva, allora, il milite indisciplinato (renitente, disertore, traditore, fuggitivo, sedizioso etc.) oggetto del terzo libro non è dissimile dal ribelle, descritto nel primo e nel secondo, nei confronti del quale, notoriamente [25], per Ayala non si conduce una guerra, ma, appunto vi ci si rapporta nei termini di una executio iurisdictionis:

I 2,14: Cum rebellis proprie hostis dici non possit, […] verius est, ut si cum subditis rebellibus armis certetur, non tam dicamus esse bellum, quam executionem iurisdictionis, et persecutionem rebellium. Unde etiam non erit opus auctoritate summi principis, sed sufficit eius qui iurisdictionem habet.

Pro patria mori

Ayala identifica diversi gradi di punizione a seconda della gravità del reato commesso (I 9,2) o del momento (se si è in tempo di pace o di guerra, come in III 12,1). I più gravi sono quelli riconducibili all’insubordinazione (ad stabiliendam disciplinam militarem in primis spectat, ut exercitui et militibus praepositi, habeant milites dicto audientes. Itaque qui edicto minus paret, capite puniri iubetur, III 10,1) e sono puniti con pena capitale. Tra questi, chiaramente, vi sono i crimini direttamente o indirettamente riconducibili alla perduellio, all’alto tradimento, che corrisponde alla colpa dei ribelli (I 1,7.10 e II 1,12; indirettamente I 7,5). Si tratta, esplicitamente, dei traditori e disertori al nemico (III 13), dei sediziosi (III 14) e dei casi di cessione al nemico di città o fortezza (III 18) [26].

A proposito della trattazione di queste colpe, sommamente gravi, si rintracciano gli echi di una riflessione sul concetto di patria che trova sede nel primo libro e mi sembra interessante per due ragioni a un tempo storiche e storiografiche [27]. Le considerazioni di Ayala sulla patria [28] – e dunque, possiamo dire, la sua visione dello stato – sono condotte infatti con il lessico e la logica della sua disamina del tema dei ribelli. In altri termini, Ayala mette a fuoco ed esplicita la sua idea di patria in modo speculare, dialettico, rispetto a quella di ribellione [29]. Ne tratta all’interno di contesti argomentativi nei quali si parla dell’esatto opposto di chi si ribella o di chi è massimamente indisciplinato: colui che muore, appunto, per la propria patria. Di qui, è possibile innanzitutto ricavare dalla descrizione ayaliana del soldato indisciplinato ulteriori informazioni sull’opinione che il giudice aveva dei sudditi ribelli, la cui discussione, come ha sottolineato con incisione Quaglioni, costituisce il tratto più peculiare della sua proposta. Probabilmente, il suo astio nei confronti dei ribelli va compreso e riletto alla luce della sua esperienza quotidiana di giudice militare e delle sue difficoltà ad attuare un’efficace azione di disciplinamento.

Inoltre, ed è ciò che più interessa in questa sede, è possibile ricavare informazioni sulla visione politica di Ayala, sulla sua idea di stato, rilevanti per la questione del sacrificio nella Prima età moderna. La dialettica patria-ribellione si registra già a partire dal lessico che Ayala usa quando spiega che la ragione della gravità di quella sorta di indisciplina radicale che è la ribellione risiede proprio nel tradimento della patria. Tradire la patria, per Ayala, comporta la perdita d’ogni dignità, per meglio dire d’ogni diritto, e getta dunque chi commette questo crimine, da suddito qual era, nella condizione del ribelle:

III 13,1: In transfugas, velut maiore crimine obnoxios, et patriae ac civium proditores, acerrime semper animadversum fuit, et venia indigni fuere.

Non c’è dunque spazio per alcun giusto processo se ci si è posti sul piano di un patriae ac civium proditor – vi è bensì soltanto l’executio della pena capitale. Lo stesso vale – ed è evidente in queste righe – per talune forme gravi di indisciplina.

È interessante guardare alla definizione di patria che si trova in questo trattato. Ayala, infatti, aveva chiarito cosa intendesse per patria riferendosi a Cicerone e, in specie, alla sua nozione di respublica: Rempublicam voco, in quo sanctissimum nomen patriae contineri dixit Cornificius […], coetum civium iuris consensu, et utilitatis communione sociatum (I 2,22; Cic., rep. I 39). Non si era, tuttavia, fermato a ciò giacché, sin da qui, la definizione di patria si accompagnava immediatamente a quella di perduellio. Ayala, difatti, s’era affrettato ad aggiungere: qui hostili animo adversus rempublicam vel principem est animatus, cum natura sit civis, voluntate sit hostis, diciturque perduellis, quo nomine hostes appellari solent (ibid.). Comprendiamo dunque che già questa definizione, paradigmatica, pone di fronte a due sole opzioni possibili (I 2,20): una inammissibile, la ribellione appunto, e l’unica legittima, che è la sottomissione all’autorità del principe.

Il ragionamento di Ayala però, all’interno di questa cornice generale, di rilievo politico, si fa più tecnico-giuridico. Analogamente all’indisciplina, anche la sottomissione ha conseguenze diverse e non sempre si esplicita nei termini ultimi del sacrificio di sé [30]. Cionondimeno, sempre ne richiede la predisposizione. Ayala non esita, infatti, a completare la sua definizione corredandola del motivo ciceroniano del pro patria mori [31] commentando di seguito: Pro patria vero mori, et ei nos totos dedere, et in ea nostra omnia ponere, et quasi nos consecrare debemus, ut inquit Cicero (I 2,22). Il ruolo – in linea di principio – fondativo, nei confronti dello stato, che ha il sacrificio di sé è chiaramente confermato ed esplicitato anche a incipit del secondo libro. Subito dopo aver riportato il discorso di Lucio Cornelio Lentulo circondato dai Sanniti presso le Forche Caudine, contenente un chiaro riferimento al sacrificio di sé [32] (mortem pro patria praeclaram esse fateor, et me vel devovere pro populo Romano legionibusque, vel in medios me committere hostes paratus sum, II 1,8), Ayala afferma:

II 1,9: Quacunque […] ratione patriae et reipublicae consulere debemus, et pro ea defendenda, nullam infamiam, nec ipsam quoque mortem, si res ita postulat, recusare debemus. Sed, ut inquit Plato: Si patria mandarit verberari te, sive in vincula coniici, sive in praelium miserit, ad vulnera accipienda, mortemque subeundam, obediendum est omnino [33].

Sin qui sono i classici a parlare. Tuttavia Ayala conferisce loro un significato nuovo nel momento in cui, in linea con quanto si è intuito dal capitolo primo del terzo libro, il suo discorso prosegue raffrontando il martire della patria al soldato indisciplinato (neque tergiversandum, neque fugiendum erit), mantenendo la discussione sul piano di quella che altrove era stata descritta come executio iurisdictionis e che pone sul medesimo piano l’azione del giudice nei confronti del soldato indisciplinato e la pena comminata ai ribelli (et in bello, et in iudicio) [34]:

II 1,9: et neque tergiversandum, neque fugiendum erit, sed et in bello, et in iudicio, et prorsus ubique, ea quae respublica vel patria iusserit, facienda sunt.

È proprio di fronte all’executio iurisdictionis, dunque, che non restano che due sole alternative – appunto la disciplina, espressa nella sua forma più compiuta e perfetta dall’autosacrificio, e la ribellione. Così, si può dire che qui lo stato emerge con i tratti di quella «creatura terribile» (Quaglioni 2004b, 115) che pone, che decide da sé da un lato chi siano i titolari di una forma di ius che affianchi e freni l’arbitrio del princeps e dall’altro coloro che ne siano invece privi [35]. Qui davvero si può toccare con mano il perno su cui fa leva la rideclinazione del binomio princeps-lex della cristianità medievale (Pennington 1993). Il principe di Ayala presuppone «l’emancipazione da un sistema delle fonti del diritto» (Quaglioni 2004b, 116) dai fondamenti teologico-giuridici e politici tradizionali che ora, in questo precipuo atto fondativo, paiono assai lontani. L’unica lex che, leggendo Ayala, si trovi accanto al princeps non è un sistema di principi che funga da katechon, per così dire, nei confronti del suo arbitrio [36]. Troviamo bensì l’arbitrio stesso del principe, ertosi a diritto, nei confronti dei ribelli.

È solo a partire da questo allontanamento che si ritroverà, poi, rifondata – se si può dire, sradicata e trapiantata – la coerenza di Ayala [37] rispetto alla tradizione giuridica medievale ravvivata in Bodin [38], in cui il princeps è raffigurato come legibus solutus – in quanto anche per Ayala può essere quamvis crudelis et iniquus senza però correre il rischio di essere definito tyrannus [39] – ma comunque condizionato da iura divina et humana (I 2,26) che sono quelli della legittimità dinastica, la quale, per Ayala, è la Lex regia. E Ayala si affretta a precisare, a tal riguardo: imo ex ordinatione Dei, omne imperium et potestas principi in populum sit collata; illum iudicare populus non poterit, non enim potest inferior iudicio superiorem ligare (ibid.). Questo, dunque, è il princeps al quale deve corrispondere una lealtà totale, la cui forma tipica, quella più perfetta e compiuta, è il sacrificio di ciò che è più caro [40], finanche di sé stessi. A questa predisposizione all’autoimmolazione non v’è alternativa giuridica, nemmeno l’obbedienza e la sottomissione a un altro legittimo sovrano: il suo contrario è l’arbitraria – in certo modo – decisione del principe che pone da sé il suo hostis e lo distingue da chi è oggetto di persecutio e di executio iurisdictionis, come si è visto (I 2,14) [41], privo di diritti a tutela delle sue prerogative e senza possibilità d’appello.

Una nuova idea di corpo di Cristo

Il ricorso esplicito al termine sacrificium, nella sostanza, è irrilevante in Ayala [42], né di particolare aiuto è il focus sulle figure bibliche del sacrificio [43]. Invece, da quanto si è visto sin qui, tutt’altra questione è quella del concetto di sacrificio, della “nozione” di autoimmolazione. In verità, l’idea che l’unico legittimo atteggiamento innanzi alla patria, allo stato, al principe sia la disponibilità ad autoimmolarsi non è affatto casuale. Sempre nel secondo capitolo del primo libro del De iure et officiis bellicis et disciplina militari, in cui si trova tracciata la distinzione – storiograficamente celebre – tra hostes e rebelles, Ayala si concentra sull’incondizionata obbedienza al sovrano, giusto o ingiusto che sia (inobedientia autem subditorum, et rebellio in principem, gravissimum crimen habetur […]. Generale enim pactum est societatis humanae, obtemperare regibus suis, I 2,23). Innanzitutto, si può notare come il suo argomentare proceda coerentemente rispetto a quelle che sono, di fatto, le sue premesse e dunque, come già visto, l’obbedienza sia introdotta sempre a partire dall’opposizione alla ribellione, che qui è considerata alla stregua dell’eresia ([crimen inobedientiae] haeresi comparatur, ibid.). Inoltre, in questo capitolo che è davvero centrale per l’importanza storica di Ayala, il giudice fa riferimento a due passi scritturistici notevoli nella storia della filosofia politica medievale, Rm 13 e 1Pt 2 [44]. Riporto il passo per intero qui di seguito:

I 2,23: «Nulla […] potestas nisi a Deo», ut Paulus testatur [Rm 13] [45], qui nos principibus obedire iubet. Et Petrus […] dominis nos parere vult [1Pt 2]. Et idem docet honorandos esse reges – cum tamen tunc nullus adhuc rex Christi fidem accepisset, sed omnes essent infideles, et in Christianis persequendis crudelissimi.

Il precetto della sottomissione alle autorità, codificato da Rm 13, è la soluzione con cui Paolo – l’«uomo d’azione» e «il pratico» (Dempf 1929, 6-7) Paolo, è stato detto – cerca un efficace consenso attorno alla sua intuizione, che è l’organicità visibile del corpo di Cristo, quale è teorizzata in 1Cor 12,12 (ivi, 11-3) e che coniuga, riconfigurandole in un trascendimento reciproco, la dimensione soggettiva del peccato, che distingue e individualizza, e quella oggettiva della legge. Sarà questa specifica visione a rappresentare l’ossatura logica dell’idea di impero cristiano medievale nelle sue diverse periodizzazioni. Lo sarà, certamente, con un discrimine fondamentale rispetto a Paolo, rappresentato dalla dottrina sacramentale agostiniana che, a partire dal V secolo, costituisce il nuovo paradigma della visibilità del regno divino sulla terra.

Una delle intuizioni di Alois Dempf, autore forse accantonato ma mai sconfessato e, quanto a capacità di sintesi e di visione d’insieme, tutt’oggi insuperato, che, in questo, sviluppava alcuni risultati della scienza giuridica tedesca dell’epoca (1929, 79-83.), fu di mostrare come, nella tradizione politica medievale, l’appartenenza alla respublica-corpo visibile di Cristo fosse sempre stata concepita come un atto sacramentale, agostinianamente efficace a prescindere dalla dignità di chi lo avesse amministrato. L’appartenenza di ciascun ordine civile alla repubblica era intesa da secoli come sacramento d’incorporazione in Cristo. Questa dimensione, o forse questa matrice, sacramentale non va trascurata nemmeno quando, come ha mostrato Kantorowicz, a un certo punto «il “corpo mistico della Chiesa il cui capo è Cristo”» si trova «sostituito […] dal “corpo mistico della respublica il cui capo è il principe”» (Kantorowicz 1957, 224, anche 214-33). Di fatto, dato che si sta ragionando sul problema del rapporto guerra-giustizia, è utile ricordare che anche la dottrina tomistica della guerra giusta si inserisce nel processo di trasformazione con cui la filosofia della storia mette in corrispondenza la dimensione divina e quella umana – comunicazione che, se in Agostino era resa dalla logica sacramentale, da Tommaso è espressa per mezzo della sua concezione della razionalità (Dempf 1929, 330-43). Ora, la presenza di un esplicito riferimento proprio a questi passi scritturistici per definire lo stato prova la coerenza di Ayala, il quale certo non è un filosofo né un teologo, niente meno che con questa precisa visione del mondo. È una visione del mondo che Ayala non teorizza – non è il suo compito, né gli serve farlo – ma sembra un po’ l’armatura, la filigrana, il non-detto del suo ragionamento.

In Ayala, tuttavia, rispetto al contesto medievale cambia certamente l’accezione della sacramentalità, che qui porta tutti i segni della frattura interna alla cristianità latina. Infatti, la centralità dell’idea del sacrificio di sé come antitesi dell’alto tradimento esprime l’adesione del cattolico uditore della Corona di Spagna Balthazar de Ayala alla nozione di sacramentalità maturata nello specifico contesto del cattolicesimo tridentino e post-tridentino. A ben vedere, nella centralità che in Ayala ha, se non l’atto di autoimmolazione in sé, almeno la disponibilità ad esso, risuona il can. 2 de sacrificio Missae con cui il Concilio di Trento aveva preso posizione nei confronti della condanna protestante della Messa nella sessione XXII del 17.9.1562:

Si quis dixerit, illis verbis: «Hoc facite in meam commemorationem» [Lc 22,19; 1Cor 11,24], Christum non instituisse apostolos sacerdotes, aut non ordinasse, ut ipsi aliique sacerdotes offerrent corpus et sanguinem suum: a. s. [46].

Se si legge su questo sfondo l’enfasi sul sacrificio di sé come modello, come prototipo con cui forgiare il concetto di miles disciplinato, l’autoimmolazione risulta propriamente l’atto sacramentale, in specie eucaristico, con il quale, tramite il rito sacrificale, nell’autoimmolazione del soldato, vale a dire di una delle membra del corpo di Cristo/princeps, è il corpo eucaristico di Cristo/princeps a rendersi attuale, concreto, visibile.

Questo dato conferisce alla proposta di Ayala un significato, a suo modo, rivoluzionario, sebbene il lessico con cui essa risulta formulata sia antichissimo. Nella elaborazione dei principi fondamentali del diritto militare, in Ayala va letto il tentativo di declinare, in un contesto pre-nazionale, la logica del Sacro Romano Impero: la natura sacramentale attraverso cui la particolarità e la soggettività del singolo s’innestano nella generalità e nell’oggettività di una legge (ivi, 8-9). All’atto rituale, tuttavia, anticamente tipizzato dall’incoronazione del sovrano, in Ayala si sostituisce un processo di regolazione dei comportamenti, più propriamente di disciplinamento – ancora una volta, dunque, quel meccanismo che è il «rubinetto» della coscienza (Prosperi 1996, 220, anche 476-84).

Si tratta di un’operazione di rideclinazione che, storicamente, si colloca su un piano proto-statale di cui vanno rimarcate due caratteristiche. La prima è la cornice, ossia la deflagrazione a singhiozzo [47] della guerra al cuore della cristianità occidentale, ed è bene tenerne conto perché Ayala, tra tutte le membra del corpo di Cristo, si occupa proprio del miles. La seconda caratteristica di questa dimensione proto-statale è la centralità di un atto, a suo modo, arbitrario: la determinazione del nemico, la legittimazione della prerogativa con cui si concepiscono i ribelli fuori da un sistema oggettivo di diritti soggettivi (o, per meglio dire, proto-soggettivi, Haggenmacher 1997). Con più esattezza, si è fuori da uno ius commune che non è più in grado di comprendere le crudeltà di una bellicosità dai tratti nuovi e di cui, cinicamente, Ayala prende atto quattro decadi prima dell’inizio della Guerra dei trent’anni. Questo basterebbe a giustificare le ragioni profonde del sospetto che scrittori coevi ad Ayala – protestanti come Grozio, lo si è visto in introduzione, ma anche cattolici come Suárez [48] – sembrano nutrire nei suoi confronti, vale a dire nei riguardi di un giurista tutto sommato marginale (non attivo in ambito accademico e autore di una sola opera).

Spiare tra le crepe della cristianità

Correttamente Diego Quaglioni, commentando alcuni passi del secondo capitolo del primo libro del De iure et officiis bellicis et disciplina militari, afferma che non avrebbe potuto «esserci liquidazione più netta della tradizione»; per Ayala «giusta è la guerra legittimamente indetta e condotta da coloro che ne hanno il potere» (Quaglioni 2007, 207; 2004a, 460). Dietro la concezione della guerra in Ayala vi è una precisa visione politica, sembra compiuto un processo di mutazione nella percezione dell’Impero. Se Ayala, pertanto, come emerge dai Prolegomena all’IBP, è uno dei principali bersagli polemici di Grozio, non lo è soltanto in relazione al tema della guerra. O, quanto meno, non lo è per la sua idea di guerra fine a sé stessa. È la sua concezione dell’Impero a fare problema: una concezione che, per mezzo della sacramentalità tridentina, svuota il sacramento del suo contenuto rituale e lo riempie di un significato disciplinare, della disciplina intesa «come esercizio della censura militare […] come istituto efficacissimo di disciplinamento del corpo sociale e di superamento […] della giustizia che si esercita in forma semplicemente coattiva o pattizia» (Quaglioni 2007, 208; 2004a, 461). Si apre così la possibilità di declinare su base ristretta – proto-statale, come ho detto – quella dialettica princeps/lex caratteristica del sistema giuridico del Sacro Romano Impero.

Rispetto a questa ricostruzione, allora, il tentativo groziano – certamente sforzo immane e insuperato [49] – di rimettere assieme il paradigma tomistico della guerra giusta eroso gradatamente a partire da Bartolo, indipendentemente dai suoi esiti, non è meno anacronistico degli intenti che animano la Pace di Vestfalia: cercare di preservare un impero, ancora sacro e cristiano, ma nel contesto storico di una cristianità oramai irrimediabilmente “in frantumi” [50]. Grozio, pertanto, per quanto precursore (per usare una categoria cara a una storiografica dominante sino oltre la metà del secolo scorso) del diritto internazionale, del giusnaturalismo moderno e del moderno pensiero politico, come i trattati di Münster e Osnabrück rimane tuttavia profondamente figlio del suo tempo, autore di un’opera scritta durante il conflitto più orribile che l’occidente ricordi prima della Grande guerra [51].


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Note

1. Quello cioè delle tre condizioni, rispettivamente della iusta causa, dell’auctoritas superioris e della recta intentio.

2. Sul concetto di “pratico” e le difficoltà del suo impiego, in particolare Quaglioni 2007, 196-7 (e Quaglioni 2004a, 452, ristampato in Quaglioni 2022, 713-32). Non si tratta di autori di «“manuali teorico-pratici” ad uso dei tribunali militari», bensì di giuristi che cercarono di «andare oltre una pur folta precettistica, additando per contro il modello storico-giuridico della disciplina militare romana come la trama a maglie larghe di una sorta di codificazione ante litteram del diritto militare, sia sotto il profilo amministrativo sia sotto il profilo penalistico». Su Gentili, invece, Vadi 2020, 200.

3. Haggenmacher 1983, 575-9.

4. Rimando, per ragioni di sintesi, a Lesaffer 2006, 122. Ma si tratta niente meno di uno dei punti partenza del monumentale studio di Haggenmacher, il quale ricordava come «plus d’un auteur a relevé la dualité qu’y introduit l’action simultanée du droit naturel et du droit des gens, ainsi que les régimes juridiques apparemment incompatibles qui en dérivent» (1983, 6). Come mostrerà Haggenmacher, lo ius belli tradizionale in Grozio si combina con «un double système de sources du droit et de droits subjectifs» tra i quali vi è una «relation héréditaire» evidente, per quanto «complexe et différenciée» (ivi, 615).

5. Dainese 2022a. A quanto mi consta, si tratta di un vero e proprio hapax.

6. È il paradigma con cui la letteratura storico-giuridica ottocentesca – in modo esplicito a partire da Kaltenborn 1848, che considera uno spettro di trattatisti da Giovanni da Legnano a Sigismund Crass, e almeno sino a Nys 1882 – consegna al Novecento una serie di autori tra cui figura anche Balthazar Ayala, di cui tratto in questa sede (anche infra, nota 12).

7. Haggenmacher 1983; Feenstra 1984 e 1996; Tuck 1999; Nellen 2007; Straumann 2007; Focarelli 2014; Lesaffer e Nijman 2021.

8. Sulle paternità di Grozio, Bourquin 1948, Grewe 1984, Ziegler 1987. Anche Prodi 2000, 359-60.

9. È una delle interpretazioni della recente storiografia sulla natura della Guerra dei trent’anni e che fa capo, fondamentalmente, al contributo di Johannes Burkhardt (Burkhardt 1992, 1997 e 2018, per una discussione, Dainese 2022b, 166-67).

10. Fraga Iribarne [1947], 54, che ne corregge, sostanzialmente, la data di morte (il 16/8 in luogo dell’1/9 supposto da Nys).

11. E, assieme a Schmitt (1950), si potrebbe dire, anche l’intera storiografia tedesca successiva.

12. Come tale, infatti, viene diffuso Ayala nella traduzione, corredata di commento, in lingua inglese di Westlake e Pawley Bate della collana diretta da James Brown Scott dei Classics of International Law (Westlake e Pawley Bate 1912; si tratta della prima edizione in lingua moderna, quella successiva sarà la traduzione spagnola a cura di Fraga Iribarne, soltanto nel 1947, Fraga Iribarne 1947). Anche supra, nota 6.

13. [Burman] 1727, 35: «Legi scriptum fratris tui super pace», sul quale Filippo de Ayala aveva chiesto un parere che, contestualmente, Lipsio fornisce.

14. La definizione di questo conflitto, storiograficamente, è problematica. Gli studiosi, in generale, denominano l’insieme delle guerre per l’indipendenza dei Paesi Bassi “Rivolta olandese” (è doveroso ricordare però almeno Parker 1977 per questa definizione) o “Guerra degli ottant’anni” a seconda che ci si concentri sugli inizi oppure sull’intera cronologia dei conflitti. Rimando a Pollmann 2009 e 2020.

15. Cui fa da corredo un parallelo nell’ambito della letteratura critica (fa specie che Ayala non figuri in Decock e Oosterhuis 2021). Si consideri che ad Ayala è stata dedicata una sola – piuttosto breve – monografia (Peralta 1964, esito della rielaborazione della tesi dottorale difesa alla Complutense, Peralta 1953), se si eccettuano le due traduzioni moderne del De iure et officiis bellicis et disciplina militari. Va ricordata anche la memoria di Fraga presso la Escuela Diplomática del Ministerio de Asuntos Exteriores (A.A. 1946-47, Fraga Iribarne [1947]).

16. In particolare, De Benedictis 2019, 204-6 (su Ayala e la ribellione di Messina); Clerici 2018 (per il ruolo di Ayala come mediatore, a Molanus, di Bodin); Dusensbury 2022, 314 (per la ricezione di Ayala in alcuni giuristi e canonisti coevi; questo titolo, mentre lavoravo alla presente ricerca, era ancora in corso di stampa: ringrazio il general editor Marco Sgarbi per avermene trasmessa una anteprima di stampa); Dainese 2024 c.s. (per una rassegna sulla lettura di Ayala tra fine XVI e XVIII secolo, a questo lavoro rimando anche per le critiche di Francisco Suárez, come pure per il caso di Jean Bodin, cui comunque farò cenno anche infra, nota 38). Sull’importanza storica di Ayala, Quaglioni 2004a, 2007 e 2013 (anche Gil 2020).

17. A partire da Peralta 1964 sino a Gil 2020 e, si può dire, è un po’ al cuore anche del contributo di Carl Schmitt (1950, 179-82) il quale, come si è detto, ha avuto un ruolo decisivo nella riscoperta novecentesca di Ayala.

18. Lo mette chiaramente in evidenza Gil 2020, 250, il cui proposito, del resto, «es el retomar la obra de Ayala y hacerla centro de atención, en un estudio […] que va a primar su libro primero, aunque sin descuidar los otros dos».

19. Quaglioni 2013, 143-4 e infra. Precedentemente (e contra), Ilari 1981, 54-6.

20. Tema che poi, nel terzo libro, occuperà prevalentemente i capp. 2-7.

21. Tema al quale il terzo libro dedicherà un capitolo (il III 8).

22. Nel terzo libro, i capp. 9-19.

23. Infra, è il testo sotto riportato, quello di I 2,14.

24. Sul concetto di executio iurisdictionis in Ayala, Quaglioni 2013, 141. Questo precipuo punto è ciò che, nei Prolegomena al De iure belli ac pacis, Grozio contesta ad Ayala (Todescan e Arici 2010, 130; Dainese 2024 c.s., nota 60).

25. Di nuovo, Quaglioni 2013, 141-2.

26. Quest’ordine non corrisponde a quello dell’esposizione di Ayala che, invece, è piuttosto tradizionale, Quaglioni 2007, 209-10 e 2004a, 462. La dimensione territoriale che emerge da quest’ultimo punto è tutt’altro che marginale: al netto delle questioni classiche, legate alla nozione di occupatio bellica (per cui rimando a Dainese 2022a), in relazione allo specifico concetto di patria, MacColl 2006, 251-3; Nicholls 2021, 186-7.

27. A tal riguardo mi pare rilevante quanto emerge da Von Friedeburg 2001, 357-60 e 378-82, per il caso dell’Impero e da Nicholls 2021, 211, per la Francia. Al netto delle debite differenze, per entrambi i contesti mi sembra di poter ravvisare un processo di partizione e di successiva ricomposizione, ma a partire da nuovi presupposti, della Respublica christiana medievale.

28. Nel complesso il termine ricorre trentaquattro volte: I 2,17; I 2,21 (2 occorrenze); I 2,22 (5 occorrenze); I 5,22; I 6,8; I 6,15; I 7,9; II 1,8; II 1,9 (5 occorrenze); II 1,10 (3 occorrenze); II 1,12; II 1,15; II 8,5; II 8,11; II 8,12; III 5,6; III 7,12; III 9,4; III 12,1; III 13,7; III 18,1; III 18,5; III 18,6.

29. La posizione di Ayala, comparata al caso imperiale e a quello francese, da quanto mi consta è molto prossima a quella dei riformati francesi delle guerre di religione (Nicholls 2021) e diametralmente opposta a quella che per Von Friedeburg è la formulazione del diritto di resistenza all’interno dei territori dell’Impero (2001, 363-4). Nella concezione ayaliana del regno di Spagna, per la quale il principio dinastico è inderogabile (alla stregua di come lo è per i riformati francesi di Nicholls 2021 196-7 e 207), è ravvisabile il tentativo di costruire un soggetto giuridico confessionalmente legittimato a proteggersi da una minaccia che necessariamente viene percepita come esterna (Von Friedeburg 2001, 364).

30. Come si vedrà nel brano sotto riportato (II 1,9), il sacrificio di sé è sempre condizionato, si res ita postulat, preciserà Ayala.

31. È opportuno rammentare che Ernest Kantorowicz aveva già mostrato come il motivo ciceroniano del pro patria mori, nel corso del Medioevo, diviene fondamentale per rideclinare il concetto di corpus mysticum (1951, 487; 1957, 199-233). Si tratta di un processo di trasformazione, in un contesto storico segnato dalle crociate, della logica feudale, a riprova del fatto che la guerra giusta non è, nel Medioevo, appannaggio esclusivo della canonistica e della teologia, come correttamente aveva dimostrato Frederick Russell (1975, 40-54; sull’importanza, per lo più sottostimata, del diritto feudale per il dibattito sulla guerra giusta nella prima età moderna, Quaglioni 1978 e 2004b). Ora, per quanto rileva in questa sede e allo scopo di seguire il modo in cui cambia l’idea di impero, vale la pena registrare, in tale cornice, che in Enrico di Gand (Fioravanti 2002, 645-7), nel 1286, il corpus mysticum, pro quo è necessario mori, ha già tutte le caratteristiche di quella lex universalis che, come aveva mostrato Ken Pennington (1993), dirige e vincola l’arbitrio del princeps dall’Ostiense a Jean Bodin.

32. Espresso dal se devovere.

33. Come c’è una gerarchia nella severità della pena – non tutte le pene sono capitali – così, di converso, ci si aspetta una analoga gradualità nel sacrificio di sé. Dacché vi è un parallelo nelle coeve trattazioni del matrimonio, che in Ayala non concerne tuttavia la differenza clero/laico (la disciplina del comportamento di sacerdoti o religiosi è in III 4,4 relativa alla loro esenzione dal servizio militare), è necessaria una puntualizzazione (ringrazio Fernanda Alfieri per questo suggerimento). Ayala in proposito è tendenzialmente vago, perché il tema del sacrificio di sé, come si dirà tra breve, non è mai messo a fuoco in modo esplicito. Tuttavia, proprio questo passo di II 1,9, in cui si distinguono in una chiara climax verberatio/vincula/praelium/vulnera/mors, lo lascia in effetti supporre in modo evidente.

34. Infra.

35. Vi è, direbbe Friedrich Meinecke, un momento etico e non giuridico, al cuore del principio della ragion di stato, che considera l’annientamento della minaccia per l’esistenza dello stato come il suo massimo compito (Meinecke 1957, 498-9 e 510).

36. La schmittiana Hegung (Schmitt 1950, 65) che traduce 2Ts 2,6-7.

37. Coerenza che la storiografia novecentesca e successiva, concentrandosi sul problema della guerra giusta, ha tendenzialmente sempre cercato di leggere in Ayala: Focherini 1912, 34; Nussbaum 1949, 410-1 (per la mia scelta di quest’edizione inglese rimando a Dainese 2024 c.s., nota 202); più dettagliato Peralta 1964, 71-118; molto lucidi Dickmann 1971, 127-8, Wolff 1990, 182-4 (la guerra giusta è l’effetto giuridico dell’autorità del principe) e Grewe 2000, 208 (per la mia scelta della traduzione di Grewe nell’edizione inglese del 2000 rimando a Dainese 2024 c.s., nota 192); Wijffels 2011, 44; soprattutto Gil 2020, 252-8, che fa davvero il punto definitivo sul tema.

38. Pennington 1993, 269-90. Il rapporto tra Bodin e Ayala (supra nota 16) presenta difficoltà e profili d’interesse tuttora aperti. Se da un lato Bodin è una auctoritas evidente per Ayala, come tutti gli studi su Ayala hanno sin qui rilevato, dall’altro è possibile ravvisare nel Bodin dell’edizione latina del De republica (del 1586) una presa di distanza da alcune posizioni di Ayala. Si deve questa intuizione alla scuola di Diego Quaglioni, in specie messa a punto nella tesi di laurea discussa presso l’Università di Trento nell’A.A. 2013-14 – inedita e smarrita per ragioni tecnico-amministrative – da Marta Morreale, che ringrazio per avermene trasmessa copia in pdf. Rimando a Dainese 2024 c.s., nota 71, per una discussione.

39. Come afferma chiaramente in I 2,25.

40. È particolarmente esplicito in II 1,12: Praeclare etiam Fulvium senatoris filium, ad Catilinam proficiscentem, retractum ex itinere iussit parens necari. Qui vero patriam prodit, criminis laesae maiestatis reus est.

41. Supra.

42. Il sostantivo sacrificium ricorre soltanto una volta, a proposito del rito sannita in occasione di un giuramento solenne (III 5,5); Ayala sembra preferire il verbo devovere (come si è visto sopra in II 1,8 e così anche in I 6,14). A proposito di III 5,5, in ogni caso, vale la pena riportare per intero la descrizione, che Ayala legge in Livio, del giuramento sannita. Admovebatur altaribus miles, racconta Ayala, magis ut victima, quam ut sacri particeps […]. Deinde iurare cogebatur, diro quodam carmine in execrationem capitis, familiae et stirpis composito, nisi isset in praelium quo imperatores duxissent: et si aut ipse ex acie fugisset, aut si quem fugientem vidisset, non extemplo occidisset. Idque abnuentes iuraturos se obtruncabantur circa altaria: iacentes deinde inter stragem victimarum, documento ceteris fuere ne abnuerent.

43. Al netto, tuttavia, della citazione di 1Mac. 3,19 che compare proprio sul frontespizio dell’edizione del 1582 e di quella del 1597 (non in multitudine exercitus victoria belli, sed de coelo fortitudo est), che, quanto meno, fa riflettere sull’importanza del tema in un trattato, del resto, che non è scritto da un teologo.

44. Su questi passi la letteratura sovrabbonda. Per un orientamento, Scattola 2007, 35-41.

45. Citazione scritturistica che, nel complesso, ritorna almeno altre tre volte dacché il passo ricorre anche in: I 2,12 (testo di estrema importanza, in cui Ayala definisce iustissima la causa della soppressione dei ribelli, Peralta 1964, 88; Wolff 1990, 184-5; Gil 2020, 264: Iustissimam denique belli causam habet princeps, qui armis persequitur rebelles […]. Non est enim potestas, nisi a Deo, et qui resistit potestati, ut inquit Paulus, Dei ordinationi resistit), I 2,33 (a proposito del Reddite Caesari di Mt 22,20-21: Quod et Paulus Apostolus planissime expressit, cum ait: Reddite omnibus debita, cui tributum, tributum, cui vectigal, vectigal, cui timorem, timorem, cui honorem, honorem. Di qui, prosegue: Ex superioribus quoque colligere licet, quod quae hactenus de iustis belli causis dicta sunt, magis ad equum et bonum, et viri boni officium, quam ad iuris effectus referri debent. Cum enim summis tantum principibus, qui superiorem non habent, belli gerendi ius sit, de aequitate causae disceptare non convenit. [34] Hinc certo modo iustum poterit dici bellum, etsi non ex iusta causa geratur) e I 6,8 (sull’impossibilità per i nemici ingiusti di avvalersi dei diritti di guerra, che, come nota Peralta 1964, 90-3, corrisponde all’estensione del concetto bodiniano e radicato in Cicerone, off. III 29,107, di briganti e pirati: Cum iniusti sint hostes, iure belli agere non possunt, ut inquit Cicero, iusta causa videri potest adversus patriam arma capiendi; et per consequens, adversus principem qui est communis omnium parens: quisque potestatem, quam habet, a Deo accepit).

46. CC-COGD3, 102. Per la storia di questo decreto rimando a Jedin 1975, 273-326. Sulla rilevanza del decreto nella recente letteratura sulla dimensione politico-religiosa del sacrificio in età moderna, Strenski 2002, 2.

47. Con ciò faccio mia la tesi delle “aree di belligeranza”, per la quale rimando a Dainese 2022c, 823.

48. Dainese 2024 c.s. e supra, nota 16.

49. Innanzi a Grozio, ricorda Henk Nellen, «modesty is imperative» (2007, 3).

50. L’espressione «cristianità in frantumi» è mutuata dal titolo della traduzione italiana del libro di Mark Greengrass Christendom Destroyed, Greengrass 2015 (ed. it. 2017).

51. Il presente contributo rientra nell’ambito del progetto PRIN 20179JL8WR, «Sacrifice in the Europe of the religious conflicts and in the early modern world: comparisons, interpretations, legitimations». Mi è doveroso ringraziare: Angela De Benedictis, per i suggerimenti offerti in occasione di una rielaborazione del presente articolo successiva al seminario dell’unità bolognese del PRIN, nell’ambito dell’edizione 2022 di EuARe; Cristiana Facchini e Fernanda Alfieri per la lettura della sua versione semi-definitiva.