Storicamente. Laboratorio di storia

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Simona Troilo, “Pietre d’Oltremare”

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Simona Troilo, Pietre d’Oltremare. Scavare, conservare, immaginare l’Impero (1899-1940). Roma-Bari: Laterza, 2021. 336 pp.

Agli occhi dell’archeologo di oggi, il volume di Simona Troilo presenta un interessante spaccato di vita e di sfaccettature sulla pratica archeologica italiana degli inizi del ‘900 nei territori stranieri in cui l’Italia operava, ma anche delle loro ricadute interne. La prospettiva della storica contemporanea non è incentrata sulla ricerca archeologica intesa nei suoi caratteri metodologici o sulla storia degli studi: Troilo è infatti interessata a mettere in luce le complesse dinamiche che, sottostando alla pratica archeologica ma anche emergendo in modo evidente nella corrispondenza e nella carta stampata, portarono a inserirla in un vasto quadro di ideologie e rapporti socio-politici che vanno ben oltre gli scavi e le scoperte. In tale panorama, le antichità e i reperti assumono quindi il ruolo di testimonianza concreta nei confronti delle istanze che i loro scopritori perseguivano, in una prospettiva estremamente complessa di intrecci politici e bellici in un momento storico di estrema importanza.
Il primo capitolo descrive l’origine del rapporto tra nazionalismo italiano e disciplina archeologica. Esso va cercato nell’insediarsi delle ricerche archeologiche a Creta nel 1899 e nei risvolti con i quali queste ultime sono state descritte sia nei documenti privati tra i protagonisti dell’epoca sia nelle pagine dei quotidiani. È interessante l’uso che, di queste fonti, viene fatto da parte dell’autrice: Troilo mette in evidenza i caratteri dei vari protagonisti, espone i dialoghi rendendoli vividi e facendo emergere i sentimenti talvolta celati o apertamente dichiarati dalle parti in causa. L’importanza della comunicazione non è analizzata solo attraverso le parole, ma anche grazie allo studio delle fotografie di scavo, la cui preparazione e creazione non è mai casuale. Di grande rilievo è il tema del rapporto con l’élite cretese, che vide nella ricerca archeologica e nei suoi risultati il modo per sottolineare la propria appartenenza alla cultura europea. Il tema della volontà imperialista italiana emerge con forza, portando a una mescolanza di piani che miravano a celebrare l’Italia e le capacità tecniche dei suoi archeologi, a metterne in risalto le qualità e a sottolineare il ruolo centrale che la nazione aveva avuto sin dall’antichità in territori lontani.
Il nazionalismo e la volontà di riallacciare legami antichi forniscono il punto di partenza del secondo capitolo, dedicato all’evoluzione della pratica archeologica condotta dall’Italia nel Mediterraneo. Il luogo di interesse è la Libia dove, a partire dal 1910, le istanze che si erano alimentate nei dieci anni precedenti si riversano su un territorio sconosciuto. L’esplorazione divenne conquista armata e l’archeologia si dovette confrontare con la guerra e le sue forme. La Libia divenne il luogo per la celebrazione della Roma antica, descritta come conquistatrice e portatrice di civiltà, i cui resti architettonici indicavano la necessità per l’Italia di rivendicare gloria e onore. Un ruolo fondamentale venne affidato di nuovo ai mezzi di comunicazione e due esempi, che Troilo propone, evidenziano la forza della propaganda mediatica: la scoperta del pavimento mosaicato di Ain Zara (1911) e la successiva scoperta della statua di Venere a Cirene (1913) diedero adito a una narrazione che mescolava le istanze del nazionalismo con quelle del paternalismo, indicando una matrice comune tra l’opera e l’Italia e sottolineando come questa richiedesse di essere riconosciuta e rivitalizzata. Di qui, l’idea di distruggere tutto ciò che non era considerato puro o civile, per liberare le antichità. Oggi siamo convinti della necessità di salvaguardare e valorizzare tutte le testimonianze del passato, ma il processo per arrivare a questa consapevolezza non è stato lineare.
Il tema del legame storico-culturale si mescola con quello dell’eroismo nel terzo capitolo, in cui Troilo descrive l’atteggiamento italiano nel Dodecaneso a partire dal 1912 e, in particolare, a Rodi. Il punto centrale del capitolo riguarda l’istituzione del Museo archeologico di Rodi e il ruolo di Maiuri, ma all’inizio tornano alcuni aspetti già visti a Creta: il legame profondo tra Rodi e l’Europa, l’oppressione del governo turco e la barbarie della popolazione locale. Un aspetto molto negativo della conquista italiana era la distruzione, da parte dell’esercito, di testimonianze antiche: Troilo sottolinea le differenze tra Libia e Rodi, ponendo l’attenzione sul fatto che la situazione dell’isola fosse drammatica a causa della mancanza di pianificazione delle attività e della volontà di preservare. Gli archeologi riuscirono a ottenere le concessioni di scavo ma, facendo leva sui concetti di onore della Patria e necessità di prestigio per la scienza italiana, poterono anche spedire in Italia molti oggetti. Ciò portò alla reazione dell’opinione pubblica greca, che scatenò polemiche in merito all’atteggiamento degli italiani, fino a quando non venne istituito il Museo nel 1914, che divenne un’istituzione coloniale prima che la colonia esistesse.
Il quarto capitolo riguarda il periodo del regime fascista e il suo rapporto con l’archeologia, i territori extra italiani e coloro che ci lavoravano e vivevano. Il compimento in senso imperialista dei movimenti che sono stati descritti in precedenza è ormai evidente: se rimangono delle zone d’ombra in merito alla gestione del rapporto fra il centro e le colonie, la gerarchizzazione delle strutture istituzionali diventa più chiara. Inoltre, il ricambio generazionale contribuisce ad accentuare le tensioni, soprattutto in ambito libico, dove gli scavi e le ricerche si eseguono su vasta scala. La ripresa dell’ideologia razziale in base alla quale gli abitanti autoctoni non comprendevano le testimonianze antiche viene riproposta. Il linguaggio scelto da Troilo per descrivere numerosi fenomeni, fra cui la mediatizzazione delle pratiche archeologiche e il turismo coloniale, è estremamente moderno: si tratta di temi attuali e mai scontati, come il turismo coloniale, i convegni archeologici, le iniziative che servivano a mostrare le capacità tecniche degli studiosi italiani.
Il volume di Troilo costituisce un punto di riflessione profonda, poiché evidenzia come la pratica archeologica sia stata spesso usata per fini che non hanno nulla (o quasi) a che vedere con la ricerca scientifica; dimostra che la visione dell’antico può essere distorta, attraverso l’azione dei mezzi di comunicazione e delle immagini; mette in luce le profonde differenze tra la “versione ufficiale” dei fatti e quella reale. Per ciò che riguarda la pratica archeologica, si rileva che l’analisi proposta da Troilo è condivisa da altri, ma una riflessione estesa sul rapporto tra archeologia e dinamiche politico-sociali manca in molti contesti. Si cita, per brevità, uno dei contributi che ha gettato maggiore luce sulle dinamiche di lavoro fra inglesi ed egiziani, cioè Stephen Quirke, Hidden Hands: Egyptian Workforces in Petrie Excavation Archives, 1880-1924, London, Duckworth, 2010: questo volume rappresenta un ottimo appoggio al discorso del rapporto fra italiani/archeologi e manodopera locale.
Simona Troilo dimostra che la prospettiva di una storica può fornire elementi fondamentali all’archeologia, che non è semplicemente da indagare nel suo sviluppo metodologico, ma quale parte integrante di movimenti ideologici intrecciati con la storia. La riflessione non appare racchiusa in decenni che appaiono distanti per il clima politico e culturale che li interessava. Viene da chiedersi, infatti, quanto di questo modo di agire sia ancora presente, magari involontariamente, nelle ricerche che vengono condotte oggi e quale uso si faccia della disciplina, dei suoi metodi e dei suoi risultati. Riflessioni, queste ultime, che forse esulano da quanto Troilo ha voluto discutere e mostrare, ma che mostrano la ricchezza dell’opera e i tanti spunti che contiene.