Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Le rievocazioni storiche, la ricerca dello svago e il regime fascista: il Palio di Asti e Siena

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Abstract

This article analyse, through a comparison of two italian historical reenactments, the Palio of Siena and that of Asti, the strategy of using local history in the propagandistic and aesthetic sphere of the fascist regime. In particular, the work will focus itself on the rivalry that developed between Asti and Siena for the legitimization of their own reenactments, as rooted in continuous history. Asti’s recourse to the Sienese model involved a growing controversy that the regime resolved by conferring the monopoly of the term “palio” to Siena. The analysis aims to show how the model of the historical exhumation did not provide guarantees regarding the manteinance of its aesthetic content, let alone could achieve its educational-anthropological purpose by grafting on the community a series of lasting historical memories, symbols, and aesthetic apparatuses. The local community seeks, in historical reenactments, a passtime and a form of aggregation and novelty, quickly putting aside the whole ceremonial complex and the series of historical reminders inserted on by the local administration and organs of the regime. Historical reenactments, then, does not seem to be able to survive solely through the recovery of perennial historical characters, as the regime believed.

Il fascismo e l’utilizzo della storia medievale e rinascimentale

Il regime fascista diede grande risalto alla celebrazione di quelle «pratiche […] dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità nel passato» (Hobsbawm e Ranger 2022, 3). Questa definizione di Hobsbawm si può inserire nell’ambito delle manifestazioni tradizionali italiane durante il ventennio del fascismo, in quanto considerate, e propagandate, come frammenti vivi e mai corrotti della storia nazionale. Tale concezione era unilateralmente adoperata sia per manifestazioni che effettivamente erano rimaste ininterrotte nel corso dei secoli, sia per quelle che invece erano state, per usare un termine sempre di Hobsbawm, “inventate” o – nel caso qui analizzato – recuperate. In entrambi i casi, il collante propagandistico e simbolico era costituito dal perfetto giustapporsi di una manifestazione storica di età moderna in un collegamento diretto e immediato con il passato rappresentato.

La continuità con il passato era vista come l’elemento legittimante principale di una rievocazione, e in questo senso si mossero sia gli organi del regime sia i singoli promotori di alcune celebrazioni storiche.

L’intensa attività politica a favore delle rievocazioni era provocata dalla ricerca della legittimazione del fascismo, il quale intendeva, da una parte, porsi come regime rivoluzionario, in segno di rottura con la cultura tardo-ottocentesca liberale, e, dall’altra, rimanere ancorato alla tradizione. L’orientamento in politica culturale del regime si rifletteva anche nelle scelte di studio dei maggiori storici dell’epoca, come Gioacchino Volpe, i quali, per quanto riguarda l’età comunale e le signorie rinascimentali, svilupparono ancora i metodi e le impostazioni teoriche della scuola economico-giuridica, pur inserendo delle modifiche che risultarono decisive per lo sviluppo della cultura storica nazionale. Il sistema comunale veniva pertanto analizzato da alcuni storici, tra cui Francesco Ercole, come il periodo in cui l’Italia nacque a livello culturale, con particolare enfasi su figure come Dante o Giotto. A livello politico, invece, il comune era considerato un fenomeno fallimentare, che doveva necessariamente portare alla vera forma moderna di stato: la signoria (Rao 2020, 90). L’avvento della signoria coincideva con un processo culturale che, nella teoria ercoliana, aveva spinto le masse a scegliere un nuovo metodo di sovranità politica. Tale approccio voleva quindi escludere la trattazione della scuola economico-giuridica di un processo di passaggio da comune a signoria che si incentrava sui conflitti politici e sulla lotta di classe (ivi, 91). Il messaggio che trapelava da tali studi voleva perciò creare una sorta di eredità tramandata di secolo in secolo, la quale era rimasta immune alle lotte intestine e alla decadenza provocata dai domini stranieri. Tale tradizione, sia culturale che politica, veniva poi “consegnata” simbolicamente proprio al fascismo.

Nella prima metà degli anni Trenta si verificò l’acme della proliferazione di manifestazioni rievocative patrocinate dal Pnf. Questo sforzo aveva come movente la necessità del regime di legittimarsi come movimento legato alla tradizione storica e culturale italiana, non configurato alla rottura con essa: le teorie storiche accennate in precedenza fornivano quel sostrato teorico di cui necessitava il fascismo. Le riesumazioni di rievocazioni storiche, di conseguenza, facevano parte di un tentativo politico che, come sostiene George Mosse, «faceva appello ad aspirazioni già radicate, e che cercava di ipostatizzarle mediante il mito, il simbolo e l’estetica della politica» (Mosse 2019, 299) [1]. In questa ricerca di ciò che costituiva il patrimonio “spirituale” dell’Italia gli intellettuali fascisti trovarono nel retaggio storico medievale e rinascimentale, rimasto integro soprattutto nelle province, i veri depositari dello spirito nazionale (Ben-Ghiat 1996, 310). Un elemento che non va trascurato nella definizione dell’interesse del regime per la storia resta, chiaramente, l’eredità di Roma. Un giovane Momigliano riteneva che l’Italia avesse sempre posseduto una propria “unità nazionale”, e che solamente in seguito alla caduta dell’impero romano avesse potuto cominciare la faticosa ricerca di una forma politica di espressione di tale coesione (Turi 1979, 189). Volpe delineò ancor di più l’idea di un’unità nazionale italiana legata a Roma inserendo come suo erede spirituale il Papato. Quest’ultimo, infatti, fu l’appoggio fidato di un’Italia «politicamente divisa, ma unita nella cultura», che vedeva il perfetto strumento di svolgimento di una «funzione nazionale e italiana» (ivi, 190). La teoria di Volpe influenzò molti storici dell’epoca, e il regime stesso profuse sforzi propagandistici per ottenere la propria legittimazione come erede di una lunga tradizione di storia unitaria nazionale. Al contrario, la teoria storica di Francesco Ercole, che vedeva nel regime una rivoluzione rispetto alla storia liberale e al Risorgimento, non venne sostenuta dai vertici fascisti, i quali scelsero quella unitaria di Volpe. De Bernardi sostiene che l’idea politica dietro la scelta della tesi volpiana concepiva la storia dell’Italia come una «sorta di antefatto del fascismo, che in quest’ottica appare come il risultato implicito dell’Unità nazionale» (2008, 13). Lo stesso Volpe aveva teorizzato che il Risorgimento fosse in potenza nella storia italiana, e che non fosse scaturito da particolari eventi, come l’invasione napoleonica dell’Italia o il 1815, ma dallo sviluppo della borghesia e dalla presa di coscienza di dover uscire dalle problematiche municipali per arrivare a quelle nazionali (Turi 1979, 184). Da questa teoria storica e politica, qui appena accennata, si può meglio comprendere il dipanarsi della politica propagandistica nell’ambito delle rievocazioni storiche.

In questo senso è stato efficacemente documentato [2] come il regime avesse affidato all’Opera Nazionale Dopolavoro di Achille Starace una intensa campagna di riesumazione di eventi folklorici e tradizioni storiche. Il decennio degli anni Trenta fu denso di interventi di recupero, o di creazione ex novo, nei confronti di manifestazioni folkloriche e rievocazioni storiche, le quali dovevano avere una legittimazione tramite la continuità con un «passato opportunamente selezionato» (Hobsbawm e Ranger 2022, 4). Tale fenomeno, influenzato anche dalla necessità di attrarre turisti in località meno conosciute, e non solo nei grandi centri storici, intendeva utilizzare la propria, spesso inventata, eredità storica come prima base per una cristallizzazione e per il raggiungimento di una immutabilità da opporre agli sconvolgimenti della modernità. Il regime fascista sarebbe stato il garante della permanenza di valori storici in queste manifestazioni, in quanto interprete unico e manifesto dell’evoluzione futura italiana verso una modernizzazione basata su canoni morali e spirituali connessi alla memoria storica [3]. Mussolini, infatti, riteneva che uno dei capisaldi del suo lavoro di forgiatura della nuova italianità fascista consistesse nell’utilizzo di vecchie tradizioni per nuovi scopi (Mosse 2019, 25). I meccanismi della memoria storica, se adattati alla nuova realtà fascista, potevano fondersi con essa e garantire alle masse la capacità di immergersi senza difficoltà nel progetto antropologico fascista: nella stessa direzione andavano i grandi progetti culturali di Gentile. Il filosofo, a differenza di Croce, aveva preso in seria considerazione la gestione del problema dell’emergere delle masse nella vita politica nazionale (Turi 1979, 163). Le nuove tradizioni sarebbero state una fusione perfetta della secolare storia italiana con la nuova costruzione fascista; la perfetta riconciliazione tra tradizione e modernità (Griffin, Mallet e Tortorice 2008, 91). I progetti legati alle rievocazioni storiche andavano, pertanto, nella direzione delle strategie sia politiche sia culturali del regime.

Per poter controllare questo processo educativo e antropologico il Pnf cercò fin dalla fine degli anni Venti di creare organismi di controllo delle tradizioni popolari. Nel 1928 fu realizzato sotto il patrocinio dell’Ente per le Attività Toscane un Comitato Nazionale per le Tradizioni Popolari (Cntp) (Cavazza 1987, 109). Tale Comitato doveva, nelle intenzioni originarie, cercare di promuovere le iniziative e gli studi dei demologi, arrivando a comprendere sotto una sola organizzazione tutti gli studiosi italiani della tradizione. L’aumento di associazioni per lo studio del folklore erano viste dai regimi nazionalisti come una fonte d’informazione sul comportamento collettivo di una nazione (Geertz 2019, 283). Ma il primo presidente del Cntp, Paolo Emilio Pavolini, ebbe serie difficoltà a coinvolgere il Comitato nell’apparato burocratico e decisionale del regime, testimonianza di uno scarso interesse del fascismo verso i demologi (Cavazza 1987, 109). Questo episodio può già mostrare come il regime intendesse impostare i rapporti tra le varie entità che si rivolgevano alle rievocazioni storiche, preferendo un monopolio centralizzato dell’Ond rispetto a una delega di poteri ad altri organi. Tale strategia valeva anche per le celebrazioni medieval-rinascimentali.

Il forte interesse del Pnf verso tali manifestazioni implicava che il fascismo non volesse limitare al solo mito della romanità la propria legittimazione: le rievocazioni storiche erano viste come un altro piedistallo su cui erigere il mito nazionale fascista [4]. Il medioevo veniva considerato dalla propaganda del regime, come già accennato in precedenza, un momento topico nella storia d’Italia, dove si erano formate quelle capacità guerresche e di attaccamento alla patria che rendevano le varie comunità locali orgogliose. Inoltre, le celebrazioni dello spirito di indipendenza delle città medievali italiane [5] contro ingerenze straniere avevano contraddistinto una buona parte del mito del Risorgimento italiano (ivi, 208) [6]. Si deve altresì riconoscere nella propaganda verso rievocazioni storiche medieval-rinascimentali una strategia delle autorità fasciste per accattivarsi le simpatie delle potenti classi aristocratiche di città dall’impronta medievale, in particolare in Toscana e Nord Italia.

Non va inoltre dimenticata l’attenzione posta al medioevo come età di creazione di una serie di valori cristiani propriamente italiani, sanciti dalla propaganda sulle figure di santi come Caterina da Siena e San Francesco d’Assisi [7]. Il cristianesimo era stato posto dai demologi come elemento unificante delle varie manifestazioni storiche italiane, diretto erede dei valori della Roma imperiale, cari alla retorica nazionale: esso era il fattore di continuità che univa tutte le tradizioni italiane sotto una linea evolutiva coerente [8]. Come illustrato in precedenza, anche gli storici avevano posto il papato come elemento di conservazione spirituale dell’eredità di Roma [9].

Il Rinascimento, invece, era visto come «il periodo di maggiore fioritura artistica del paese e di progresso verso l’unità della nazione, soprattutto dal punto di vista della coscienza culturale» (Cavazza 1997, 211). Esso era, secondo le teorie storiche di Ercole e di Arrigo Solmi, il periodo storico in cui l’assetto istituzionale moderno era riuscito a svilupparsi in Italia, soppiantando il fallimentare, ma solo dal punto di vista politico, esperimento comunale (Rao 2020, 93-4). Tale periodo storico era stato fin dall’Ottocento associato alle figure dei condottieri militari, i quali venivano impiegati dalle signorie per restaurare l’ordine e proteggerle dalle città o nazioni rivali. Questa semplificazione della figura dei capitani di ventura consentiva di rappresentare Mussolini stesso come un moderno condottiero, emblema della necessità storica di un eroe-tiranno di attitudini guerresche per risolvere gli atavici problemi italiani. Il mito dei condottieri rappresentava, dunque, una «parziale sopravvivenza del medievalismo risorgimentale, innestato e riadattato a nuova ideologia e alla sua nuova mitologia» (Iacono 2018, 57).

Su questa base ideologica, qui brevemente sintetizzata, si mosse il fascismo con i suoi apparati. Esemplare fu il trattamento riservato a una delle più famose rievocazioni storiche italiane: il Palio di Siena. Tale manifestazione era già celebre e catalizzatrice di intensi flussi turistici ben prima dell’avvento al potere di Mussolini. Fu però con il nuovo interesse propagandistico del Pnf che il Palio cominciò a suscitare molte più attenzioni, non solo a livello di amministrazione locale, ma anche nazionale. Il regime intravide subito nella corsa, e nel corteo storico che la precedeva, un importante mezzo di legittimazione. Come rileva Cavazza (1997), il fascismo assorbì le società di contrada [10], intuendo che esse avessero la potenzialità di poter meglio controllare la vita sociale municipale, lasciando tuttavia formalmente indipendenti le contrade. La figura del Magistrato delle Contrade, creata nel 1928, doveva fungere da perfetto mediatore tra mondo contradaiolo e regime. Le classi aristocratiche senesi, spesso formate da massoni e poco legate al fascismo, funsero anch’esse da intermediarie tra Pnf e città: esse furono attente a mantenere il proprio campo d’azione incolume dall’ingerenza del partito, avendo – come in altri casi di élites provinciali – supportato il regime per convenienza e non per reale trasporto ideologico e politico (Corner 2006, 219).

Palio di Asti

Il Palio di Asti rappresenta uno degli esempi più importanti del fenomeno della riesumazione di feste tradizionali ad opera del regime fascista. Documenti storici attestavano che in età comunale Asti aveva organizzato una corsa di cavalli per irridere la città assediata di Alba. Tale competizione si era poi mantenuta anche con la fine dell’indipendenza del comune piemontese: le autorità locali avevano sempre ottenuto la prosecuzione della tradizionale gara, disputata nel giorno dedicato al protomartire san Secondo, patrono di Asti. Il Palio venne però interrotto a partire dal 1863, a causa di alcuni cambiamenti strutturali apportati dall’amministrazione liberale, che ne provocarono la decadenza.

Il podestà di Asti, Vincenzo Buronzo, riesumò il palio nel 1929, cercando di renderlo più maestoso rispetto alla tradizionale corsa di cavalli. Vennero invitati tutti i Comuni della zona, per rendere fastoso il corteo in costume e la corsa più lunga e competitiva. Durante i sette anni in cui il Palio venne disputato, il podestà si prodigò per accrescere l’afflusso di visitatori, disciplinare la corsa, ottenere il beneplacito del regime fascista, e rendere il più imponente possibile la rievocazione. Il palio, ciononostante, seguì le sorti del proprio riesumatore: il nuovo podestà Domenico Molino [11], considerato poco vicino alla comunità astigiana, tagliò i fondi e la rievocazione storica divenne una corsa di cavalli disputata solo da pochi rioni di Asti. Venne ripristinato soltanto nel 1967, in occasione dell’800esimo anniversario della Lega Lombarda, e del 1000esimo anniversario della fondazione del Marchesato del Monferrato.

Il Palio di Asti venne sempre considerato dalla propaganda una “rinascita” [12], e non una invenzione di una tradizione ormai persa. Agostino Barolo, in un contributo per la rivista Lares, parlava di una manifestazione che «risorge» , e che meglio esprimeva «il carattere, le ambizioni, la generosità, l’orgoglio di una razza» (1931, 54): proprio per questo motivo doveva interessare coloro che si occupavano di tradizioni. Come tale, doveva avere, al pari di quello senese, una intensa opera di propaganda intesa a porlo nel novero delle più importanti rievocazioni storiche italiane.

Buronzo stabilì l’uso di indossare abiti cinquecenteschi per i partecipanti al corteo, nonostante la festa fosse stata collocata cronologicamente nel medioevo. Questa decisione doveva accattivarsi il patrocinio dei Savoia. Infatti nel 1545 il principe Emanuele Filiberto di Savoia aveva confermato al nuovo possedimento della casata le consuetudini della festa patronale; era dunque logico assegnare alla monarchia il patrocinio della rinnovata manifestazione [13].

Il fatto che venisse affidata alla casa reale il controllo simbolico della manifestazione non implicava che il regime intendesse assumere un ruolo di secondo piano. Si notano, difatti, attestazioni di un carteggio tra Starace e Buronzo per cercare di trovare un’intesa sul ruolo che dovesse spettare all’Ond nel palio, essendo questo evento considerato come parte integrante dell’attività dopolavoristica per la valorizzazione delle tradizioni. In una lettera del 5 maggio 1931, Starace chiedeva a Buronzo che la rievocazione «fosse fatta sotto gli auspici di questa Opera Nazionale» [14]. Buronzo risponderà in maniera ambigua, rassicurando Starace che il Segretario Politico del Dopolavoro Comunale di Asti entrerà a far parte del Consiglio del Palio, ma sostenendo che la gestione del palio dipendeva, per tradizione, dal Comune di Asti stesso. In sostanza, il podestà sorvolava sulla possibilità di far parte del Comitato Nazionale Ond, e quindi di sottostare all’egida del Dopolavoro, ma allo stesso tempo – forse come parziale accettazione delle richieste di Starace – accettava di inserire un membro del regime all’interno del Consiglio del Palio [15]. La risposta di Buronzo al segretario del Pnf non sembra un atto di sfida isolato, ma una modalità di gestione pubblica abbastanza diffusa nell’Italia degli anni Trenta. Questo carteggio si può comprendere alla luce degli studi di Paul Corner sul fascismo nelle province. Egli sottolinea come lo sforzo di burocratizzazione e di controllo totalitario svolto soprattutto da Starace si scontrasse, a volte, con una reticenza dei dirigenti locali a concedere eccessivi poteri a nuovi funzionari designati da Roma. Corner (2006, 202-3) sostiene che in molti casi i funzionari del Pnf non erano in grado di svolgere le mansioni loro assegnate, causando ulteriori frizioni nelle province [16].

Buronzo, inoltre, rifiutava anche un intervento di membri del Cntp, o di singoli demologi, nel Palio di Asti [17]. L’unico studioso a cui il podestà chiese pareri sul Palio, e la cui opera elogiò, fu Niccola Gabiani. Quest’ultimo, rinomato personaggio locale appassionato della storia di Asti, scrisse una opera storica, Asti nei suoi principali ricordi storici e, ciò che più interessava a Buronzo, un libro dedicato proprio al Palio di Asti, La corsa del Palio e la festa di S. Secondo in Asti; tale lavoro venne utilizzato dal podestà come legittimazione intellettuale della genuinità storica della sua rievocazione [18].

Tuttavia, l’influenza determinante dell’Ond si fece sentire nella gestione della propaganda e dell’afflusso dei visitatori ad Asti. I vari dopolavoro delle regioni circostanti, Liguria, Lombardia e Piemonte, inviarono numerose comitive di dopolavoristi, soprattutto dalle grandi città: Milano, Torino e Genova. Per una manifestazione appena rievocata, come il Palio di Asti, era dunque giocoforza ricercare tramite l’appoggio ad enti statali e privati la maggior partecipazione possibile. D’altronde il palio, nelle parole dello stesso podestà, doveva «accrescersi di anno in anno, farsi più pittoresco, più adorno, espressione viva e non coreografica della dignità, dell’ardimento, della fierezza ch’esso esprime e rappresenta» [19].

Buronzo dovette dunque ricorrere alle risorse dell’Ond e all’ingente bacino di visitatori che poteva mettere a disposizione: il prezzo, come spesso accadde in casi analoghi, fu quello di una costante richiesta di interventi, tendenti a imporre anche per Asti una inclusione in un modello più fascistizzato e dipendente dall’Ond.

I conflitti con Siena

La riesumazione di un nuovo palio in Italia non era di per sé un evento che potesse preoccupare le autorità senesi. Il problema per Siena risiedeva nella questione del modello estetico di riferimento, e nell’influenza codificante dell’Ond.

Il regime adottò fin dall’inizio delle sue politiche culturali un approccio che privilegiava l’inserimento di un modello basato sulla grande realizzazione scenica ed estetica, a discapito della veridicità di una determinata manifestazione. La creazione di una serie di grandi manifestazioni e rievocazioni doveva svolgere una duplice funzione: coordinare la creazione delle varie manifestazioni, rievocative e folkloriche, in modo da non generare una congestione negli stessi periodi dell’anno in una zona circoscritta [20], e allo stesso tempo arricchire la penisola di eventi rievocativi basati su modelli considerati di successo.

La rievocazione storica di riferimento era il Palio di Siena. La grande popolarità e l’ingente afflusso di turisti, stranieri e italiani, la rendeva come una sorta di manuale aperto, con le istruzioni per creare un modello di rievocazione storica che non si affievolisse mai; né materialmente, né a livello di memoria storica.

Il Palio di Asti non era un’eccezione in questa dinamica, ma lo sviluppo di un sottile antagonismo con Siena crebbe con l’aumento degli sforzi per stabilizzare e glorificare la rievocazione storica. I caratteri che rendevano la riesumazione di Buronzo molto simile al palio senese erano numerosi: il richiamo al medioevo e a un’origine guerresca della manifestazione, i costumi che si rifacevano al periodo rinascimentale, il corteo storico imponente, una serie di regole sempre più elaborate gestita da appositi organi. Allo stesso tempo, vi erano differenze che rendevano le due manifestazioni profondamente antitetiche. Il Palio di Siena era una competizione riservata esclusivamente a 17 contrade, senza stravolgimenti nel numero dei partecipanti, perlomeno in età moderna. Il Palio di Asti, al contrario, si aprì immediatamente alla possibilità di ricevere fantini che rappresentassero paesi della provincia, rendendo la corsa una serie di batterie eliminatorie prima della disputa finale. Il podestà si adoperò continuamente per invitare altri borghi del circondario, con l’obiettivo di rendere sempre più fastosa e impressionante la rievocazione. Non lesinò, oltre a ciò, appelli agli astigiani residenti in altre città o nazioni per realizzare opere di propaganda [21].

Proprio il fatto che Asti fosse aperta all’ingresso di numerosi comuni e frazioni del contado portava la rievocazione ad avere un’espressione estetica meno aristocratica, dovuta anche alle scarse risorse di molti dei borghi partecipanti [22]. Per non creare squilibri tra rioni o comuni più o meno abbienti si utilizzavano cavalli e fantini non professionisti [23]: un elemento che rendeva più dilettantesca la corsa dei cavalli, aprendo così la prospettiva allettante per molti città di poter considerare la possibilità di instaurare anch’esse un proprio palio. Questa eventualità faceva molto comodo ai progetti rivolti al turismo dell’Ond, il quale riteneva di poter replicare facilmente un modello di rievocazione storica evitando gli esosi sfarzi del palio senese: Asti poteva rappresentare, appunto, un esempio paradigmatico.

Un altro punto in cui si verificarono le prime frizioni con i senesi riguardava la gestione burocratica della rievocazione. Buronzo creò molto presto, nel 1931, un Consiglio [24] e i Magistrati del Palio. I senesi, gelosi dei loro organismi burocratici non meno che della loro manifestazione, non potevano osservare senza fastidio il replicarsi di una copia astigiana della macchina di gestione senese [25].

Per ottenere una definitiva legittimazione lo scontro, dialettico e simbolico, con Siena era inevitabile per Buronzo. Il suo palio necessitava del supporto di una eredità storica che riuscisse a tener testa alla tradizione basata sulla continuità del Palio di Siena.

Nel regolamento del Palio di Asti del 1931 si può leggere, a tal proposito, che esso «è esperienza di virtù guerriere e dello spirito di indipendenza e di libertà del Comune nelle vicende secolari della sua storia e tale deve conservarsi e durare» [26]. Il palio, ponendosi come fenomeno diacronico e duraturo, intendeva riannodare quel continuum storico che sembrava essersi spezzato con l’amministrazione liberale. Ma per garantire una sopravvivenza in tal senso Buronzo sceglieva di mettersi sulla scia di Siena.

Da questa determinazione di creare una storia del Palio di Asti si diramarono le mosse del podestà astigiano. Ad esempio, la creazione di un libro annuale dove registrare tutti i pali che si fossero svolti dal 1929 in poi rispondeva al bisogno di opporre una memoria alla lunga pausa storica della rievocazione astigiana: in tal modo si voleva anche scongiurare un ritorno nell’oblio, in caso di interruzione della manifestazione. Dal punto di vista senese, equivaleva a una affermazione del Palio di Asti come ugualmente storico e tradizionale rispetto a Siena. Un ulteriore esempio riguarda la propaganda prodotta ad Asti e rivolta al turismo, la quale tendeva a dipingere Asti come la «Siena del Piemonte»: entrambe le città, infatti, facevano rivivere tradizioni che erano «sigilli della Patria nella fiera anima dei Senesi e degli Astigiani, ai quali apporta ogni anno un fascino trecentesco la fantasiosa usanza del Palio» [27].

Una prova interessante della crescente rivalità tra Siena e Asti la si può rintracciare nel discorso tenuto da Buronzo durante una riunione del Consiglio del Palio per l’organizzazione della corsa del 1931. In un passo dell’orazione il podestà, nella descrizione del significato che riveste la rievocazione, lasciava «agli storici la discussione intorno alla priorità del Palio di Asti su quello di Siena perché, ciò che più conta, è che esista lo spirito della tradizione sempre conservata e mantenuta» [28].

Pur volendo in qualche modo svincolarsi dalla discussione sulla primogenitura del Palio di Siena rispetto a quello di Asti, il podestà ammetteva la problematica insita in ciò. Per quanto egli cercasse di formalizzare storicamente il proprio palio evitando, perlomeno di facciata, il confronto con quello di Siena, la questione della legittimazione storica, del primato, permaneva e creava indubbiamente violenti dibattiti, non solo tra gli storici.

La crescente contrapposizione tra Asti e Siena venne esasperata anche dagli organi di stampa, i quali tendevano a inserire il palio astigiano in una sorta di competizione di storicità con quello senese. Ad esempio, il Corriere della Sera descriveva il Palio di Asti come la “più caratteristica solennità paesana, celebre quanto quella di Siena, alla quale contesta l’antichità dell’origine” [29].

La disputa tra le varie rievocazioni storiche che utilizzavano il termine “palio” e Siena, che si opponeva alla standardizzazione e alla replicazione seriale della sua rievocazione, raggiunse una definitiva conclusione con il decreto del Ministero dell’Interno del 1935, che riservava solamente a Siena l’utilizzo per la sua celebrazione storica del termine “palio”. Tutti gli altri pali, dunque, vennero ribattezzati in altro modo [30]. Nel 1935, come già accennato, si decretò la fine del Palio di Asti che, senza il suo potente patrocinatore, e senza più fondi né appoggi dal Dopolavoro, sparisce dall’elenco delle rievocazioni storiche fino al 1967.

Vale la pena esaminare le parole espresse dal podestà di Siena, all’indomani del provvedimento del Ministero dell’Interno. In una comunicazione alle contrade senesi, egli sostenne che la «fama mondiale» e l’interesse di «altissime personalità», oltre che di turisti italiani e stranieri, «ha però creato in altre città il desiderio dell’imitazione» [31]. Elencando i tentativi, a suo dire mal riusciti, di emulazione del Palio di Siena, il podestà inserì quello di Asti [32]. In definitiva, ciò che effettivamente creava il risentimento dei senesi nei confronti delle altre manifestazioni era il fatto che «per dare a queste riesumazioni colore storico e note di maggiore vivacità si usa attingere senza tanti scrupoli, alle norme che regolano il Palio di Siena» [33].

Con la consacrazione del predominio della rievocazione storica di Siena sulle altre manifestazioni, questa intensa stagione di creazione di celebrazioni tradizionali subì una brusca frenata. Nel caso di Asti, l’interesse che spinge la stesura di questo intervento sta proprio nell’analisi della repentina scomparsa, senza apparenti resistenze nemmeno nella comunità, della rievocazione storica astigiana.

La ricerca dello svago e l’utilizzo della storia

Osservando gli sforzi propagandistici profusi dal podestà e dalle autorità locali si nota come gli organi del regime riponessero enorme speranza nella capacità di utilizzare la riesumazione di valori storico-simbolici locali per garantire un costante appoggio della comunità provinciale alla sopravvivenza di una determinata manifestazione tradizionale. Se, da una parte, è impossibile non considerare come fondamentale l’ingerenza del regime nella fine della riesumazione di Buronzo, dall’altra è necessario analizzare il totale scollamento tra l’idea e i simboli portati avanti dalle autorità locali e i valori di apprezzamento estetico della popolazione.

Buronzo basò la sua ripresa del palio sul coinvolgimento emotivo ed estetico del maggior numero di fruitori possibile: per ottenere questo obiettivo ricorse a una propaganda basata sull’ammirazione per i fasti medievali e moderni di Asti. La memoria mai sopita della storia di Asti veniva intesa dal podestà, e dalle locali autorità fasciste, come un seme sempre pronto a germogliare nel ricordo degli astigiani. Fornire a questa memoria una sfarzosa rigenerazione doveva, negli intenti del podestà, creare quell’afflato sentimentale, quella forza rappresentata dalla presentificazione della storia locale, che avrebbe preservato il palio dall’oblio e dalla volgarizzazione. Da questo sforzo si arguisce il ricorso al modello di Siena: la rievocazione storica senese si era mantenuta integra fino al regime, e ciò la rendeva orgoglio cittadino. Il Palio di Siena, tuttavia, aveva la sua forza non solo nel continuum storico, ma anche nel processo di identificazione con la comunità cittadina (Cavazza 2002, 1). Siena restava, dunque, un unicum nel panorama delle rievocazioni storiche, e non un modello standardizzabile.

Non sembra che la dialettica di Buronzo sia solo mera propaganda: esaminando i discorsi del podestà di Asti si intravede una sincera convinzione di aver risvegliato definitivamente la passione per una espressione esteticamente grandiosa della propria storia. Tuttavia, egli riconosceva la necessità di forti sovvenzioni economiche per garantire al contado povero di partecipare: mancava ancora un forte contributo del turismo, come nel caso senese. Ma queste difficoltà iniziali non sembrarono intaccare la fiducia di Buronzo che le basi stabili della sopravvivenza della rievocazione fossero ormai state innalzate. In una lettera al principe Umberto di Savoia Buronzo sostiene che «Questa restaurazione ebbe la fortuna di risvegliare, nella popolazione astese e nelle circonvicine, quegli entusiasmi che già per tanti secoli avevano tenuta sempre vivissima ed acclamata la tradizione della geniale e nobile prerogativa astigiana» [34]. A tal proposito si nota anche negli organi di stampa l’affermazione che una solida base storica ed estetica, oltre a una serie di aiuti economici e politici [35], potesse attirare un numero crescente di spettatori, affascinati dalla magnificenza di uno spettacolo nuovo; gli astigiani, invece, si sentivano coinvolti dal palio in quanto manifestazione che richiamava l’orgoglio cittadino [36].

Lo sforzo profuso dal podestà Buronzo doveva mettersi in linea con le direttive nazionali riguardo la gestione delle rievocazioni storiche, e creare in tempi brevi un palio in grado di sopravvivere tramite l’apporto dei politici locali, in quanto espressione della volontà della comunità astigiana. Parlando in una trasmissione radiofonica da Torino nel 1931 Buronzo sosteneva a proposito del Palio di Asti: «si deve riconoscere che non si tratta già di una riesumazione artificiosa, coreografica, imposta dal di fuori per arbitraria volontà, ma si tratta di una forte e viva espressione della volontà popolare che ha ritrovato subito nella manifestazione del palio una delle maggiori forze morali della sua vita municipale e civile» [37].

Il palio, dunque, era emanazione della volontà degli abitanti di Asti e zone circostanti: il podestà e i suoi collaboratori, come moderni demiurghi, creavano la rappresentazione estetica e simbolica meglio confacente alla richiesta popolare. Ciò nondimeno, il ruolo assunto dalla storia venne travisato dalle autorità locali. Non era essa lo strumento principe della legittimazione e dell’eterna conservazione della manifestazione, ma era semmai una componente fondamentale dell’esistenza del palio: non l’unica, però. Ciò che la comunità locale richiedeva non era una rievocazione storica, né tanto meno il recupero specifico dell’antica corsa di cavalli di Asti: semplicemente ricercava svago e un evento che potesse dare risalto all’astigiano, facendo interagire differenti cittadine e borghi [38]. Se vista in questa luce la rievocazione storica manteneva indubbiamente un ruolo importante, in quanto fonte di fascino nostalgico e di orgoglio della comunità locale; tuttavia, non forniva quella legittimazione e solidità che auspicavano i vertici politici.

Diversa opinione in merito avevano i membri dell’Ond. Questi ultimi, in linea con le politiche culturali del regime, ritenevano che solo una efficace opera di propaganda potesse creare la stabilizzazione di cui necessitava il Palio di Asti. Ad Alessandria, l’Ispettore Generale dell’Ond, Silvio Versino, e il Segretario Generale del Pnf, Carlo Poggio, ritenevano che la manifestazione «deve trovare il completo appoggio attraverso le masse, affinché gli sforzi che i volonterosi organizzatori sostengono abbiano un esito soddisfacente» [39].

Il grande e imponente sistema scenico messo in atto dal regime non venne ritenuto dalla cittadinanza connaturato al palio stesso, e dunque soffrì della stessa fine che ebbe la rievocazione di Buronzo: una subitanea sparizione e volgarizzazione. Asti e i borghi vicini non si interessarono più del palio, né si prodigarono, tranne alcuni sgraziati tentativi, nel mantenere viva la rievocazione storica. La mancanza di fondi e di appoggio politico decretò la fine del Palio di Asti, che i cittadini lo volessero o no. La ricerca archivistica sembra dimostrare come scarse fossero le lettere di semplici cittadini, mentre molto fitto risulta il carteggio di Buronzo per cercare di creare un maggiore sforzo della cittadinanza verso la rievocazione; se confrontato con il volume di documenti presentati da cittadini senesi, pare giustificare la differenza presente nella percezione delle due rievocazioni tra le due cittadinanze [40]. Diverso discorso sembra trapelare dalla più ingente quantità di documentazione prodotta dalle autorità dei vari paesi del circondario astigiano, o di singoli intellettuali: in questo caso, si potrebbe ipotizzare che il Palio di Asti avesse riscosso successo più tra le élites che tra i singoli cittadini.

Questa analisi intende, come già esplicitato, focalizzarsi sulla grande opera di legittimazione simbolica e propagandistica profusa dal podestà, rilevando come il ruolo della storia in sé non potesse creare l’attaccamento della popolazione alla rievocazione. Un aiuto a confutare tale ipotesi potrebbe fornirlo il vero vincitore della contesa: il Palio di Siena.

Nel caso senese la forte rivalità tra contrade e il restringimento della manifestazione a patrimonio della sola città di Siena garantì la sopravvivenza, coadiuvata indubbiamente dalla benevolenza delle autorità locali e del regime, della rievocazione storica a livello pratico e simbolico. La critica del podestà di Siena, Bargagli Petrucci, non era certo fuori luogo quando, parlando di tradizione, riteneva che non si dovesse intendere «quella già spenta e ritrovata per pazienti ricerche negli archivi storici, ma quella creata dal popolo e dall’anima di tutto un popolo lontano e a noi venuta senza interruzioni e senza modifiche». E ancora: «Le Contrade e il Palio di Siena, si può affermarlo senza tema di esagerare, rappresentano la tradizione per eccellenza […] e che conserva integri il carattere e il significato per le quali è divenuta celebre» [41].

Il Palio di Siena, nelle idee delle autorità senesi, non legava la sua fortuna allo sforzo riesumante del Dopolavoro, poiché esso aveva già un suo continuum storico che ne garantiva la forte simbolicità e, di conseguenza, il suo successo. Tramite il monopolio del termine “palio”, Siena si pose come custode di una determinata rievocazione storica: quella del palio, appunto. Esso fu, perciò, riconosciuto dal fascismo come evento rievocativo originale e unico, indipendente da qualsivoglia ideologia o influsso moderno: nelle idee delle autorità senesi, il regime doveva solamente proteggere il Palio di Siena dalla standardizzazione e volgarizzazione di massa. Venne di conseguenza sancito definitivamente il rifiuto di Siena all’utilizzo indiscriminato del proprio modello per le rievocazioni medieval-rinascimentali.

Il fascismo e l’utilizzo della storia: cosa fallisce?

Ultimo punto che questo articolo intende affrontare riguarda il fallimento della convinzione del totalitarismo fascista di aver legato indissolubilmente le rievocazioni storiche alla propria ideologia. Il regime era sicuro di poter utilizzare le celebrazioni medieval-rinascimentali come efficace veicolo di propaganda. Dapprima il Pnf, e in seguito l’Ond, cercarono di coartare nella simbologia e nella celebrazione del fascismo le rievocazioni storiche già affermate, come il Palio di Siena. Successivamente, si dedicarono alla creazione o riesumazione di rievocazioni sul modello medieval-rinascimentale. Il regime si poneva per la totalità delle celebrazioni, come già espresso in precedenza, nelle vesti di agente legittimante dei valori contenuti nelle manifestazioni rievocative.

Seguendo questa linea ideologica ci si sarebbe aspettati che, anche se sottoposte a interruzioni o crisi, le rievocazioni di Siena e Asti mantenessero, anche inconsapevolmente, legami con l’apparato estetico-propagandistico fascista, o perlomeno con l’influenza che esercitò su di esse. Tuttavia ciò non avvenne, esattamente come dopo venti anni di propaganda fascista, volta a superare il concetto liberale di nazione verso una politica universalistica aggressiva, fu proprio il fascismo a spegnersi come una candela al vento con la guerra (Gentile 2021, 228-35). Va aggiunto in tal senso che lo sforzo di rigenerazione nazionale o di creazione di una identità nazionale univoca, anche tramite le rievocazioni storiche, fallì pure, ma non solo, per la distanza tra programmi centrali, individui, e organi locali incaricati di portarle a compimento: in ciò il fascismo non superò le problematiche di età liberale (Riall 2015, 327).

Nel caso di Siena l’avvicinamento al regime, pur se mediato da personaggi come il rettore del Magistrato delle Contrade Chigi-Saracini, dichiaratamente monarchico e slegato dal Pnf, non sembrò creare contraccolpi alla rievocazione dopo la caduta di Mussolini. Il palio riprese senza riferimenti al fascismo, e una prima iniziativa alternativa del governo democratico, il cosiddetto “Palio straordinario per la Pace”, fu osteggiato da molti senesi, poiché rappresentava un precedente pericoloso, potenzialmente dannoso sia per l’organizzazione, sia per le casse comunali, sia per la rituale cadenza della manifestazione tradizionale con le due date religiose [42].

La forte componente di orgoglio cittadino, di sensazione che il palio fosse un elemento marcatamente senese, e non una mera occasione di svago popolare, fece sì che il Palio di Siena non subisse delle interruzioni fatali [43]. L’esperimento di Buronzo ad Asti, invece, fallì per svariati motivi. Indubbiamente la distanza di ideali e di rappresentazione della realtà tra le classi dirigenti fasciste e la popolazione locale non garantì la sopravvivenza della rievocazione, a maggior ragione in quanto legata principalmente alla figura del podestà. La distanza tra propaganda culturale, ricezione e partecipazione delle masse comportò l’interruzione e la fine temporanea del Palio di Asti.

Se si sposta l’attenzione su un piano di analisi meno particolare, l’insistenza di fonti così differenti – da Buronzo ai dirigenti Ond e del Pnf, ai giornali, locali e non, fino a semplici cittadini – sul legittimare la rievocazione storica richiamandosi all’orgoglio locale e alla crescente presenza di partecipanti, mostra un importante progetto di utilizzo delle rievocazioni storiche, con relativo fallimento, perlomeno nel caso astigiano. L’uso della storia comportava l’adozione di una serie di modelli memorizzati nelle menti e nei caratteri delle comunità locali: lo sforzo che il regime sentiva il dovere di compiere riguardava una sorta di diffusione del richiamo storico, come profeti che divulghino la «lieta novella» [44]. Questo lavoro avrebbe consentito, nelle intenzioni dei promotori, la durevolezza della manifestazione, superando eventuali crisi di fondi e di sostegno, come nel caso astigiano; la storia era, dunque, «legittimazione dell’azione e cemento della coesione di gruppo» (Hobsbawm e Ranger 2022, 15). Inoltre, la creazione di tali rievocazioni aveva il compito di esercitare sulle popolazioni, tramite lo svago e il piacere estetico offerto, una forma di educazione storico-antropologica [45]: l’italiano del regime, assistendo alla riesumazione delle memorie delle gloriose gesta della propria comunità, riceveva la possibilità di rapportarle con il presente e vedere nel fascismo il garante e continuatore di questo spirito guerriero e orgoglioso. Il fascismo, nelle idee di alcuni suoi sostenitori, aveva una «arma segreta»: la capacità di assorbire il meglio dalla storia e trasformarlo in qualcosa di nuovo (Ben-Ghiat 1996, 297).

Il modello medieval-rinascimentale costituì la base da replicare quasi a ritmo industriale in altre parti d’Italia, ma la reazione senese mostrò la differenza sostanziale tra ideali storici del regime e realtà: lo svago veniva fornito dalle rievocazioni storiche, ma la storicizzazione di esso ne rimaneva fuori. La storia riesumata non creava una cristallizzazione del singolo evento per cui veniva rievocata, e i cittadini e spettatori coinvolti non compivano alcuno sforzo nel dimenticare tutte le caratteristiche intrinseche che lo dovevano eternare. Si può, in conclusione, dedurre dal caso di Asti che tali manifestazioni rimasero dipendenti dall’appoggio dello Stato e dei dirigenti locali, anche con la fine del regime fascista, e non dalle comunità municipali e dalla loro memoria.

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Note

1. Adamson ritiene che i fascisti ricercassero nella propria nazione una radice in una «common secular-religious practice based on shared political symbols, rituals, and language». Adamson 1990, 362.

2. In particolare, De Grazia 1981; De Grazia, Passerini 1983; Cavazza 1997; Medina Lasansky 2006; Vigilante 2014.

3. In alcuni casi si parla di “folklorismo di stato” a proposito degli sforzi del fascismo di educare la popolazione tramite le rievocazioni storico-tradizionali, oltre che legittimare la propria esistenza agli occhi della storia patria. Thiesse 2001, 259 ss.; Geary 2002; Di Carpegna Falconieri 2011, 119.

4. Stanley Payne ritiene che nel fascismo il mito era ritenuto reale non in quanto dato empirico, quanto come metarealtà del passato e come «the absolute goal which would be realized in the future». Payne 2003, 215.

5. Lo stesso Mussolini aveva celebrato la battaglia di Legnano della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa, nel 1176, come primo evento storico in cui gli italiani si erano uniti e avevano mostrato forza nelle armi. Mussolini 1938, XIV.

6. Di Carpegna Falconieri 2016, 83. Inoltre, Sorba 2003, 119-30. Chiappelli (1927, 226) aveva descritto la rivolta dell’817 del nobile longobardo Bernardo contro l’imperatore Ludovico il Pio come una delle prime dimostrazioni dell’avversione degli italiani alla dominazione straniera.

7. Per maggiori informazioni sul tema, Caponi 2017, 577-601. Anche Miccoli 1973, 183-208; Menozzi 2005, 1-131; 2015, 87-110.

8. Il filologo Luigi Sorrento riteneva che «Per le tradizioni il fondo comune e il metodo si trovano nell’unità romana e più precisamente romanza, romano-cristiana […] “in quanto il cattolicesimo ha assorbito e sublimato i valori dell’antica Roma”» (Sorrento 1934). Cavazza 1987, 112. Anche Arrigo Solmi, a proposito dei comuni e delle signorie, riteneva che la tradizione di Roma fosse l’ideale comune in quei secoli (1943, 3-12). Anche Rao 2020, 95.

9. Volpe elaborò una genealogia che vedeva il papato assolvere una funzione «italiana e quasi nazionale» fin dai tempi del confronto-scontro con l’imperatore, da Carlo Magno a Federico II, per avere una nuova impennata con la Controriforma, momento in cui gli stati italiani si appoggiarono alla Chiesa romana in cerca di unità contro i protestanti. Volpe 1933, in Turi 1979, 190.

10. Organizzazione che dispone di spazi dedicati agli appartenenti a una delle 17 contrade di Siena. Sono, ovviamente, 17 come le contrade senesi. Tali spazi sono luoghi di aggregazione e ritrovo per i contradaioli, come sale per riunioni, bar, giardini, spazi per lo svago.

11. Buronzo era un avvocato e uomo di fama nella comunità cittadina, presidente della Federazione delle Comunità Artigiane di Asti. Cavazza 1997, 206. Paul Corner ritiene, a tal proposito, che in molti casi i leader provinciali contribuirono, per varie ragioni, a dimostrarsi non preparati al ruolo loro assegnato, creando perciò una cattiva reputazione al regime in alcune località (2006, 219).

12. Il quotidiano Il Popolo d’Italia del 10 Maggio 1931 insiste molto sul termine “rinascita” per indicare il Palio di Asti, mentre il podestà è descritto come un “rianimatore”. In ASCA, 1931, “L’odierno Palio di Asti”, Il Popolo d’Italia, 10/05/1931, Fasc. “1931”.

13. In una lettera al principe Umberto, in cui gli chiedeva ufficialmente di porre il palio sotto il suo patronato, il podestà spiegava come la scelta dei costumi cinquecenteschi volesse omaggiare il periodo «della sovranità di Emanuele Filiberto, che diede tanto benevolo impulso alla nostra Corsa locale». In ASCA, 08/03/1931, “Palio 1931-Gli amici del Palio (Corrispondenza e circolari)”.

14. ASCA, 05/05/1931, Fasc. VIII, “Palio. Propaganda”, 1931. Starace a Buronzo.

15. Il Consiglio del Palio di Asti era composto dal podestà, dal segretario del Pnf, da un membro della Cassa di Risparmio, e infine da due Magistrati del Palio, nominati dal podestà.

16. Anche Corner 2002. Stanley Payne ritiene che molti dei dirigenti che affluirono nel Pnf erano mossi da opportunismo: aggiunge, forse esagerando, che dal 1925 «the appointment of a Fascist had limited significance» (Payne 2003, 119).

17. I demologi del Cntp cercarono fin dall’inizio degli anni Trenta di ricevere dal regime una garanzia del loro ruolo di esperti sulle tradizioni e sul loro corretto assetto storico, estetico e filologico (Cavazza 1987, 110).

18. Buronzo inviò ad Agostino Barolo, studioso delle tradizioni astigiane e collaboratore di Lares, una copia del libro de Il Palio di Asti da recensire, per ottenere una «efficace propaganda». In ASCA, 09/05/1931, lettera del podestà ad Agostino Barolo. Il libro di Gabiani venne inoltre recensito nella “Stampa della Sera” da Riccardo Scaglia. ASCA, 24/11/1931 “Palio 1931-Gli amici del Palio (Corrispondenza e circolari)”, D-24/2, articolo della Stampa della Sera, di R. Scaglia.

19. ASCA, 08/03/1931, Fasc. IX, “Palio: adunanze-memorie-verbali”. Bando del Palio di Asti.

20. Mussolini inviò una circolare nel 1933 alle commissioni locali del turismo volta proprio a disciplinare tale proliferazione di manifestazioni rivolte al turismo (Cavazza 1997, 137).

21. Il podestà Buronzo rivolse un appello agli astigiani: «Ed ogni astigiano, che per ragioni di lavoro viva fuori della sua terra [...] deve fare nella città di sua adozione una fervida e tenace propaganda per il Palio [...] e faccia sì che il giorno 10 Maggio convengano in Asti numerose le comitive di visitatori». ASCA, Aprile 1931 Fasc. VIII, “Palio: propaganda”, documento senza titolo.

22. Numerosi documenti scambiati tra il podestà e alcuni comuni evidenziano i problemi economici dei vari partecipanti a reperire i fondi per confezionare costumi storici. In alcuni casi si dilazionarono i pagamenti. Un esempio riguarda gli scambi di comunicazioni tra il podestà del Comune di Antignano e Buronzo (lettere del podestà di Antignano a Buronzo del 17 e 25/03/1931, ASCA, Palio 1931, DR 4/2, IV).

23. I fantini dovevano essere originari del Comune di Asti e del circondario, per rimarcare la cornice municipale della corsa. ASCA, 08/03/193, Fasc. VIII, “Palio: propaganda”, Comunicazione del podestà di Asti nell’assemblea del Consiglio del Palio.

24. Per la composizione del Consiglio del Palio, nota 15.

25. Nel Bando del Palio di Asti dell’8 marzo 1931 si annuncia la creazione dei “Magistrati del Palio”. Evidenti i riferimenti agli omonimi magistrati senesi. In ASCA, 08/03/193, Fasc. IX, “Palio: adunanze-memorie-verbali”. Bando del Palio di Asti.

26. ASCA, 07/02/193, Fasc. VIII, “1931. Palio: Propaganda”.

27. ASCA, “Palio 1931”, D-24/1, opuscolo di G. Germena intitolato “Fulgori astensi. Trilogia eroica”, riferito al palio di Asti del maggio 1930.

28. ASCA, 08/03/193, Fasc. IV, “Palio 1931. Ordini di servizio-programma della corsa-inviti-tessere”, Il Bando del Palio di Asti, DR 4/2.

29. In Corriere della Sera, 09/05/1932, “La disputa dello storico Palio di Asti”, 2, articolo ritagliato, in ASCA, Fasc. D-25, “Palio 1932”.

30. Il palio di Asti venne rinominato “certame cavalleresco”, provocando proteste tra gli astigiani. Le ragioni della mossa del regime di assegnare a Siena il primato sembrano derivare da una scelta di tutelare il Palio di Siena come evento turistico principe. Oltre a ciò, la proliferazione di rievocazioni simili tra loro veniva ritenuta potenzialmente dannosa per il turismo (Cavazza 1997, 206).

31. Archivio Storico del Comune di Siena, 06/1935, Cat. XIV, Classe 2, Fasc. 1 “Palii. Affari diversi. Comunicazione del podestà alle contrade.

32. Inserisce in questo elenco, oltre ad Asti: un palio tenutosi a Roma nel 1923, a Firenze nel 1928, a Torino nel 1931, il Palio di San Giorgio a Ferrara, il Palio di Legnano.

33. ASCS, 06/1935, Cat. XIV, Classe 2, Fasc. 1 “Palii. Affari diversi”. Comunicazione del podestà alle contrade.

34. Lettera del podestà al Principe Umberto, in ASCA, 08/03/1931, “Palio 1931-Gli amici del Palio (Corrispondenza e circolari)”.

35. Buronzo ringraziò con una lettera il presidente della Cassa di Risparmio di Asti per il suo contributo «morale e materiale» alla riuscita del palio. Chiese altresì un versamento intorno alle 50.000 lire per l’allestimento della rievocazione. In ASCA, 20/05/1934, D-25, “Palio 1932”.

36. R. Scaglia, La corsa del palio ad Asti. Una bella tradizione che vive da sette secoli, Stampa della Sera, 24/11/1931. ASCA, Fasc. “Palio 1931-Gli amici del Palio (Corrispondenza e circolari)”.

37. ASCA, 09/05/1931, Palio 1931, Fasc. D-24/2, Resoconto stenografico.

38. Tali conclusioni sono dedotte sulla base delle ricerche effettuate per il periodo preso in esame dalla ricerca di dottorato, ossia gli anni Trenta del Novecento. Non possono essere, dunque, estese con certezza al periodo della sua ripresa odierna – dal 1967 in poi – su cui non si è svolta ricerca archivistica.

39. ASCA, 08/05/1932, Palio 1932, A tutti i presidenti del dopolavoro della provincia di Asti, Fasc. D-25.

40. Ci si riferisce alla ricerca svolta dall’autore presso l’Archivio Storico del Comune di Asti per il proprio progetto di dottorato. Pur essendo esaustiva la raccolta di documenti contenuti nel suddetto archivio, non si può escludere che in altri enti o archivi possano essere contenuti ulteriori fonti.

41. Lettera del podestà di Siena alle contrade, Giugno 1935, ASCS, 1935, “Palii. Affari-diversi”, Cat. XIV, Classe 2, Fasc. 1.

42. Ad onor del vero, nel 1948 alcuni cittadini si mostrarono entusiasti all’idea di un terzo palio nello stesso anno, additando i forestieri o «coloro che prendono parte al palio, come ad uno spettacolo qualunque» come gli unici scandalizzati dall’iniziativa. In ASCS, 1948, Lettera di alcuni popolani al Sindaco, Anno 1948, “Feste pubbliche. Palii”, Fasc. 1 “Palii”.

43. L’Enit, in una conversazione radiofonica gestita da Pietro Lerra, nel 1934, definiva il palio uno «spettacolo che Siena ha serbato a ricordo vivente del suo glorioso passato». Siena, per la propaganda del regime, ha conservato e dunque ha mantenuto vivo il palio e il godimento estetico ad esso connesso. In ASCS, 04/08/1934, XIV, Fasc. anni 1933-1934, Bollettino radiofonico Enit: “Conversazione turistica” di Pietro Lerra.

44. Edward Shils sostiene che le ideologie nazionaliste abbiano una necessità di creare, e credere, in una dottrina che comprenda ogni evento, dal passato al futuro, abbracciando tempo e spazio. Esse devono osservare le loro azioni «In the context of the totality of history» (1958, 452).

45. A tale scopo, anche la diffusione delle cosiddette “radioscene” comporta una sorta di “educazione storica”: tra le principali opere prodotte a tal scopo, due erano di ambientazione storica medievale: Un cavaliere medievale e La battaglia di Legnano (Isnenghi 2019, 479).