Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Storia e storiografia sulla palude e la bonifica pontina in età contemporanea

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Abstract

The article analyses the historiographical debate that has occurred in recent decades on the Pontine region, starting with Roberta Biasillo’s recent volume Una storia ambientale delle paludi pontine. Terracina dall’unificazione alla bonifica integrale (1871-1928). Analyzing the interpretive junctures that have marked studies on marshes and reclamation allows for a detailed reconstruction of the influence they have had in the analysis of Pontine history. The recent focusing on the environment has raised new questions and opened a new phase outside the narrative related to the environmental impact of fascism, within which to re-analyse the contemporary events of the area.

Introduzione

La messa a tema dell’ambiente in campo storiografico costituisce un’occasione utile per rileggere, in una diversa prospettiva e con nuovi criteri di ricerca, le vicende legate all’area pontina in età contemporanea. Sul terreno metodologico che chiama in causa proprio questi studi si muove il lavoro di Roberta Biasillo, Una storia ambientale delle Paludi pontine: Terracina dall’Unità alla bonifica integrale (1871-1928), edito per Viella nel 2023. L’autrice scrive a proposito di una regione nella quale l’antropizzazione ha mutato in maniera considerevole l’intero assetto ecosistemico, in un arco temporale piuttosto breve, e approfondisce quel dialettico intersecarsi di natura e umano che permette in sostanza di comprendere le trasformazioni territoriali, i protagonisti che l’hanno prodotte, e i modi con cui queste sono avvenute.

Le Paludi pontine, poi Agro, sono diventate un laboratorio privilegiato per l’esame dei termini di questo rapporto: è significativo che in tal senso, oltre che dalla storia ambientale, emergano numerose ricerche anche dalla geografia storica (Gallinelli 2020; Masetti 2013), dall’ecologia del paesaggio (Rossi et al. 2020) e dal campo delle environmental humanities (Gruppuso 2022), specie negli ultimi anni. Il caso studio scelto da Biasillo avanza una serie di riflessioni sulle paludi, le bonifiche, gli usi collettivi, i regimi di proprietà, la modernizzazione delle aree marginali, tutti temi che oggi vengono rivisitati dagli storici dell’ambiente a partire dalla rilevanza che ha assunto la questione ecologica. Con ogni evidenza Una storia ambientale delle Paludi pontine non riguarda quindi solo le specifiche geometrie diacroniche di un territorio, ma risponde piuttosto a un tentativo ambizioso di «rimettere la natura dentro la storia», riscriverla a partire da, e attraverso questa (Armiero e Barca 2004, 19).

Tra storiografia e storia reale

Le vicende legate alla regione pontina in età contemporanea erano tradizionalmente lette dalla storiografia secondo prospettive politiche ed economiche (Vöchting 1942; Stampacchia 1983; Cotesta 1986). Negli ultimi anni queste interpretazioni sostanzialmente mono-causali sono state sostituite in favore di analisi più stratificate, in cui i criteri di ricerca si sono ampliati orizzontalmente, invadendo i più vari spazi tematici. Anche lo studio di Biasillo risponde a logiche non semplificative e unilaterali della storia pontina, a partire dall’impianto della ricerca che è di carattere micro-storico ma informato allo stesso tempo e a fenomeni più generali e “glocali” [1] (De Nicolò 2010). Il raffronto costante con la storiografia più recente in materia, un forte apparato critico e un’attenta analisi delle fonti, permettono dunque di collocare il volume decisamente fuori dalla letteratura di stampo localistico.

Biasillo si propone di analizzare un processo solo marginalmente preso in considerazione dagli storici: quello relativo ai conflitti emersi tra la crescente spinta dello stato unitario tra Otto e Novecento teso a sovvertire l’assetto latifondistico, e gli interessi degli attori e delle comunità locali, in quella negoziazione incessante tra diverse forme di possesso che sottostanno allo sfruttamento delle risorse naturali. La scelta poi di Terracina e della sua Università Agraria come caso studio all’interno di una più vasta area si spiega con considerazioni di carattere geografico ma anche più propriamente istituzionali: il comune pontino oltre a essere il più grande, insieme a quello di Cisterna, e a comprendere le Paludi pontine propriamente dette, era soggetto cioè a una complessa modalità di controllo delle proprietà e dei beni naturali collettivi – diversamente da quello di Cisterna, ex feudo gestito dalla famiglia Caetani come un’azienda privata (Vaquero Piñeiro 2023). Concentrare l’analisi su Terracina ha permesso a Biasillo, in sostanza, di valutare su una dimensione circoscritta, e allo stesso tempo emblematica e singolare, i modelli amministrativi e gestionali del territorio, le pratiche di uso delle risorse ambientali, la curvatura impressa dal governo locale alle decisioni prese dal nuovo stato unitario. Quello che ne emerge è un’elaborata rete di strutture sociali finalizzate a rappresentare le parti nella lotta alla naturalizzazione o alla denaturalizzazione della palude, riflesso delle contrapposte volontà di conservarne o cambiarne il volto, e in nuce di averne il controllo. Dal volume si evincono dunque i modi con cui le comunità locali hanno realizzato un patto relazionale con un ricco e complesso ecosistema naturale. Un patto che risale all’atto fondativo della città (Biasillo 2023, 28).

Approfondire le forme con cui si definiva questo rapporto è cruciale poiché, secondo l’autrice, “lo studio delle paludi passa attraverso lo studio della società e delle istituzioni, oltre che attraverso la ricostruzione delle rappresentazioni e trasformazioni ecologiche” (26). Ed è il conflitto e il micro-conflitto sociale e non l’immobilismo e l’arretratezza, a dispetto di certe narrazioni che hanno insistito sull’area, a rappresentare il carattere costitutivo che nell’area pontina di fine Ottocento si era instaurato nel rapporto tra comunità e ambiente.

Un ulteriore elemento di novità della ricerca di Biasillo, intrinseco a quanto detto finora, è relativo alla scelta cronologica su cui converge. La maggioranza degli studi compiuti sull’area pontina, difatti, si è occupata del periodo della bonifica integrale, prima della quale invece l’autrice ferma la narrazione. Uno scarto importante che riflette anche il contesto storiografico in cui vengono maturando nuovi paradigmi di ricerca sulle paludi e sulla bonifica (Piastra 2011; Novello 2017).

In tal senso, Una storia ambientale delle Paludi pontine, sin dal titolo, si pone evidentemente nel solco di una scelta non neutra a livello storiografico. È l’attestarsi da parte di Biasillo su una posizione netta all’interno di un dibattito di lunga data e che è tuttora frutto di una densissima produzione sulla storia delle campagne nella penisola e quindi della storia del paese in generale: quello tra storiografia agraria e storiografia ambientale (Felice 2023). L’autrice ci si raffronta non riduttivamente, e cioè cercandone un punto di sintesi improbabile, quanto piuttosto arricchendo di contenuti e significati la propria analisi nel segno di una continuità tra le due interpretazioni.

Valutare l’ambiente delle Paludi pontine, infatti, significa occuparsi di uno spazio ibrido, a metà strada tra un campo, o una foresta, e un habitat umido, non solo in virtù di un’effettiva compenetrazione di sistemi produttivi e sociali differenti, ma anche per via di alcune caratteristiche metastoriche che lo rendono un luogo “disallineato”, “conteso”, oltre che dagli elementi naturali e umani, dalle analisi storiografiche (Iorillo 2023). La spiegazione di ciò risiederebbe in alcuni dati di storia reale che, come ha fatto notare Piero Bevilacqua (1996, 415) a proposito della bonifica e del suo ruolo nel processo di Nation Building italiano, hanno influenzato fortemente e per lungo tempo l’interpretazione storiografica. Motivo per il quale la Palude pontina – ma tutte le paludi in generale – è stata a lungo, nelle ricerche, un luogo del marginale, l’opposto negativo e speculare della bonifica. La lotta al “disordine idraulico”, il suo superamento per l’avvio dei terreni all’agricoltura, ha coinciso invece con la prospettiva del fine “necessario”, influenzando anche le interpretazioni storiche in un senso deterministico. Ed è in sostanza impraticabile tenere conto, perlomeno nella loro interezza, della letteratura e della mole di fonti che riguardano in questo senso proprio la bonifica, anche se ci si pone un limite cronologico e geografico che tocca esclusivamente un secolo e rimane confinato al solo contesto italiano. Rileva Tito Menzani (2010) che il motivo va ricercato nell’ampio spettro e nella varietà di argomentazioni con cui la storiografia ha affrontato il tema, di volta in volta declinato nella “storia istituzionale, dell’agricoltura, del pensiero politico, del diritto, dell’impresa, della cultura igienico-sanitaria, solo per individuare alcuni dei principali ambiti interpretativi” (1).

Una diretta conseguenza di questa longeva e radicata tradizione di studi ha significato per la palude una realtà poco indagata qualitativamente e quantitativamente, fino a tempi piuttosto recenti, specie dagli storici contemporaneisti. Non è esente da tale considerazione la letteratura dell’area pontina. Una soluzione per risolvere quest’impasse passa dunque attraverso il tentativo di scardinare la logica binaria palude/bonifica per narrare il territorio, che può avvenire solo a partire da una rilettura critica delle fonti e fuori dalla prospettiva dell’esito della bonifica. Così allora gli spazi delle Paludi secondo Biasillo (2023) sono:

ibridi dal punto di vista ecologico: le descrizioni di coloro i quali avevano avuto esperienza diretta dell’area dichiaravano una impossibilità di opporre terre e acque. La palude era descritta come una superficie semiliquida costituita da campi coltivabili a intermittenza e a seconda delle condizioni atmosferiche e dei periodi dell’anno. Essa fu il risultato di un equilibrio prevedibile di acque e terre che si avvicendavano, di mobilità dei confini tra agglomerati di acqua e campi e prati, del fare e disfare dei confini da parte degli umani. In breve, le Paludi pontine furono spazi ibridi perché rappresentarono uno spazio di negoziazione (24).

Il carattere ibrido del luogo fisico e dell’ambiente sociale è la dimostrazione pragmatica di un necessario superamento di due interpretazioni storiografiche oppositive, oltre che della palude letta in chiave svalutativa attraverso la storia della bonifica. Secondo Biasillo, infatti “raccontare una storia di palude risolve il locus storiografico dell’identificazione fra paesaggio e paesaggio agrario e permette di dare nuovo rilievo ai caratteri originali di un territorio e non solo alla capacità trasformativa umana” (31). Uno snodo nevralgico con cui misurarsi poiché rispecchia un peculiare sostrato di idee contrastanti in materia di sviluppo, modernizzazione, progresso ed evoluzione e che richiama il processo stesso con cui gli storici si interrogano e interrogano il passato. Una serie di questioni generate dalla messa in discussione rispetto a questi temi che la storia ambientale ha posto e sta ponendo a partire dai problemi causati dall’umanità nella corruzione della natura.

Per tale motivo, ragionare a proposito della palude implica rovesciare assunti implicitamente introiettati nella ricomposizione degli eventi, come ha scritto in proposito Irene Bevilacqua (2016) in un recente studio sui tentativi non riusciti di bonificare proprio le Paludi pontine:

La ricerca storica in età contemporanea si regge su una invisibile intelaiatura ideologica progressista. Un supporto teorico-culturale che si fa scorgere soprattutto quando a essere analizzate sono vicende di carattere economico e sociale. Tutto il passato è ricostruito e valutato con distinte categorie di valore, a seconda se i processi di trasformazione sono diretti verso i caratteri e la razionalità del nostro presente o meno. La freccia positiva è quella diretta all’oggi. Guardiamo al passato come a una fase storica in attesa che essa diventi simile al nostro tempo. Per questo consideriamo le bonifiche come un processo di trasformazione destinato a portare delle terre impaludate da una economia arcaica a una più avanzata e più simile a quella del nostro tempo. Tanto più che esiste un lato igienico della questione – la malaria – che contribuisce a marcare come non moderne le “economie umide”. In realtà, in tale atteggiamento storiografico c’è un peccato di anacronismo (6).

Dunque la palude, e in particolare il contesto problematico offerto dal caso pontino, diviene non solo uno snodo utile alla rilettura di un intero territorio ma anche un’occasione di ripensamento complessivo di alcuni paradigmi storiografici. Ne è consapevole Biasillo (2023) secondo la quale “la bonifica è stata per gli storici e le storiche la lente attraverso la quale ricostruire le evoluzioni dei territori paludosi” (22). Una parzialità di ragioni che ha reso necessaria una rielaborazione interpretativa. E che può rendersi possibile “sulla scia di una nuova consapevolezza del valore ecologico delle zone umide” (22).

In questo senso, la regione pontina sta divenendo un avamposto anche istituzionale, oltre che di ricerca, per muovere nuovi interrogativi in una chiave sperimentale ed esplorativa verso le trasformazioni avvenute nel corso del tempo, in un momento in cui il recupero di alcune caratteristiche “originarie” sembra entrato in una fase di coscienza a livello collettivo. Un esempio noto che va in tale direzione è quello di Rewetland Life+, un progetto europeo chiuso nel giugno del 2014 con obiettivi di disinquinamento, riqualificazione paesistica, difesa del suolo e tutela della biodiversità, a partire dal recupero e dalla risistemazione delle acque superficiali. Scrive in proposito Biasillo che recuperare la conoscenza delle dinamiche della palude è il primo passo per riempire di contenuti i discorsi e i progetti sulla conservazione. E proprio oggi “i progetti e le forme di tutela ambientale attive nella pianura pontina indicano le zone umide e l’area forestale come ambienti che rimandano allo stadio precedente alla bonifica integrale” (23). Nella stessa direzione peraltro si muove anche il contestato e attuale provvedimento Nature Restoration Law approvato dal Parlamento Europeo – avente oggetto la rinaturalizzazione di alcuni ecosistemi naturali ad alto valore ecologico.

In definitiva Biasillo fornisce non solo un’analisi articolata di un periodo comunque poco osservato, ma sembra anche suggerire un’interpretazione che risponde a un tentativo complesso, che sta assorbendo sempre più l’impegno di storiche e storici. Quello cioè – come scrive Alice Ingold (2011) – di superare la dicotomia tra le categorie di “sociale” e “naturale” per dare vita a un nuovo tipo di indagine storico-ambientale, che analizzi i fattori naturali e i saperi umani come componenti di un unico insieme. A questo approccio concorrono diversi ostacoli. Primo fra tutti, negli studi sulle paludi, quello che riguarda la difficoltà di non concedere spazio a interpretazioni “nostalgiche” dell’ambiente pre-bonifica e nemmeno verso una presunta “wilderness” nostrana.

Si tratta allora di passare oltre l’intelaiatura teleologica della storia, di rivedere i fatti senza conoscere la loro fine, del compimento non come inevitabilità, ma, piuttosto, come controfattualità (Corona 2004). Ed è quello a cui sembra mirare anche Biasillo, ben attenta a far emergere le voci ostili o favorevoli con cui le stesse comunità locali, in conflitto con prerogative provenienti dall’esterno, guardavano al proprio spazio naturale. Questa fitta rete di contrastanti e talvolta ambigui rapporti che esse stabiliscono in un’interazione o co-evoluzione, a seconda degli interessi nei confronti delle risorse e dei beni ambientali, contribuiscono a testimoniare un paesaggio umano e fisico esistito fuori dalla narrazione dominante sull’area, che merita, proprio oggi, di essere ritrovato e recuperato.

Le Paludi pontine e la bonifica nel dopoguerra

Il periodo antecedente alla bonifica integrale, quello analizzato da Biasillo nel volume, è stato solo relativamente oggetto di approfondite ricerche, per motivi di diversa natura. Uno è riferibile a cause storiografiche e storiche generali delineate fino a questo punto. Vi sono poi spiegazioni che riguardano più specificatamente il caso della regione in esame, presa come oggetto di ricerca aggregato, dalle caratteristiche geografiche, storiche e sociali sostanzialmente comuni.

Una di queste ha a che fare sicuramente con la bonifica integrale e con il ruolo avuto dalla propaganda fascista nell’influenzare la letteratura del dopoguerra. Il racconto della vittoria sull’arretratezza della palude, veicolato con forza dalla pubblicistica del regime (Cencelli 1934; Massaro 1936), sospintasi anche a livello internazionale, ha determinato a livello storiografico che la bonifica integrale del territorio pontino coincidesse per lungo tempo con la stessa storia della regione, iniziata per l’appunto con la redenzione fascista delle terre. La bonifica, e non la palude – benché questa corrisponda alla parte cronologicamente più lunga e rilevante della storia del territorio –, è rimasta a lungo il leitmotiv con cui sono state descritte le vicende dell’area. Una narrativa dominante, in breve, su cui la storiografia, anche inconsciamente e senza alcun intento revisionista, ha indugiato per molto tempo (Pallottini 1975). Tutt’oggi questo racconto continua a essere attrattivo per le incursioni nella letteratura storica di autori lontani dallo specialismo della disciplina, sia nella produzione romanzesca (Pennacchi 2010), sia in quella legata a studi localistici (Alfieri 2014, Folchi 2014). Ma anche per le ricerche del panorama extra nazionale, specie da parte degli urbanisti o dei geografi (Ghirardo e Forster 1989; Caprotti e Kaïka 2007).

Il legame tra bonifica e regime fascista non è solo a livello storiografico e interpretativo, ma sta anche nella profondità con cui è rimasto radicato nella memoria collettiva [2]. Ciò è dovuto probabilmente a quello che è stato definito come il carattere “distruttivo-costruttivo” che il fascismo ha avuto nella storia pontina (Nenci 1991, 208). Al di là del grande battage pubblicitario compiuto sulla redenzione di quelle terre, un dato oggettivo su cui ci si è a lungo soffermati, e che ha avuto larga fortuna nell’immaginario delle comunità locali e non, riguarda l’elevato grado di trasformazione del paesaggio pontino durante la bonifica integrale. Un cambiamento sempre e comunque inteso come migliorativo e di creazione del territorio. Il radicale mutamento dell’habitat fisico e materiale dell’area non è mai stato analizzato rispetto a un ecosistema definitivamente cancellato e sostituito, se non in funzione dello spettro negativo che rappresentava. Sebbene questo abbia significato, ha specificato Biasillo (2023), anche “inquinamento delle acque e del suolo, abusivismo e dissesto idrogeologico”, oltre a “legarsi a processi di riduzione dello spazio democratico” (199). Come sosteneva Riccardo Mariani (1976), il motivo era che la bonifica delle Paludi e lo sviluppo e il miglioramento agrario avevano assunto un’importanza minore rispetto alla fondazione delle città nuove. Per cui, ha ricordato Antonio Parisella (1986, 192) “ancora un decennio dopo, i pochi studi di carattere sto­riografico sull’Agro Pontino […] avevano riguardato proprio le fonda­zioni di Latina, Sabaudia, Pomezia, Pontinia e Aprilia” e in generale il nuovo carattere insediativo della regione. Si trattava del risultato, perdurante nel tempo, di una “colossale deviazione d’interesse operata dalla propaganda fascista” che metteva “in secondo piano gli aspetti più direttamente economico-sociali della bonifica e della colonizzazione” – e che come hanno determinato diversi studi erano in realtà piuttosto insoddisfacenti (Gaspari 1985). La costruzione delle città e l’urbanizzazione della regione rappresentavano invece un più immediato e reclamizzabile successo del regime, di uno “slancio creatore” (Villa 1943, 1226), utile alla retorica da Grande Capo (Nicoloso 2008). Chi ha approfondito la sistematicità e l’efficacia della narrazione propagandistica nella sua reale messa in atto nell’Agro pontino, come ha fatto di recente Clemente Ciammaruconi, rimanda ancora una volta proprio al suo successo “specialmente rispetto alla fondazione delle «città nuove»” (Ciammaruconi 2009, 49). Un’opera di persuasione d’indiscussa riuscita, e in definitiva, “suffragata anche da osservatori al di sopra d’ogni sospetto”, e da storici accorti, come nel caso di Ernesto Ragionieri (Ragionieri 1976, 2207).

Nonostante questo grosso “sviamento”, alcuni studi hanno preso in esame l’area pontina concentrandosi sulle caratteristiche più prettamente agrarie della sua trasformazione. Hanno formulato cioè un giudizio sui risultati in termini economici della bonifica rispetto alla scelta cerealicola in ottica produttiva e di rese, andando oltre le dichiarazioni e i dati riportati dalle enunciazioni reboanti del regime (Del Bravo 1956; Careddu, Lepre e Socrate 1975).

Queste erano delle prime analisi che avevano il merito di tentare di dirimere lo scarto tra propaganda e risultati reali della bonifica, il vero snodo insoluto delle vicende legate al periodo fascista, ma che per il loro carattere circostanziale non ponevano interrogativi complessivi sulla dimensione totale delle trasformazioni intraprese dal regime nella regione (Zucchini 1956; Villani 1962; Profumieri 1971).

Oltretutto, l’idea di derivare il giudizio sull’opera dalla sua riuscita in termini economici e agrari mostrava il perimetro del dibattito condotto dagli storici sulle campagne italiane avviato dal secondo dopoguerra, su cui è necessario fare una breve deviazione.

Come ha rilevato Giacomina Nenci (2004), dagli anni ’50 la rilevanza assunta dalla storiografia formatasi nell’area culturale marxista, fino agli anni ’70, ha significato abbracciare un’interpretazione che legava i caratteri costitutivi della storia nazionale risorgimentale con un atto d’accusa lanciato alla borghesia per aver causato il peccato originale dei mali della società, ovvero il suo non sviluppo, specie nel Meridione. L’inefficace ridistribuzione delle terre, il mantenimento di arcaiche forme di rendimento e di rapporti semi feudalistici, le sorti del ceto contadino, erano temi centrali di queste analisi, secondo Nenci dal “forte carattere metaforico” e di proiezione sul presente (25). Le mancate trasformazioni strutturali del paese, per motivi provenienti dalle vicende ottocentesche e risorgimentali, e la loro stessa ricostruzione storica erano vissuti come lo specchio e nel contempo come lo strumento di lotta di un contesto sociale e politico, nel quale si discutevano ancora le stesse conflittualità riguardanti la riforma agraria, la questione meridionale, l’accesso alla terra dei lavoratori rurali. In un contesto in cui peraltro stava avvenendo il cruciale passaggio delle campagne da un’agricoltura tradizionale a una di tipo industriale e produttivistica.

Così vengono consolidandosi quegli studi sopracitati che della bonifica pontina cercavano di analizzarne gli aspetti agro-economici ma anche quelli che riflettevano sulle condizioni di vita materiale dei ceti più bassi anche prima del fascismo (Caracciolo 1952; De Felice 1965).

Andrebbe aggiunto un ulteriore dato di storia reale allo spoglio di queste interpretazioni. In primo luogo il motivo dell’impossibilità di ribaltare la logica dicotomica di palude/arretratezza e bonifica/modernità fino alla metà degli anni ’70 – valido per le Paludi pontine come per altre aree – risiede nella prosecuzione dell’azione di prosciugamento e avvio delle terre paludose all’espansione agricola, che avveniva ancora nel dopoguerra. La bonifica – al pari della tecnicizzazione delle produzioni o l’ammodernamento agricolo – era ritenuta un vettore di quello sviluppo economico che costituiva un obiettivo cruciale della classe dirigente per far ripartire il paese disastrato dalla guerra, oltre che per contrastare la storica pressione del bracciantato agricolo sulle terre (Fabiani 1983). L’insieme di questi obiettivi rispondeva a una logica condivisa dall’ala marxista e delle sinistre quanto dall’ala di stretta osservanza democristiana di smantellamento della grande proprietà latifondistica, seppure in forme distinte e contrapposte: da una parte la collettivizzazione della terra, dall’altra la volontà di formare una piccola proprietà contadina (Pezzino 1976).

Al netto degli scontri sulla riforma agraria degli anni ’50, in definitiva, rispetto alla lotta al paludismo, è osservabile una stretta continuità tra la bonifica integrale del fascismo e l’azione repubblicana di trasformazione territoriale, come dimostra anche il caso pontino. Una lotta incrementata oltre che proseguita con l’uso delle risorse statunitensi del Piano Marshall, e dei prodotti chimici come il DDT, usati per mettere fine al flagello malarico.

Le discontinuità riguardarono quindi l’ambito sociale e agrario della bonifica più che quello idraulico. Nelle relazioni e nelle interviste del Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea costituente furono evidenziate sin da subito storture specie rispetto alla colonizzazione forzata della popolazione a maggioranza veneta, mentre la valutazione complessiva verso l’intervento di bonifica era positiva (Ministero per la Costituente 1946). Come è stato rilevato d’altronde, lo stesso titolo della Costituzione che regola la funzione della bonifica richiama i principi dell’integralità – anche se non esplicitamente visto il legame che questo concetto nel frattempo aveva instaurato con la politica del regime (Gaspari 2015).

Così le idrovore inaugurate durante il fascismo e rimosse da Mazzocchio (nei pressi di Pontinia) da parte dei tedeschi con lo scopo di rallentare le truppe alleate, vennero recuperate e rimesse al loro posto, e la bonifica conclusa, asciugando i terreni che nel frattempo si erano nuovamente allagati. Cambiò il progetto di bonifica umana, le politiche agrarie, come quelle sul grano, che vennero abbandonate, da una parte in favore di un più razionale sfruttamento economico dei terreni e una più ampia libertà di migrazione, e dall’altra dalla crescita industriale dell’area, destinataria dei fondi della Cassa per il mezzogiorno, feudo della politica locale della Democrazia Cristiana (Mangullo 2015).

Per analizzare infine quegli aspetti di continuità dal regime alla repubblica, Emanuele Bernardi e Simone Misiani si sono rivolti alla via dei “tecnici”. Sarebbe esistito cioè un fil rouge dirigista tra fascismo e governi Dc e di centro-sinistra nella circolazione dei saperi sulla bonifica. Un nesso che poteva essere fatto risalire direttamente a quel socialismo riformista nittiano nel suo indirizzo verticistico e decisionista, e in cui affondava la stessa koinè culturale di Arrigo Sarpieri ma anche di Manlio Rossi-Doria o Pasquale Saraceno (Bernardi 2011; Misiani 2010). Un filone di studi quello sui tecnici piuttosto nutrito fino a tempi recenti, e che si è intrecciato spesso alle vicende delle Paludi pontine e della bonifica, sia per quanto riguarda la cultura scientifica sviluppatasi attorno alle sperimentazioni agrarie (Saraiva 2010), sia per la “profilazione” di queste figure, veri e propri comprimari delle politiche territoriali di trasformazione: nei riguardi di Arrigo Serpieri, Angelo Omodeo, Natale Prampolini, Nello Mazzocchi Alemanni gli storici continuano a nutrire un’attenzione piuttosto alta (Saba 2005; Misiani 2017).

Modernizzazione e arretratezza

In definitiva, come abbiamo analizzato fin qui, motivi di storia reale e interpretazioni storiografiche hanno contribuito ad alimentare nel tempo un giudizio positivo riguardo l’intervento del regime nella regione pontina. Questo ha però schiacciato, di fatto, dentro la narrazione della bonifica l’intera storia della regione, letta retrospettivamente come un esito inevitabile, definitasi trionfalisticamente nella fondazione delle città nuove.

L’avvio di una nuova stagione di studi di storia agraria e un originale penchant verso il territorio e il locale, dagli anni ’70 – insieme alla contaminazione con le altre correnti di ricerca sull’influente modello offerto dalle Annales –, ha posto interrogativi segnati da una diversa sensibilità anche rispetto alle vicende legate all’area pontina. In un fiorire di ricerche che risentivano di questi mutamenti interpretativi, molto è stato scritto a proposito delle direttive mussoliniane, del progetto “ruralista” fascista, della colonizzazione interna e della migrazione veneta. Questo ha spostato di fatto il giudizio sulla bonifica su un piano diverso, suggerendo una sua rilettura attenta sia sotto l’aspetto più sociale e culturale (Gaspari 1985; Bizzarri et al. 1985; Parisella 1979) sia nella ricostruzione dei contesti e delle strategie politiche con cui agivano le classi dirigenti per riformare il territorio meridionale (Barone 1986; De Felice 1981).

Queste ricerche di gran valore sull’area pontina si inserivano dunque in quelle più generali sulla bonifica come processo di modernizzazione del territorio specie nel sud del paese (Nenci 2004; Bernardi 2014). I principali temi di indagine comprendevano il ruolo avuto dal centralismo statale nel direzionare lo sviluppo rurale e socio-economico, il dualismo Nord-Sud, l’interazione delle regioni italiane con il mercato globale, le relazioni dell’agricoltura con i poteri industriali ed economico-bancari, le trasformazioni territoriali e i mutamenti degli assetti ambientali in particolare dei bacini idrografici (Isenburg 1986; D’Antone 1981; Checco 1983; Bruno 1984); linee interpretative declinate alla comprensione delle politiche rurali e del fascismo e utili a delineare i prodromi dei successivi sviluppi delle campagne italiane, in un processo di de-ideologizzazione del dibattito storiografico (Preti 1973; Rossi Doria e Bevilacqua 1984).

Nonostante l’alto livello di comprensione raggiunto da tali analisi nel descrivere il territorio pontino e i fatti legati a esso, questa stagione di ricerche non è scevra da criticità e mancanze che pure sono state rilevate negli anni da alcuni studiosi, specie nel mantenere intatta la dicotomia palude/bonifica nella sua monoliticità senza superarla in una chiave ambientalista (Bevilacqua 1996).

Un aspetto critico, come ha notato Antonio Parisella, riguardava l’attenzione degli osservatori e degli studiosi per la “novità” costituita dall’attività dell’Onc (Riva 1983; Stampacchia 1983), che faceva passare “in secondo piano la trasformazione agraria condotta dai privati sulle terre che restavano di loro proprietà e che godevano di una parziale ma consistente valorizzazione” (Parisella 1986, 203-4). Il che è particolarmente vero per il perimetro delle “Paludi pontine” osservato da Biasillo, corrispondente al Consorzio della Bonificazione Pontina, dove il latifondo aveva conosciuto una frammentazione maggiore rispetto a quanto accaduto nella vasta area di Piscinara, possesso dei Caetani (Protasi 2013). Rimaneva inevaso dunque lo studio delle aziende e delle vicende dei consorzi di bonifica prima e dopo l’intervento degli anni Trenta, delle organizzazioni professionali dei produttori agricoli, un altro “punto di passaggio obbligato” e necessario affinché potesse essere scritta la storia del territorio fuori dalla logica centralista della bonifica fascista (Parisella 2009). Alla fine di quella stagione di studi, anche Alberto Caracciolo sottolineava (1991) che in ultima analisi la letteratura sulla bonifica integrale nei territori pontini “non avesse ancora un suo classico”. Un giudizio confermato dalla ancora più recente monografia di Mauro Stampacchia (2000), che esordiva denunciando per la regione “una sorta di rimozione storiografica”. Lo stesso può dirsi anche per quanto riguarda le ultime due decadi, nello spazio temporale cioè in cui si è assottigliata la portata degli studi di storia agraria: si può qualificare come piuttosto marginale il contributo di chi ha partecipato a rinnovare le coordinate di lettura della bonifica pontina. Discorso che non riguarda per esempio le vicende di quelle del Nord Italia, specie dell’Emilia e del Veneto, probabilmente “facilitate” da una memoria meno legata in maniera così stretta al fascismo (Menzani 2008; Novello 2009; Crainz 2007).

Studiosi locali, nel frattempo, hanno continuato a sostanziare l’attenzione delle ricerche sull’area pontina nel confine segnato dalla cronologia corrispondente alla vita del regime (Liguori 2012). Eppure gli interrogativi emersi tra la metà degli anni ’70 e la fine degli anni ’90, nel solco delle questioni problematiche dei processi di modernizzazione, se evasi, avrebbero aperto cantieri di ricerca, e risposto a numerosi quesiti, ben oltre il periodo del fascismo, su cui invece si sono soffermati in prevalenza. Come scriveva Giuseppe Barone sulle prospettive che si profilavano per gli storici che avrebbero abbracciato tali temi:

Dietro la presunta neutralità delle scelte tecniche riguardanti le sistemazioni idrogeologiche della montagna e della pianura, lo storico non può eludere le lotte di potere che si svolgono attorno al controllo del territorio, delle sue risorse, del suo assetto fisico ed economico. Bonifiche, irrigazioni, trasformazioni fondiarie […] comportano soprattutto uno scontro aspro tra gli uomini, tra gruppi divisi da vecchie e nuove fratture di classe, da tradizionali e moderni conflitti di egemonia (Barone, Gambi e Rossi-Doria 1985, 966).

Queste lotte di potere evocate da Barone si svolsero nelle Paludi pontine con particolare acrimonia durante il periodo precedente al ventennio mussoliniano – quando esse invece furono neutralizzate dal progetto ruralista del regime e dalla sua bonifica “proconsolare”, che esautorò le comunità locali nel processo di trasformazione. Se dall’Unità fino al ’29 il territorio non era stato teatro di eventi enfatici come la costruzione di nuove città, la colonizzazione interna, o l’appoderamento mezzadrile, stava sopravvenendo una svolta decisiva – il passaggio della terra dall’aristocrazia alla borghesia, la meccanizzazione della bonifica, la deforestazione, il risanamento igienico – per comprendere, tra le altre cose, proprio le premesse della bonifica mussoliniana (Biasillo 2018; Martone 2016). Si tratta allora, come mette in evidenza Biasillo, di non disperdere l’insieme di quei processi storici, co-evolutivi, tra territorio e ambiente, che furono cancellati dall’esito decretato dal regime, ma di percorrerne anzi alternativamente fino in fondo le aspettative e gli interessi che li muoveva a partire da un momento di valorizzazione anche istituzionale, come detto, degli ambienti umidi. Se “la riflessione storica sugli interventi di bonifica si giustifica […] soprattutto come motivo di conoscenza dei meccanismi originari di formazione del sistema contemporaneo di organizzazione territoriale”, come ha scritto Giorgio Simoncini (1987, 12), nel processo in atto, in cui l’orizzonte non solo politico ma anche culturale è informato a progetti di rinaturalizzazione, si fa strada il necessario recupero di quelle testimonianze delle diverse possibilità. La storia ambientale, nella sua naturale propensione al “controfattuale”, può farsi carico di questa necessità conoscitiva volta tutta al presente. I casi da approfondire per comprendere le logiche alla base dei mutamenti che stavano avvenendo sul territorio sono diversi, e ancora poco conosciuti. Il progetto fallito di Angelo Omodeo chiarisce per esempio che la trasformazione della regione laziale non avesse un unico destino asciutto. Ma anche le iniziative come quelle di Pro Pontina dell’ingegnere Barra-Caracciolo o la stessa scalata imprenditoriale del Consorzio di Piscinara da parte di Gino Clerici proverebbero con sufficiente certezza che la lunga persistenza di quell’ibrido tra palude e territorio bonificato era un luogo di aspettative e presupposti di interventi di modificazione, ambientali e socio-culturali, ma anche di interessi contrapposti, di ragioni conflittuali, di modelli di gestione differenti, di modernità e contraddizioni, pienamente in corso in età liberale.

Nell’opera di rivalutazione del periodo precedente alla bonifica – non in senso qualificante, ma rispetto all’attenzione sul tema ricevuto dalla storiografia finora – possono così emergere le voci degli attori locali, delle dinamiche sociali, naturali e politiche che intersecano, in grado di conferire alla storia dell’area “più informazioni, più categorie, dati meno indifferenziati e una diversa varietà di comportamenti” (De Nicolò 2010, 24).

Sempre in tal senso il lavoro di Biasillo schiude una riflessione su alcuni elementi di lungo periodo che riguardano i rapporti tra umani e ambiente nella regione attraverso l’approfondimento delle cause e del contesto dei processi di trasformazione avvenuti su quel peculiare habitat, che aspetta di essere indagato ancora più a fondo.

Prospettive di ricerca aperte

Già negli anni ’70 – mentre assumeva una forte rilevanza la critica ecologica – alcune istanze ambientali vennero recepite nella ricerca storica sulle paludi e sulle bonifiche. Queste non si consolidarono però in una stagione di studi con questa accentazione, nonostante i presupposti. In una ricognizione complessiva nell’ambito di quegli studi, ormai oltre vent’anni fa, difatti, Giacomina Nenci sottolineava (2004, 44-45) che gli spazi sul tema per la storia ambientale nella storiografia italiana rimanessero stretti. Solo molto di recente si sta verificando una controtendenza e una riapertura in tal senso (Piastra 2011).

Il caso dell’area pontina è esemplificativo a tal proposito. Una prima critica di stampo ambientalista veniva da Antonio Cederna, figura intellettuale fondamentale nella storia del protezionismo italiano. Ne La distruzione della natura, del 1975, denunciava la demolizione della Selva di Terracina, la più grande foresta planiziale del paese, a causa della bonifica avvenuta negli anni ’30 del Novecento a opera del fascismo. Successivamente un antichista, Giusto Traina, rilevò (1987, 13), in un’esplicita critica a quella stagione di studi di storia dell’agricoltura, quanto fossero stati poco approfonditi gli habitat umidi della regione pontina, rivolgendo un invito a rivedere le ricerche sull’area uscendo dalla prospettiva della bonifica. L’idea di un ambiente “originario”, ordinato e agricolo, esistente ai tempi dei Romani, si spiegava con la fortuna del topos della “barbaria palustre” dovuto a Ludovico Antonio Muratori e a una scorretta interpretazione delle fonti antiche che declinava in chiave svalutativa le paludi “a partire dal Settecento riformatore”, attecchita fin negli studi contemporanei. L’adesione incondizionata al sistema delle bonifiche, non solo nel caso pontino, implicava in realtà una scarsa attenzione alla storicizzazione della funzione dei paesaggi umidi da parte della maggioranza degli studiosi, tranne che per alcuni notevoli eccezioni, come nel caso di Vito Fumagalli. Un paradigma rovesciato a partire dagli anni ’90 nell’alveo degli studi medievistici e dell’età moderna. In questi, l’analisi dell’ambiente svolgeva un ruolo decisivo nel comprendere anche gli aspetti relazionali e in sostanza economici, produttivi e sociali tra le comunità umane e il mondo naturale ricco e complesso degli habitat umidi. Iniziavano così a essere esaminati a fondo i rapporti tra migrazioni e insediamenti, tra incidenza malarica e sfruttamento ambientale, tra territorializzazione e vincoli naturali, tra caratteristiche culturali e criteri di adattamento. In questo contesto una rinnovata attenzione veniva posta anche sulle caratteristiche specifiche delle Paludi pontine (Caffiero 1992; Caciorgna 1996). A ciò aveva contribuito l’elaborazione teorica avvenuta nel corso di due decenni e il cui esito sta maturando oggigiorno aprendo nuove ipotesi di ricerca a partire dal problema posto dall’ambiente nella storia.

Questo ha smesso di essere assunto come semplice “inerte fondale”, ma piuttosto preso come protagonista, oggetto di indagine, agente e dato storico, risultato dell’interazione fra natura e agire umano (Bevilacqua 2000, 10). L’ambiente come oggetto di studio è un problema storiografico che ha suscitato un dibattito lungo e complesso e che attualmente si è arricchito con nuove categorie interpretative: quella ormai conosciutissima di “Antropocene” – stante a indicare una nuova era geologica dovuta a cambiamenti di origine antropica – ha conosciuto, anche a causa della drammaticità dei cambiamenti climatici a cui assistiamo, un notevole sviluppo (Corona 2021). D’altronde, la storia ambientale per definizione è animata da istanze che si configurano come “lettura storica dei problemi ambientali del presente, analisi dei processi attraverso i quali essi si sono venuti formando” (Corona 2004, 160).

In tal senso appare evidente come il controllo sulla natura derivante dall’intervento umano, in particolare l’irreggimentazione delle acque, il disboscamento, le conseguenti variazioni microclimatiche – ma anche la piscicoltura, la selvicoltura e la transumanza – siano temi cruciali per questa storiografia, che propone una critica complessiva al principio su cui si innesta la bonifica, e cioè quello di “un ecosistema naturale scarsamente utile all’uomo sostituito con un altro utile all’uomo” (Ciuffoletti 1987, 35). L’azione umana modificatrice, e la tecnica, vengono osservate come atti non neutrali. Anche rispetto alla malaria, con cui si è giustificata nel corso del tempo la necessità dell’intervento umano, la storiografia ha sempre più ridimensionato il ruolo che ha avuto la bonifica nel contrastarla: la fine del morbo provocato dalla zanzara anofele sarebbe, secondo queste interpretazioni, un sottoprodotto del processo di prosciugamento dei terreni, più che una sua effettiva conseguenza diretta (Novello 2009; Snowden 2008).

Sempre su questa linea l’erronea percezione associata agli ecosistemi paludosi di arretratezza sociale e culturale, su cui il fascismo aveva lungamente insistito nella sua campagna propagandistica è stata rovesciata da numerosi studi di carattere antropologico (Breda 2000; Ingold 2000). Infine, accanto alla classica critica sul depauperamento della biodiversità provocato dall’annientamento degli ambienti umidi, si è spostata l’attenzione sulle conseguenze materiali verificatisi a seguito della bonifica. Diversi studi hanno osservato, esaminando diacronicamente un’area, che il dissodamento delle terre e la manomissione dei quadri naturali sono stati la causa di eventi problematici: i casi di subsidenza o salinizzazione del suolo sono esempi di questo tipo (Bertoncin 2000; Alberti 2017; Budoni et al. 2018). Anche l’eccessiva urbanizzazione, resa possibile da uno sfruttamento delle terre di pianura – che una volta bonificate si sono prestate (spesso più facilmente di altre) all’insediamento di tipo urbano, commerciale o industriale – ha comportato in parte la distruzione persino di quanto di buono era stato realizzato per accrescere lo sviluppo agricolo, questione che poneva Manlio Rossi-Doria già alla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo (Barone, Rossi-Doria e Gambi 1985). In tal modo, la bonifica – in particolare quella moderna (diversa da quella tradizionale per la sostanziale differenza dell’applicazione energivora delle macchine e quindi della velocità con cui avviene) – è stata letta come un processo ambientale complesso e in itinere, e non più un naturale, inevitabile, passaggio dal selvaggio e marginale ecosistema umido a uno di tipo civilizzato e agricolo. Così che, come ha scritto David Blackbourn (2006, 68), risulta evidente che a differenza degli ingegneri idraulici, per gli storici è ben chiaro che lo stato dell’arte sulla bonifica e sulle paludi è sempre provvisorio.

Da questo dibattito sono inoltre emerse diverse ricerche sulle caratteristiche proprie del fascismo rispetto alle relazioni eco-sistemiche di dominio instaurate sulla natura – bonifica, ma anche autarchia, progetti elettro-irrigui – funzionali al discorso politico del regime (Armiero, Biasillo e Hardenberg 2022). L’Agro Pontino, in particolare, è stato indagato rispetto al progetto di bonifica umana (Dogliani 2014) del regime – luogo di formazione del prototipo di italiano perfetto per l’Impero – una sorta di totalitarismo territoriale basato sulla supremazia della razza, ben riassunto dallo slogan del “riscattar la terra, con la terra gli uomini e con gli uomini la razza”.

Abbiamo delineato finora aree di ricerca promettenti, ma che necessitano di ulteriori studi. Sono rimaste poche difatti le analisi che hanno preso in considerazione quel periodo tra la bonifica di Pio VI di fine Settecento e quella del regime, e cioè tra la più riuscita opera di lotta alla palude e il suo totale prosciugamento. Rimane irrisolta peraltro la logica dicotomica entro cui si è consumata una semplificazione eccessiva e l’adesione cristallizzata a quei “sistemi” ecologici, ma anche sociali, chiusi e talvolta manichei. Al di là degli auspici indicati da Traina, rimane cioè insita nella ricerca sulla regione pontina la schematicità con cui si guarda a due assetti territoriali, mai considerati come un passaggio diacronico, un adattamento frutto di un’istituzionalizzazione continua e una negoziazione tra comunità e risorse ecosistemiche. È mancato in questo senso nel corso degli anni, specie nell’ambito delle analisi degli storici contemporaneisti, un focus su quell’ibrido ottocentesco e di primo Novecento, sui mutamenti apportati dai processi di municipalizzazione nell’ambito delle risposte localizzate delle politiche del nuovo stato unitario, ma anche sul riassetto comunale dell’età liberale, sul ruolo delle donne nella bonifica oltre il mito culturale di Maria Teresa Goretti, ma anche l’evoluzione e la presa sulla popolazione dei partiti di massa o la spinta modernizzatrice della tecnica e del suo ruolo per l’egemonia delle classi dirigenti locali e nazionali.

Il libro di Biasillo contribuisce a colmare queste lacune e a rinnovare le prospettive sugli studi della palude.

Un ulteriore merito dell’autrice è quello di non sottrarsi, forse anche involontariamente, ai temi della letteratura territorialista, che scaturiscono dalla ricerca dell’origine dei fenomeni problematici che affliggono le aree marginali. Un ambito di ricerca percorso in parte anche da Piero Bevilacqua (Magnaghi 2013), storico dell’agricoltura, storico dell’ambiente, e curatore della prefazione del volume. Analizzare in che modo sia avvenuta la recisione di quei legami e di quei rapporti tra “sociale” e “naturale” che Biasillo, riferendosi al caso di Terracina, riassume più volte con il termine “patto”, significa ampliare quella tesi proveniente dalle fila degli studi territorialistici del rapporto vivo e storicizzabile tra comunità, risorse, e forme istituzionali di governo; il perché e in quale momento questo “patto” sia venuto meno, se nella nascita della proprietà privata individuale come caratteristica esclusiva della gestione delle risorse, a discapito delle spettanze collettive o di altri modelli di sfruttamento, o nelle contese emerse nella municipalizzazione dei territori, è un interrogativo spesso posto da tali studi.

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  • Zucchini, Mario. 1956. “Ampiezza delle aziende e delle proprietà dell’agro romano dalla metà del secolo XVII alla metà del secolo XX.” Rivista Italiana di Economia, Demografia, Statistica 10: 245–260.

Note

1. La distinzione tra storia del territorio, storia locale, storia “glocale” e storia regionale corrisponde spesso a un’ortodossia lessicale più che a una reale differenziazione tematica secondo Marco De Nicolò. Egli scrive che “la storia ambientale può essere indagata sia per aree naturali, sia per aree istituzionali”: un’osservazione particolarmente valida nel caso del lavoro di Biasillo, che ricade nell’intersezione di entrambe le casistiche.

2. Uno degli esempi più citati a proposito è il giudizio di Sandro Pertini: “Cinquant’anni fa Mussolini progettò la bonifica pontina – ricordava Sandro Pertini – e riuscì a far crescere il grano dove c’erano paludi e malaria. Ricordo che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se questo continua così siamo fregati. Non continuò, purtroppo. Preferì buttare il paese nel disastro di una guerra crudele di cui portiamo ancora i lutti e le ferite. Se avesse continuato a fare bonifiche, sarebbe stato certamente meglio. Anche se oggi […] io mi troverei ancora in galera” (Gregoretti 1984).