Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Il potere vicario delle principesse: prassi di consenso nei principati dell’Italia quattrocentesca

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Abstract

Il potere principesco dell’Italia quattrocentesca era un potere in costruzione in uno stato di strutturale emergenza. In questo contesto, le principesse giuocarono un ruolo sovente cruciale di costruzione e consolidamento del consenso alla dinastia di appartenenza e di mantenimento dell’integrità del suo territorio. Il saggio si propone di esaminare qualche episodio di questa storia complessa e interconnessa: la creazione di reti di supporto nel caso di un signore ‘nuovo’ sposato a una principessa ‘locale’ (Milano) e l’importazione di linguaggi politici innovativi da parte di una principessa di sangue reale (Ferrara). 

The princely power in 15th-century Italy was a power under construction in a state of structural emergency. In this context, princesses played an often crucial role in building and consolidating consensus to the dynasty they belonged to and maintaining the integrity of its territory. The essay aims to examine a few episodes of this complex and interconnected history: the creation of support networks in the case of a ‘new’ lord married to a ‘local’ princess (Milan) and the importation of innovative political languages by a princess of royal blood (Ferrara).

La regina Isabella e il popolo di Napoli

Nel luglio 1460, dopo che Ferrante, re di Napoli, era stato sconfitto a Sarno dall’esercito guidato da Giovanni d’Angiò, figlio di re Renato, antico e irriducibile pretendente al trono napoletano, l’emergenza bellica mobilitò a Napoli e nel Regno tutte le risorse disponibili, a partire dalla regina Isabella di Chiaromonte, rimasta nella capitale a governare in vece del marito impegnato a coordinare lo sforzo bellico in Terra di Lavoro [1]. Lettere, cronache e storie ci testimoniano l’impegno personale della regina: l’ambasciatore milanese alla corte aragonese, Antonio da Trezzo, scriveva il 27 luglio a Francesco Sforza, che “Madama la regina sta tuto el dì a Sancto Petro martire ad retrare dinari da citadini et populari et ogni hora se ne cava [2]”; il cronista napoletano Notar Giacomo ricordava, anni dopo, come “in Sancto Petro Martiro stava la regina Ysabella, consorte de dicto signore re, et mandava a chiamare più citadini che li prestassero denari […] e stava con uno bacile como chi adomandasse la elemosina” [3]. Infine, le lettere stesse della regina al duca e alla duchessa di Milano rivelano il suo ruolo nell’emergenza (Prisco 2021). La nota più interessante però ci viene dal De bello Neapolitano di Giovanni Pontano: il cancelliere e umanista napoletano aveva vissuto personalmente quel che racconta nel De bello (avesse o meno composto l’opera durante gli eventi o decisamente dopo non importa qui) e la sua testimonianza è molto significativa [4]. Il Pontano riconosce l’estrema urgenza di recuperare danaro per supplire agli effetti immediati della sconfitta, ma ci mostra la regina non mentre chiede soccorso davanti alla chiesa, ma intenta a mettere in opera una strategia di maggiore effetto. Isabella “nunc in templis, nunc publicis in lociis sese civibus ostendere, praeferre parvos liberos”. La regina si mostrava ai cittadini, metteva loro davanti agli occhi i figli fanciulli: li definiva nipoti di Alfonso il Magnanimo, che tanto aveva fatto per il popolo napoletano (“qui de populo Neapolitano tantopere esse bene meritus”), e con forza ne sottolineava la “napoletanità” e l’italianità, di contro alla gallica insolentia degli avversari del re (“cives esse Neapolitanos, Italici generis, apud ipsos genitos, altos, educatos”), pronti a condividere con i loro concittadini onori e ricchezze sino alla vecchiaia. E con questa strategia retorica, con questo insieme di atti e di parole, riusciva ad animare quanti non erano solleciti ad agire a favore della corona, ad aumentare lo slancio di quanti lo erano già e a confermare l’appoggio dei più fedeli, guadagnandosi personalmente la stima e l’ammirazione di tutti (“lentos excitabat, excitatos impellebat, impulsos confirmabat, ipsa magna et excellens habebatur”, Pontano 2019, 277 [5]).

La situazione napoletana è esemplare di quanto si cercherà di approfondire qui: un regno, una emergenza bellica che va a rivelare e potenziare una fragilità dinastica (non solo gli aragonesi regnavano a Napoli da non molti anni e il consenso dei sudditi era ancora recente, ma Ferrante era figlio naturale di re Alfonso, legittimato, accettato dal papa come sovrano e, fin dal 1443 e mediante giuramento, dai baroni napoletani, ma pur sempre contestabile), un frangente particolarmente sfavorevole (le settimane immediatamente successive a una pesante sconfitta), un elemento del quadro – in questo caso una donna, la regina – che elabora strategie di costruzione (o ricostruzione) del consenso per superare il momento più difficile. Quel che in particolare interessa in questo caso è dunque che, in un contesto che somma in sé una buona porzione degli elementi di debolezza che minavano con regolarità la stabilità e il funzionamento dei regimi principeschi e regi tardomedievali, una donna non solo era nella condizione di esercitare, con un consiglio di reggenza, la luogotenenza formalmente attribuita dal re all’undicenne figlio Alfonso, ma dava anche prova di capacità di iniziativa propria e di consapevolezza strategica nel consolidare il sostegno dei napoletani – il “popolo” di Napoli – a una dinastia che sarebbe uscita dal conflitto rafforzata e trasformata [6].

Il contesto: storiografia e storia

Il tema centrale intorno a cui si interroga il dossier di Storicamente in cui questo saggio si inserisce ruota attorno ai mutamenti strutturali imposti a un reggimento politico dalla realtà (o dalla narrazione) di una emergenza. La necessità (di nuovo, reale o conclamata) di mantenere l’ordine costituito, garante del bene comune e, come si diceva nell’Italia del Quattrocento, della “quiete”, della “tranquillità”, della pace in una parola, di principi, governi, sudditi e cittadini, impone e impose soluzioni alternative che tale ordine in qualche caso finirono per mutare o quanto meno declinare secondo modalità diverse rispetto al passato recente che pure intendevano difendere o mantenere. Per il tardo medioevo italiano, il caso più esemplare di questa dinamica è stato quel che si è letto a lungo come lo scontro militare e politico tra poteri a vocazione territoriale e attitudini aggressivamente espansive, ma a reggimento costituzionalmente diverso: lo scontro cioè, per usare una chiave di lettura che risale alla tradizione storiografica di Hans Baron (e della risalente lettura “democratica” dei comuni italiani), tra la libertà (repubblicana), incarnata per Baron nell’Umanesimo civile di Firenze – ma talora impersonata anche da un’altra repubblica dai riferimenti ideologici più imperiali, Venezia – e la giustizia (del principe), rappresentata dai duchi di Milano a partire da Gian Galeazzo Visconti [7]. Già dagli anni Settanta del secolo scorso la questione è stata rivista e in buona misura rimodulata dalla storiografia, che ha d’un lato portato l’attenzione sul piano delle pratiche e delle concrete modalità di governo (riconsiderando quindi la natura degli “stati” tardomedievali italiani, nel contesto di una parallela revisione a livello europeo [8]) e ha contemperato dall’altro la lettura della trattatistica politica e giuridica con le scritture di governo e i consilia giuridici (in parte riscrivendo la storia dell’Umanesimo politico e delle sue diverse forme [9]).

Questi dibattiti non hanno solo trasformato la ricerca sullo “stato” tardomedievale e sui suoi linguaggi (alti o bassi che fossero), ma hanno anche aperto la porta alla considerazione di altri attori politici e altre strategie, dai “legami parentali, di clan e di fazione o di patronato e clientela” (Chittolini 1994, 562) alla capacità di iniziativa delle donne ai vertici della società politica dei principati (Arcangeli, Peyronel 2008). È in questa direzione che muove il presente saggio: qui ci si porrà la domanda di come, in un quadro di una emergenza di qualche natura (una guerra, una successione complessa, una improvvisa vacanza dal governo da parte di un principe), una principessa (la moglie, nella maggior parte dei casi di cui si terrà conto) fosse in grado di esercitare quel che il titolo definisce, artigianalmente, un potere vicario per rispondere all’emergenza in questione grazie all’uso di antiche o nuove risorse (discorsive o materiali), facendo appello alla coesione sociale del corpo politico e insieme trasformandone (in parte e più o meno irreversibilmente) le pratiche di governo.

È necessario però spiegare la preliminare definizione di “potere vicario” delle principesse adottata nel titolo. Il tema del potere esercitato dalle donne ai vertici delle società aristocratiche (italiane, ma anche europee) nel tardo medioevo si è infatti fatto strada molto lentamente negli studi sulle donne medievali, in particolare rispetto al potere pubblico: già nel 1988 Lucia Ferrante, Maura Palazzi e Gianna Pomata scrivevano che “nessun ramo della storiografia ha ignorato le donne (come oggetto o soggetto di rapporti di potere) quanto la storia politica, tradizionale roccaforte della storiografia più ufficiale” (Ferrante, Palazzi, Pomata 1988, 8) e nel 2012 Serena Ferente si chiedeva, ancora a quella data, la ragione per cui “i termini ‘le donne’ e ‘lo Stato’ sono accostati così di rado nella storiografia” (Ferente 2014, 313). La distanza si sta colmando, innanzitutto grazie a una serie di ricerche puntuali su singole principesse, poi a qualche comparazione e infine ai primi tentativi di sintesi e di interpretazione [10]. In linea molto generale, si può ipotizzare che fossero tre le grandi regioni in cui, nell’Italia tardomedievale principesca e regnicola, una donna poteva esercitare una frazione di potere personale più o meno consistente e più o meno geograficamente o funzionalmente definita. In quanto donne, queste signore esercitavano infatti personalmente forme diverse di potere pubblico, inquadrato nelle funzioni di governo diretto – giurisdizione, finanze, gestione amministrativa del dominio, difesa, persino guerra aperta se necessario – in due modi: innanzitutto formalmente, come reggenti o grazie a una delega di funzioni su di uno spazio politico determinato; in secondo luogo attraverso una gestione condivisa delle pratiche di governo quotidiane, in caso di assenza temporanea del marito dal centro del potere o, anche in sua presenza, in merito a questioni particolari (per esempio di natura dinastica o diplomatica, ma anche interna [11]). Infine, come gli uomini, ma con tonalità diverse e un ventaglio più ampio di possibilità e di linguaggi, potevano esercitare forme di potere più indirette e informali, che potremmo riunire sotto il concetto generale di potere relazionale: in questa regione ricadevano anche le varie modalità di costruzione di sistemi di patronato (o matronato: matronage o maternage, come la ricerca talora distingue) di natura culturale o spirituale [12]. L’idea di potere vicario compendia le prime due forme che si sono delineate: d’un lato, la reggenza e la delega (quest’ultima più o meno formalmente definita: più chiara nel Regno napoletano, di sicuro assai più indefinita nelle forme e nella natura nei principati settentrionali); dall’altro, il potere quotidiano e condiviso, la capacità – tecnica e politica – di esercitare funzioni di governo nell’emergenza e nella ordinarietà perché capaci di farlo e politicamente e amministrativamente esperte.

A parte il contesto regnicolo da cui siamo partiti e cui non torneremo direttamente, nei principati settentrionali come Milano, Ferrara, Mantova, occorre poi considerare che la cifra dell’autorità della coppia al governo, per tutto il Trecento e in buona misura anche del Quattrocento, era la fluidità e la molteplicità d’uso delle risorse politiche disponibili, in sintonia con i contesti e le situazioni. In gran parte, l’Italia centro-settentrionale era stata, fin dall’età carolingia, territorio imperiale, fatta eccezione per una fascia di città e territori che andavano da Perugia alla Romagna e che erano diventati, nel corso dei secoli, di pertinenza papale. Federico I di Svevia nel 1183 dovette riconoscere alle città comunali di area imperiale parte di quel che ancora si chiamava il regnum Italiae, una serie consistente di autonomie politiche, ma esse rimasero formalmente soggette all’autorità sovrana dell’impero; la stessa forma di sudditanza, anche se con modalità diverse, legava a Roma le città e le signorie soggette al papato, estensione crescente dell’originario patrimonium Sancti Petri. Tra il XIV e il XV secolo, queste città subirono una duplice trasformazione. Da un lato, la struttura politica di alcune di esse assunse una configurazione definitivamente signorile, affidando il governo della cosa pubblica a un signore (podestà, capitano del popolo, vicario imperiale): queste cariche, inizialmente a tempo, poi vitalizie, vennero monopolizzate da individui e poi da lignaggi che nel giro di pochi decenni divennero vere e proprie dinastie trasformando – quelli che ci riuscirono – le signorie in principati imperiali o papali. Dall’altro, la geografia del potere si asciugò, per dir così: alcune città (sia signorili sia repubblicane) si espansero territorialmente a scapito di altre, che divennero, da autonome che erano, dominate, mentre le città principali assunsero lentamente il ruolo di dominanti. L’autorità dei principi-signori dell’Italia del XIV-XV secolo fu dunque il risultato di un complesso intreccio di fattori, ulteriormente complicato da sequenze prolungate di conflitti e composizioni, scandito da tentativi più o meno riusciti di imporre egemonie sovraregionali su quanto restava di un confronto trecentesco accanito e convulso tra i diversi poteri dell’ampia regione tra le Alpi e gli Appennini [13].

In questo contesto complesso, le signore e le principesse giuocarono un ruolo potenzialmente significativo, sovente cruciale, di costruzione e consolidamento del consenso alla dinastia di appartenenza (originaria o acquisita) e di mantenimento dell’integrità del suo territorio.

Fragilità ed emergenze

I maggiori principati dell’Italia quattrocentesca continuavano, nonostante il rafforzamento territoriale e dinastico, a soffrire però di almeno due fragilità sostanziali e ricorrenti. La prima, comune anche ai reggimenti repubblicani, era legata all’alto tasso della conflittualità peninsulare, che l’accordo della lega italica del 1455 non aveva risolto, a dispetto della ricostruzione posteriore di Machiavelli e Guicciardini [14], ma che aveva in qualche modo “solo” inserito dentro a un complesso sistema di controlli incrociati. La lega infatti introdusse un quadro normativo universalmente sottoscritto che vincolava le potenze maggiori a intervenire in caso una di loro o uno dei loro adherentes et recomendati (vale a dire di quanti avevano sottoscritto l’accordo generale come alleati “minori” di una o dell’altra delle quattro potenze contraenti e del papato, che intervenne come garante e insieme come potere territoriale) avesse intrapreso azioni aggressive contro qualcun altro [15]. Il risultato non fu l’auspicata scomparsa delle ostilità, la vagheggiata “quiete d’Italia”, ma piuttosto, da una parte, il coinvolgimento necessario di tutti in ogni conflitto, dall’altra, (per compensare questo effetto) il sovrapporsi di accordi particolari all’interno dell’accordo generale per gestire su di una scala più locale gli inevitabili scontri che si fossero innescati per una ragione o per un’altra. La lega di fatto non fece che prendere atto delle (inevitabili?) fiammate conflittuali anche importanti nel contesto generale, con la complicazione di costringere le potenze maggiori a intraprendere (o sostenere di stare intraprendendo) azioni volte a fermare gli scontri. Una prova dell’effetto complesso della lega generale sulla conflittualità peninsulare si ebbe poco dopo la sua stipulazione, in occasione dell’emergenza da cui si è partiti, quella della guerra scoppiata appena Ferrante d’Aragona successe al padre Alfonso sul trono di Napoli. La lega non riuscì a impedire la guerra del Regno: si potrebbe dire, al contrario, che ne alimentò l’ampiezza e la durata imponendo alle altre potenze maggiori, in particolare Milano e Firenze, di intervenirvi in soccorso all’aragonese, e approfondendo le difficoltà diplomatiche tra le sue componenti di fronte alla riluttanza di alcuni (in questo caso i veneziani, che erano impegnati, quanto a loro, a sopravvivere nel Levante ottomano) a fare la loro parte a difesa del re.

La seconda fragilità, caratteristica dei soli regimi principeschi, era legata a una questione più direttamente interna, per dir così, ovvero alla legittimità ancora problematica di buona parte di essi. Innanzitutto, si trattava di organismi politici il cui reggimento in forma di principato era recente e si basava sulla debole combinazione di una legittimazione dall’alto (da parte dell’impero e del papato) e di un problematico consenso dal basso. La legittimazione imperiale e papale nella forma della concessione di titoli di natura principesca (duchi e marchesi), legati alla dinastizzazione di alcuni lignaggi e al riconoscimento del loro potere in forme aristocratiche (e non funzionariali, come ancora potevano essere i vicariati imperiali e apostolici), era una pratica relativamente nuova per i territori italiani ed era non solo da perfezionare nelle modalità (per esempio, era oggetto di contrattazione la successione: in qualche caso, uno di questi principi ventilò la possibilità di scegliere il secondogenito invece del primogenito, o di passare il titolo a una figlia in assenza di figli maschi), ma anche soggetta alle complesse vicende dell’autorità imperiale e papale [16]. L’impero era infatti tormentato dalle scosse derivanti dal lento imporsi di un sistema di successione dinastica a una carica formalmente ancora elettiva [17]; il papato, di nuovo romano dopo la lunga fase avignonese, scismatica e conciliare, era nel pieno processo, diverso ma parallelo, di definizione del potere dei papi rispetto ai cardinali e ai concili e di costruzione di una base territoriale per le “dinastie” pontificie [18]. Anche il problema del consenso dal basso, da parte cioè dei diversi componenti delle società politiche dei nuovi principati, era complesso: non si trattava “solo”, come nel primo Trecento, di ottenere l’approvazione dei consigli comunali alla presa di potere di un individuo in una città [19], ma occorreva negoziare e costruire il consenso di una varietà di soggetti territoriali diversi, e non a un uomo soltanto, ma alla dinastia (al principe cioè e anche alla principessa e ai loro eredi in proiezione futura) [20]. Oltre a queste difficoltà strutturali, si aggiungeva in qualche caso una fragilità specifica, legata all’oppugnabilità dell’erede di turno: primo fra tutti, il ducato milanese, che se era stato il primo dominio nell’Italia imperiale ad avere ottenuto il titolo ducale con Gian Galeazzo Visconti alla fine del Trecento, aveva anche attraversato una crisi dinastica alla morte senza eredi maschi di Filippo Maria Visconti, nel 1447, tanto radicale da (ri)condurre Milano a un reggimento collegiale di stampo comunale e all’ibrido e avventuroso esperimento della Repubblica ambrosiana [21]. La discontinuità era stata sanata nei fatti dalla ascesa al ducato del capitano e conte Francesco Sforza in virtù del suo matrimonio con Bianca Maria, figlia naturale legittimata del duca Filippo Maria. Tale esito – imposto con le armi e la forza della situazione politica generale – non venne però mai riconosciuto da una investitura imperiale e introdusse negli sforzi di costruzione del potere ducale sul principato più ricco e più potente dell’Italia centro-settentrionale una pericolosa debolezza, che ne avrebbe sbilanciato, sul medio periodo, le scelte politiche [22]. Del resto, anche il passaggio da Alfonso il Magnanimo a Ferrante a Napoli, come si è visto, fu reso problematico sia dall’origine illegittima di Ferrante, sia dal difficile radicamento identitario nell’Italia continentale della dinastia aragonese.

Si tornerà in conclusione sul nesso conflittualità/emergenze di governo: qui si considererà piuttosto nel dettaglio la questione del precario radicamento interno di questi regimi, della difficile costruzione del consenso nelle prime fasi di consolidamento di un principe o di una dinastia e del ruolo delle principesse in queste congiunture a partire da due casi particolari, che serviranno a illuminare le caratteristiche generali di un fenomeno ricorrente.

La successione a Filippo Maria Visconti
e il ruolo “secondario” di Bianca Maria (1450-1468)

L’ascesa al soglio ducale di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti a Milano implicò una serie di aggiustamenti non banali in un contesto reso precario dallo stato di instabilità del ducato nella primavera del 1450 e dalla pressocché immediata aggressione veneziana due anni dopo, nel 1452. La situazione metteva sul tavolo della nuova coppia ducale una serie di variabili interessanti. Intanto, non era la duchessa che veniva da fuori, come di norma, ma il duca, non milanese né lombardo di nascita; in secondo luogo, per quanto in origine illegittima (era figlia di Agnese del Maino, di antica famiglia ghibellina milanese), la sposa era di nascita significativamente più elevata dello sposo. Francesco era infatti nato nel 1401 dal condottiero Muzio Attendolo, più noto come Sforza, e da Lucia da Torsciano; era, come il padre, un condottiero, e portava il titolo di conte in ragione di antiche investiture napoletane: era stato infatti insignito della contea di Tricarico, nel Regno, da re Ladislao, per cui il padre militava nel 1412 e della contea di Ariano Irpino dalla regina Giovanna II. Uno straniero, potente di armi e relazioni (non di territori), lungimirante e ambizioso quanto bastava, ma di nobiltà incerta [23]. Il matrimonio dei due era stato il risultato di una tortuosa e altalenante negoziazione, il cui esito era stato per molto tempo incerto: le élites milanesi e lombarde lo avevano a lungo visto più come un rischio carsico che come una reale possibilità. Filippo Maria aveva poi assegnato a Bianca Maria come parte della dote (una “anticipazione”, la definisce Catalano 1968), nel 1432, al primo fidanzamento, Cremona, Castellazzo, Bosco (oggi Marengo) e Fregarolo (questi ultimi borghi tutti nell’alessandrino); poi, nel 1438, al posto di Cremona, Asti e Tortona come feudi; infine, al momento delle nozze, il 25 ottobre 1441, Cremona e Pontremoli. A partire dal matrimonio, dunque, pochi giorni prima che lo stesso Sforza arbitrasse in prima persona una pace generale tra Milano, Venezia, Firenze grazie a un colpo di mano che lo aveva visto diventare, da capitano di uno dei due fronti, arbitro super partes, Francesco aveva ricevuto direttamente dagli officiali viscontei il controllo della città di Cremona, bene dotale di Bianca (nell’arbitrato si intitolava infatti già Cremone dominus, Dumont II, 108-115): uno straniero, si diceva, che aveva però un piede ben dentro al ducato già nove anni prima della sua ascesa al potere a Milano. La determinazione dello Sforza a non agire come “principe consorte” ma ad assumere in prima persona il controllo del ducato era emersa anche qualche anno dopo, allorché – come sottolinea Nadia Covini – il condottiero aveva rifiutato l’offerta di una parte delle élites milanesi impegnate nel governo della Repubblica ambrosiana di assumere la guida del ducato in quella veste (Covini 2008, 253). Questa stessa determinazione, essenziale, non semplificò però le cose alla coppia ducale una volta ottenuto l’obiettivo. Se Francesco e Bianca Maria entrarono in Milano senza opposizione, contando su di un immediato sostegno dei milanesi, spossati da tre anni di incertezze e di conflitti, si trovarono poi a guadagnare un consenso che doveva venire da gruppi anche molto diversi fra loro nella capitale e nel ducato e ad amalgamare la compagnia militare e l’entourage antico del nuovo duca (uomini come il calabrese Cicco Simonetta, fulcro della costruenda cancelleria sforzesca, o il pontremolese Nicodemo Tranchedini, cancelliere, ambasciatore e uomo cardine nei rapporti tra lo Sforza, la Firenze di Cosimo de’ Medici, e il papa pontremolese Niccolò V [24]) con le grandi famiglie milanesi, i diversi rami del lignaggio visconteo, le élites delle città dominate e dei borghi, le comunità e le vallate alpine, e di misurare la tenuta di tale consenso in due anni di guerra ai confini del ducato, a est contro Venezia, a sud contro una serie di minori lignaggi padani e a ovest contro i principati d’area piemontese, i Savoia e i marchesi di Monferrato (Covini 1998). In questa direzione, la duchessa scelse per sé, al contrario di quanto accadeva in altri principati (come la Mantova gonzaghesca per esempio) un “ruolo politico influente ma secondario” (Covini 2008, 252), radicato – oltretutto – su risorse patrimoniali non eccezionali per la sua condizione (aveva, sì, interessi patrimoniali vari a Milano e nel contado milanese, tra cui una bella proprietà, Corte Madama, a Castelleone, dove si recava spesso coi figli fanciulli, ma niente di davvero significativo). In una parola, Bianca Maria preferì per sé, per il ducato e per i suoi figli (tre di loro – Galeazzo Maria, Ippolita e Filippo Maria – erano nati tra il 1444 e il 1449, quando ancora i genitori non erano duchi) rinunciare a forme regolari di potere condiviso, ritagliandosi piuttosto uno spazio, peraltro cruciale in questo contesto, di potere relazionale. Gli strumenti principali della duchessa furono la sua cancelleria personale, composta da un numero significativo di scribi e cancellieri – i principali furono Giacomo Sironi, Giovanni e Facino da Sanpietro e Galasso Carcassola – che produssero a nome suo registri e lettere, decreti, lettere di familiarità, di passo, grazie, remissioni, privilegi e diplomi (oltre che missive e responsive), salvo che nei momenti di reggenza, in cui i documenti pubblici a nome del duca vennero redatti dalla cancelleria centrale, [25] e soprattutto la sua domus. Il folto gruppo di gentildonne, gentiluomini, familiari, medici, istitutori e servitori vari che la accompagnavano e la servivano “fu un centro di relazioni moltipolare da cui irraggiò un vasto esercizio clientelare” (Covini 2008, 256). I componenti della domus della duchessa erano infatti i terminali di un intero sistema di relazioni volte a ottenere sostegno e risorse da lei e, grazie alla sua mediazione, dal duca. Si trattava di un microcosmo in cui, alle prime reti relazionali strutturate sui circuiti attivati dai parenti del Maino e Visconti (nei loro innumerevoli rami) e di fede ghibellina si aggiunsero negli anni altre famiglie e altri circuiti milanesi, lombardi e padani, anche attraverso lo strumento dei matrimoni combinati. La scelta di Bianca Maria di lasciare il potere formale e il vertice della decisione politica al marito fu lungimirante: fare altrimenti, condividere l’autorità di governo in modo esplicito, avrebbe indebolito la posizione di lui e di conseguenza il successo della nuova dinastia. Il comportamento della duchessa puntò dunque a tessere una fitta trama di consenso all’interno del ducato: Bianca Maria riuscì a distribuire benefici, grazie e risorse a innumerevoli personaggi, famiglie e lignaggi di cui, in tal modo, assicurava la fedeltà alla dinastia “nuova” cui apparteneva come signora “antica”: il suo ruolo fu prevalentemente quello di rassicurare gli uni (i sudditi) e rafforzare l’altro (il duca e per suo tramite la dinastia), puntando a divenire un referente affidabile non solo per la parte ghibellina e filoviscontea da cui proveniva, ma per tutti i sudditi ducali, anche quelli di orientamento guelfo e popolare. Gli sforzi di Bianca Maria non furono probabilmente sufficienti: Giorgio Chittolini (1990), considerando l’intera esperienza sforzesca, nota come alla base della crisi di fine secolo fosse probabilmente proprio la debole capacità della nuova dinastia a porsi come riferimento reale per i ceti eminenti del ducato. Quanta parte abbia avuto in particolare Bianca Maria in questo mancato radicamento è difficile stabilire in assenza di studi più capillari per l’età della duchessa: quel che mette conto considerare qui è che, nonostante ella esercitasse all’occorrenza quote visibili di potere pubblico e ammantasse le sue concessioni personali di formule derivate da una lunga riflessione giuridica e teorica sulla plenitudo potestatis ed espliciti riferimenti al suo ruolo ducale, la sua azione più capillare e costante fu quella, come riassume Covini (2008, 271), di “donare, remunerare, premiare”.

La successione a Borso d’Este e il ruolo di primo piano
di Eleonora d’Aragona (1473-1493)

Una principessa di una generazione dopo agì in modo diverso per tamponare un problema in parte simile di insediamento e di legittimità: si trattò in questo caso di Eleonora d’Aragona, duchessa di Ferrara. Qui interessa in particolare ricordare un episodio all’inizio della sua vita ferrarese, strettamente legato alla questione della delicatezza della successione al soglio ducale del marito Ercole. Eleonora, figlia di Ferrante e Isabella, sovrani di Napoli (era probabilmente uno dei bimbi che la madre portò nelle strade napoletane nel luglio 1460 da cui siamo partite, essendo nata nel 1450), giunse a Ferrara nel 1473, sposa a Ercole d’Este, duca di Ferrara, Modena e Reggio. La nuova duchessa portava con sé un patrimonio importante di rango, consapevolezza e legittimità: era nipote di Alfonso il Magnanimo (e quindi imparentata direttamente con i sovrani aragonesi anche dal lato iberico: era prima cugina di Ferdinando il Cattolico, e grazie a questi legami era indirettamente legata alle fittissime reti dinastiche iberiche); la sorella Beatrice era regina d’Ungheria, avendo sposato nel 1476 re Mattia Corvino; i figli e le figlie condivisero i legami dinastici aragonesi con gli altri principati settentrionali (Alfonso sposò in prime nozze Anna Sforza, sorella dell’imperatrice Bianca Maria, la seconda moglie di Massimiliano d’Asburgo; Isabella sposò Francesco Gonzaga marchese di Mantova, mentre la sorella minore Beatrice sposò Ludovico il Moro, dal settembre 1494 duca di Milano) o raggiunsero, come Ippolito, la porpora cardinalizia [26]. La coppia ducale si distingueva poi per un paio di elementi particolari. Innanzitutto, l’età di Eleonora: l’aragonese aveva 23 anni quando sposò Ercole; non era dunque giovanissima per l’epoca (si pensi che le figlie Isabella e Beatrice si sposarono entrambe a 16 anni). Giungeva quindi a Ferrara con una consapevolezza di sé e del proprio ruolo non solo incentivata da una educazione raffinata e attenta, ma anche connotata da maturità ed esperienza [27]. Quanto a Ercole, è vero che era il primo dei marchesi, poi duchi di casa d’Este a governare nel Quattrocento i domini estensi come figlio legittimo (era figlio di Niccolò III e di Ricciarda dei marchesi di Saluzzo, la terza moglie di Niccolò), ma la sua ascesa al potere risentiva delle conseguenze di alcune vicende legate alle successioni precedenti.

La questione è lunga e ingarbugliata, ma mette conto riepilogarla perché proprio la sua complessità rivela un tratto significativo delle possibili fragilità dinastiche che ci interessano qui. Niccolò III (nato naturale da Alberto V nel 1383 e legittimato nel 1391, Menniti Ippolito 1993) ebbe tre mogli e innumerevoli figli e figlie, nella maggior parte dei casi naturali e, pur cercando di regolare la sua successione, non poté fare molto se non adottare soluzioni difficili (la casualità biologica poi ci mise del suo). Dalla prima moglie, Gigliola da Carrara, non ebbe figli; il secondo matrimonio, con Parisina Malatesta, celebrato nel 1418 e finito in tragedia nel 1425, diede a Niccolò due figlie, le gemelle Ginevra e Lucia, e un maschio, Alberto, che morì prematuramente [28]; il terzo matrimonio, con Ricciarda di Saluzzo, celebrato nel 1429, diede all’estense due figli maschi, nati legittimi e sopravvissuti al padre, Ercole (nato nel 1431, duca dal 1471 al 1509) e Sigismondo (1433-1507). Durante la sua vita però, Niccolò ebbe innumerevoli relazioni, che produssero a loro volta figlie e figlie: l’assenza di figli maschi legittimi sino al 1431 portò il marchese a legittimare i figli di una delle compagne, la ferrarese Stella dei Tolomei, detta dell’Assassino, Leonello e Borso. Leonello, nato nel 1407, venne legittimato nel 1429 e fu designato dal padre a succedergli nel testamento del 1441: sposato con Margherita di Gian Francesco Gonzaga, ne ebbe un solo figlio maschio legittimo, Niccolò, nato nel 1438. Alla morte prematura di Leonello nel 1450, il governo dei domini estensi passò a Borso (nato nel 1413). Per il vero, il testamento di Niccolò III designava alla successione Niccolò, figlio di Leonello, ma questi era minorenne: d’altro canto, Ercole si trovava alla corte di Napoli, dove era stato inviato nel 1446 insieme con Sigismondo. Il consiglio del comune di Ferrara si espresse all’unanimità per l’elezione di Borso (che non sembra fosse mai stato legittimato dal padre), e tale scelta venne confermata da papa Niccolò V con una bolla che ratificava l’accaduto, designando gli eventuali figli di Borso alla successione o, in mancanza di costoro, riportando il ducato ai figli legittimi di terzo letto di Niccolò, Ercole e Sigismondo. Borso non contribuì con eredi propri a ingarbugliare ulteriormente il quadro: non si sposò mai, né se ne conoscono figli naturali. Alla sua morte, nel 1471, gli subentrò dunque Ercole, ma la deviazione dell’asse successorio alla morte di Leonello aveva tagliato fuori – senza giustificazione giuridica se non quella della sua minore età nel 1450 – un altro erede legittimo, Niccolò d’Este, che era cresciuto a Mantova con i Gonzaga, parenti della madre [29]. Ebbene, nel settembre 1476 Niccolò tornò a Ferrara e tentò di estromettere con la violenza lo zio (si ritenne allora con il coperto sostegno sia dell’altro zio, Ludovico Gonzaga, sia di Venezia). La complessa miscela di eredi legittimi e naturali di Nicolò III era giunta a contrapporre dunque due potenziali duchi – ciascuno legittimo a suo modo – nella loro maturità: Nicolò, sebbene ancora presentato come “giovane”, aveva 38 anni, ed Ercole 45. La congiura si concluse lo stesso giorno e fu seguita da una lunga serie di esecuzioni pubbliche di varia visibilità e da delicate trattative politiche con Venezia e Mantova (Folin 2001; Lazzarini 2015b). Possiamo seguire quasi passo passo ciò che accadde a Nicolò d’Este nel 1476, sia attraverso i carteggi diplomatici, sia attraverso una serie di cronache ferraresi coeve (Caleffini 2006; Zambotti 1934; Ferrarini 2006). Al di là del racconto dell’entrata in città e dell’assalto – respinto – al castello dove si erano asserragliati Eleonora (con le due bimbe Isabella e Beatrice e l’erede Alfonso di pochi mesi), e i fratelli di Ercole, e delle repressioni successive, quel che importa qui sottolineare è che la duchessa, in particolare secondo Ugo Caleffini (2006, 182-183), non si perse d’animo e coordinò la resistenza della famiglia e la reazione dei “diamanteschi”. Il duca non era a Ferrara in quel momento e rientrò in città solo quando le cose si erano risolte. Nella cronachistica ferrarese inizia con questo episodio la costruzione dell’immagine di Eleonora come di colei che “faceva tuto quello fa bexogno a ogni sapiente segnore” (Zambotti 1934, 57), “regeva et gubernava el tuto” e “dava audientia et spazava tute le facende come segnore perch’el signore pocho se impazava de cossa alcuna”, contrapposta a un duca che ai suoi sudditi sembrava più assente che altro [30]. Reggere, governare, dare udienza, “spazare le facende”: “madona reze Ferrara”, scriveva di nuovo Caleffini (2006, 666, 310, 656).

Eleonora, come ci raccontano i cronisti ferraresi e come testimoniano le sue lettere al marito e al padre Ferrante (queste ultime soprattutto in occasione della guerra che Venezia portò contro Ferrara tra il 1482 e il 1484, mobilitando le forze delle maggiori potenze italiane, De Pinto 2023) e i registri e le note della contabilità estense, non si limitò a resistere con efficacia al mal concepito tentativo di Niccolò d’Este di prendere il potere, ma di fatto assunse un ruolo sempre più significativo nel governo dei domini estensi, soprattutto negli anni successivi alla guerra, in cui Ercole si diede piuttosto a grandi progetti edilizi, chiudendosi nei suoi appartamenti e poco partecipando al governo del ducato. Non è chiaro se Eleonora ebbe una delega formale per questo: lei talora parla, alla fine degli anni Settanta, del fatto che il duca le aveva concesso “lo arbitrio che la fa et in questa [et in] altra cossa” (Prisco 2021, 149); il Caleffini a sua volta scrive che, nel settembre 1478, alla sua partenza per Firenze, Ercole avrebbe lasciato la moglie al governo del ducato, usando per questo un termine preciso, “locotenente”: “et locotenente del signore rimase la illustrissima madama Eleonora, sua consorte, la quale ogni zorno usciva da castello et dava audientia al populo et faceva due fiate il zorno examine” (Caleffini 2006, 300). Ancora, nel 1481 (ma Ercole era a Ferrara):

Vegneri a dì 17 de agosto 1481, la illustrissima et excellentissima madama duchessa principiò a dare audientia al populo de Ferrara et signare supplicatione et a fare tuto quello che potea fare in ducà, per lo mandato amplissimo che heri li fece sua ducale signoria (Caleffini 2006, 352).

In molti altri casi di azione ordinaria di governo di Eleonora non ci sono tracce di tale mandato, soprattutto negli anni tra il 1484 e il 1487, come se una pratica d’emergenza (resa necessaria dalla guerra), fosse divenuta normale (Caleffini 2006, 537, 640, 656, 666, 683).

Non è necessario interrogarsi troppo sottilmente, in questo contesto documentario, sull’esistenza o meno di deleghe formali di potere (che nei principati settentrionali di origine urbana erano attestate solo in caso di morte del principe e di reggenza femminile per conto degli eredi minori), ma è certo che (di fatto o di diritto) la duchessa aragonese era divenuta la figura centrale del governo quotidiano dei domini estensi. Questo era avvenuto grazie alla situazione, ma anche grazie al fatto che Eleonora era cresciuta in un contesto (la cultura politica napoletana, che dal lato aragonese era familiare con la funzione viceregia o di luogotenenza, e dal lato angioino aveva visto due regine regnanti, Giovanna I e Giovanna II) che prevedeva un riconoscimento formale di questi poteri delegati e aveva meno difficoltà di altri ambienti peninsulari ad accettare che i massimi poteri venissero esercitati, se capitava, dalle donne. Questa stessa cultura di governo, in buona misura estranea a quella estense (e in generale a quella dei principati settentrionali), introdusse a Ferrara soprattutto per tramite della duchessa linguaggi e pratiche aragonesi: un esempio tra i tanti, l’uso – nelle lettere – dell’autografia dei principi o quanto meno della sottoscrizione di mano propria su imitazione dei costumi della cancelleria napoletana. Se le duchesse immediatamente successive a Eleonora (Anna Sforza, morta giovanissima, e Lucrezia Borgia, che una volta a Ferrara vi condusse una vita molto controllata e, per quel che ne sappiamo, di basso profilo pubblico) non dimostrarono una autonomia altrettanto visibile, né svilupparono un profilo politico così spiccato, un’altra duchessa di sangue regale e cultura raffinata (e in parte eterodossa), Renata di Francia, avrebbe seguito nel Cinquecento le orme dell’aragonese (Belligni 2011).

Due parole di conclusione:
principi e principesse in pace e in guerra

Le cose divenivano ancora più chiare in tempi di guerra aperta e nel contesto di conflittualità complessa e incrociata di cui si è parlato sopra. Nella primavera del 1482, a Ferrara e con le armate veneziane a Bagnacavallo, Eleonora d’Aragona scriveva al padre Ferrante come un sovrano parla a un altro: “Venetiani preveneno ala roptura de la guerra contra de mi”. Il mio stato, la mia rovina, le mie terre da cui ricavo più di ventimila ducati di entrate l’anno: arrivava al punto di parlare di sé al maschile (“sum assaltato in ferrarese”, “il facto mio va malissimo et se presto non sum adiutato pericularò”). Verrebbe il dubbio, per paradosso, che si tratti di lettere di Ercole, classificate per sbaglio come lettere di Eleonora: non è così, sono di Eleonora; in particolare quella del 22 maggio che si cita qui è una lettera interamente scritta di mano propria dalla duchessa [31]. A Mantova, quasi trent’anni dopo, la figlia di Eleonora, Isabella, prendeva in mano il marchesato nel momento in cui il marito, il marchese Francesco, veniva catturato dai veneziani nell’agosto del 1509, nel contesto della guerra della Lega di Cambrai. Nelle settimane immediatamente successive, Isabella mobilitò l’intera rete dei rapporti dei Gonzaga grazie a uno straordinario sforzo epistolare per raggiungere e attivare ogni strato delle molteplici reti politiche, dinastiche, diplomatiche e personali degli Este e dei Gonzaga. Per lettera ordinò, supplicò, finse, chiese, pretese, mettendo a frutto le risorse relazionali e discorsive di cui disponeva, giocando tutti i ruoli a sua disposizione: a seconda delle circostanze e degli interlocutori, interpretò la moglie sconsolata, la madre ansiosa, la sorella smemorata, la donna indifesa, il principe intelligente, il sovrano autorevole, l’astuto diplomatico, il competente capitano (Lazzarini 2023b). Ripensando a Eleonora d’Aragona e al suo parlare in prima persona al maschile, nell’Europa medievale esistettero tradizioni in cui regine si definirono “re” e adottarono il genere maschile in alcune forme di comunicazione pubblica. L’uso del genere grammaticale al maschile di Eleonora può rifarsi a questi precedenti, anche di area angioina, seppure non napoletana (le due figlie di Luigi I d’Ungheria, Maria e Iadwiga, alla sua morte vennero incoronate rex delle due parti del dominio del padre, l’Ungheria e la Polonia, Kovesi 2021) e in parte rientra, a mio modo di vedere, proprio nell’ampiezza del ventaglio delle risorse discorsive di queste principesse. In ogni caso, e ritornando a Mantova, alla fine di quasi un anno di prigionia, Francesco Gonzaga venne liberato e il marchesato sopravvisse. La marchesa, già da tempo completamente autonoma nelle sue decisioni, lo sarebbe diventata ancora di più: mentre Francesco abitava nel nuovo palazzo di San Sebastiano, verso l’isola del Teieto e le sue scuderie, Isabella rimaneva in Corte vecchia, nel complesso della reggia gonzaghesca, accanto alla cancelleria e alla tesoreria, il cuore del potere mantovano (Bourne 2008).

Occorre considerare che questi sono regimi strutturalmente in bilico e dalla stabilità fragile e precaria: lo stato emergenziale – sia esso dinastico, bellico, finanziario o territoriale – è un elemento fisiologico della loro esistenza. Questa caratteristica va sempre ricordata nel ragionare intorno ai fondamenti del potere dei principi e delle principesse e alle strategie che gli uni e le altre elaborarono – talora insieme, talora separatamente – per consolidare la presa della dinastia sui diversi domini che riuscirono a mettere (e a tenere) insieme. In particolare, l’azione delle principesse, più declinata in un insieme di pratiche di governo attraverso l’uso quotidiano di tradizioni e prerogative loro familiari (nel caso di Bianca Maria per contiguità locale, nel caso di Eleonora d’Aragona per formazione originaria) che articolata in riforme o innovazioni ideologiche, va rintracciata con attenzione e interpretata con prudenza. Detto ciò, un insieme di strategie – in apparente pace e in guerra aperta – vennero messe in atto dalle principesse dell’Italia quattrocentesca per tamponare le emergenze e costruire o consolidare il consenso alla dinastia (delle élites, come a Milano, del “popolo”, come a Napoli e Ferrara, degli alleati interni ed esterni, come a Mantova). Isabella di Chiaromonte si rese visibile al “popolo” napoletano puntando sia sulla sua personale identità regnicola, sia sulla continuità dinastica che i suoi figli – napoletani e italiani perché cresciuti a Napoli – offrivano alle popolazioni della capitale e di un regno in cui il succedersi di dinastie non autoctone aveva reso l’identificazione corona-regno particolarmente ardua. Se quella guerra di successione fu vinta da Ferrante, l’enfasi sugli aspetti dinastici della sovranità non sarebbe bastata a saldare le linee di frattura nel regno, scosso da una seconda ribellione tra il 1484 e il 1486 e caduto di fronte a quegli stessi francesi poco dopo la morte del re, nel 1495, così come non sarebbe bastata l’opera di tessitura di Bianca Maria Visconti a Milano. La figlia di Isabella, Eleonora, dal canto suo, portò con sé sia gli insegnamenti teorici alla regalità cui era stata educata, sia le competenze pragmatiche per un governo sovrano che si trovò a esercitare nelle emergenze di guerre e congiure, venendo a rappresentare per i ferraresi il “signore” che reggeva e teneva insieme la città e il dominio. La lezione di Eleonora si trasmise alle figlie Isabella e Beatrice: la prima, a Mantova, ebbe modo di sperimentarne l’efficacia nel corso della sua lunga vita in pace e in guerra e nelle diverse fasi della sua parabola di principessa (sposa, madre, reggente, vedova); la morte prematura della seconda ci impedisce di immaginare se e cosa avrebbe potuto tentare nella Milano sconvolta dalle guerre d’Italia [32].

Gli interventi delle principesse, maturati nell’urgenza delle circostanze, si trasformarono dunque in qualche caso in modalità più continue (e plurigenerazionali, all’interno del principato o lungo la discendenza di madre in figlia) di governo femminile. Tali modalità talora portarono ad adottare pratiche nuove o diverse (e più o meno efficaci) per un periodo di durata variabile, ma soprattutto, e più in generale, consolidarono la figura della principessa come elemento cardine di una coppia di governo sempre più ritualizzata e meglio definita, sempre più simile (e adattabile) al più vasto contesto europeo che dalle guerre d’Italia in poi sarebbe divenuto il panorama di riferimento di un pugno di dinastie egemoni d’età moderna (Spagnoletti 2003), costituendo una risorsa per la loro eventuale sopravvivenza.

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Note

1. Sulla guerra del Regno, ancora essenziale Del Treppo 1986.

2. Antonio da Trezzo a Francesco Sforza, Napoli, 17 luglio 1460, Archivio di Stato di Milano, Potenze Estere b. 203 (citato in Pontano 2019, 277).

3. Notar Giacomo 1845, 103 (citato in Pontano 2019, 278).

4. Sul Pontano, si veda da ultimo Figliuolo 2015; sul De bello, si rimanda alla lunga introduzione a sei mani dell’edizione recente dell’opera: Germano et al. 2019.

5. Su questo episodio e sulla reputazione della regina Isabella, di cui una complessa tradizione narrativa tramanda anche come, nella stessa occasione, andasse travestita da frate francescano a supplicare lo zio, il principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini, per ritirare il suo appoggio al partito angioino, si veda Corfiati 2009, in particolare alle pp. 1-44.

6. Oltre a Prisco 2021, in merito alla luogotenenza del regno, istituzione introdotta a Napoli in età aragonese, si veda Senatore 2010.

7. Si tratta di un dibattito complesso, legato al significato e al peso dell’Umanesimo e del Rinascimento nella storia politica peninsulare e al contempo condizionato, in buona misura, dalle urgenze ideologiche del secondo dopoguerra: per qualche coordinata, si vedano Baron 1960, Pocock 1975, Skinner 1978, e l’inizio della revisione a partire da Hankins 2000 e Baker, Maxson 2015; per Venezia, da ultimo, Revest 2023; per Milano, Gamberini 2016; Cengarle e Covini 2015.

8. Basti qui richiamarsi, per questa revisione dei modelli, a Chittolini et al. 1994 e a Gamberini, Lazzarini 2014: riprendono storiograficamente la questione prima Petralia 1997, poi Lazzarini 2018.

9. Per questo ripensamento si parta dai saggi raccolti in Fubini 1994 sul coté storico e 2003 sul coté umanistico (su cui si vedano anche i due volumi Tanzini 2015 e 2021): sulla necessità di connettere i discorsi teorici ai linguaggi pragmatici della politica, si vedano gli studi di Jean-Louis Fournel e Jean-Claude Zancarini su Guicciardini (Fournel e Zancarini 2009: si consideri che un altro momento di “emergenza” cruciale per lo scacchiere italiano è, tradizionalmente, quello rappresentato dalle guerre d’Italia di fine Quattrocento, l’età di Machiavelli e di Guicciardini) e Genet 2011; in merito alla cultura giuridica, Fedele 2021; infine per un allargamento del ventaglio degli umanesimo politici possibili, si veda Delle Donne 2015.

10. Il panorama è ricco e articolato: solo a mo’ di esempio si possono citare Covini 2012 o Prisco 2021 per studi specifici; Crouzet-Pavan e Maire Vigueur 2018 e Lazzarini 2025, per qualche prima comparazione; Lazzarini in cds per una prima sintesi.

11. La letteratura anglofona chiama quest’ultima forma di potere power sharing: si veda per esempio l’uso che ne fa Cockram 2013.

12. Per qualche importante precisazione, si vedano in merito a questo tema Arcangeli e Peyronel 2008 e Covini 2008, 248-250; per la distinzione matronage/maternage, Zarri 2008.

13. Come introduzione generale a queste trasformazioni, mi permetto di rimandare a Lazzarini 2003 e a Gamberini e Lazzarini 2014.

14. Basti ricordare qui il memorabile incipit della Storia d’Italia di Francesco Guicciardini e l’età dell’oro che ai suoi occhi, dopo il sacco di Roma del 1527, si incarnava in un secondo Quattrocento e in un equilibrio che sembravano ormai del tutto lontani, Guicciardini 1971, I, 1-2: questa ricostruzione fu talmente potente in termini qualitativi da influenzare in modo significativo la lettura del contesto quattrocentesco da parte della storiografia successiva (quasi) sino a oggi: Valeri 2020, Lazzarini 2023a, Benigno e Mineo 2020.

15. La lega italica – e la precedente pace di Lodi (1454) – sono state lette come eventi epocali nella storia tardomedievale italiana (e nella storia della diplomazia europea) e sono state caricate di un notevole peso storiografico a partire dalle ricostruzioni di Soranzo 1924 e Pillinini 1970. La loro natura è stata, più di recente, riconsiderata criticamente e meglio inserita nel contesto loro contemporaneo: si vedano in merito gli studi di Fubini 1994 e Lazzarini 2015 e 2021, 301-333.

16. Manca uno studio recente e sistematico dell’evoluzione delle due forme parallele di investitura (imperiale e papale) nell’Italia tardomedievale (persino laddove le due forme si combinarono nel rafforzare una sola dominazione, come nel caso degli Este, duchi imperiali di Modena e Reggio Emilia e duchi pontifici di Ferrara): per Milano, considerazioni interessanti in Black 2010 e 2011.

17. L’influenza dell’impero nel tardo medioevo italiano sta ottenendo una rinnovata attenzione da parte della storiografia; si vedano almeno Lee 2018 e Huijbers 2022, sul quale si veda la discussione Silanos e Varanini 2023.

18. Si torni qui al classico Prodi 1982 e alle recenti considerazioni di Carocci 2014 e Chittolini 2014.

19. Il classico testo di riferimento in questo caso è Torelli 1921-23: per i meccanismi costitutivi e la varietà delle signorie trecentesche, si vedano però ora anche i volumi raccolti nella collana Italia comunale e signorile, a partire dal primo, Maire Vigueur 2013.

20. La questione della natura “composita” dei domini tardomedievali è stata oggetto di una riflessione storiografica importante a partire dagli anni Settanta del secolo scorso: oltre a quanto indicato alla nota 7, si veda Gentile 2000 e per la Lombardia medievale Gamberini 2016.

21. I tre anni della repubblica ambrosiana meriterebbero una rinnovata attenzione: si vedano in ogni caso Spinelli 1986 e 1987 e, in merito alla natura ibrida del governo repubblicano in rapporto all’impero (una città che immagina e pretende di mantenere come organo collettivo la titolarità ducale, di principio individuale e dinastica, sul suo territorio), si veda Chittolini 2015, 141-164.

22. Sugli eventi, rimangono di riferimento Cognasso 1955 e Catalano 1956; per una sintesi dell’evoluzione del ducato, Del Tredici 2014; in merito all’investitura mancata e alle sue conseguenze, si rimanda alla nota 15.

23. Sullo Sforza, di cui non abbiamo una biografia recente, si veda almeno Menniti Ippolito 1998.

24. Sui due cancellieri sforzeschi si vedano da ultimo Covini 2018 (per Simonetta); Sverzellati 1998 e Meli 2020 (per Tranchedini).

25. Su questi temi, seguo Covini 2008 (citazioni alle pp. 269-271): sulla cancelleria di Bianca Maria, si vedano ancora Bassino e Frati 1972 e Leverotti 1994, 313-314.

26. Sulla duchessa, si vedano ora Prisco 2021 e O’Leary 2022: in particolare la ricerca di Prisco è rilevante per quanto si dirà qui.

27. A Eleonora Diomede Carafa indirizzava il terzo dei suoi Memoriali, quello dedicato a I doveri del principe, composto prima del 1477 e inviato a Ferrara, dove la duchessa lo avrebbe fatto tradurre in latino da Battista Guarino per garantirgli una diffusione adeguata tra gli umanisti della sua corte e oltre: si vedano in merito Prisco 2021, 230-235 e O’Leary 2016.

28. Sul destino di Parisina, decapitata per adulterio (e dell’amante Ugo d’Este, figlio primogenito di Niccolò III e di Stella dei Tolomei), si veda ora Crouzet-Pavan e Maire Vigueur 2018.

29. Sulla persistenza per quasi tutto il Quattrocento di marchesi e poi duchi di nascita illegittima a Ferrara, e sulle sue conseguenze in termini di gestione del potere, si veda Bestor 1996.

30. Per queste citazioni e la loro contestualizzazione, seguo qui l’analisi di Prisco 2021,149-209.

31. Eleonora d’Aragona a Ercole d’Este, Ferrara, 22 maggio 1482, Archivio di Stato di Modena, Casa e Stato, Carteggio tra i Principi Estensi, 131, 1683-IV/5, citato in Prisco 2021, 111.

32. Questa “linea femminile” di familiarità con il potere e di iniziativa personale non è passata inosservata, ovviamente in termini diversi, già nella storiografia sette-ottocentesca su Eleonora (e la madre Isabella), come rileva Corfiati 2009, 42-43 rimandando per esempio a Michele Vecchioni e alla sua monografia Notizie di Eleonora, pubblicata a Napoli nel 1791.