Henry James, L’americano, p. 225
Tutti guardavano con profonda attenzione Newman, tutti sorridevano, tutti erano felici di fare la sua conoscenza, tutti lo fissavano con quella delicata durezza di contegno della buona società che ti tende la mano e tiene strette le dita intorno alla moneta. Se il marchese pareva andar attorno come un domatore con l’orso, se la favola della bella e della bestia aveva trovato in loro il suo riscontro, l’impressione generale era che l’orso stavolta era un’imitazione assai degna dell’uomo. Newman trovò molto «piacevole» l’accoglienza che gli fecero gli amici del marchese; non avrebbe potuto definirla in altro modo. Era davvero piacevole essere trattato con garbo così schietto: piacevole udir complimenti ben torniti, con un sapore d’arguzia, proferiti da bocche ombreggiate da mustacchi accuratamente foggiati; era piacevole vedere delle intelligenti donne francesi, e tutte lì sembravano intelligenti, volgere le spalle ai loro compagni per guardare a loro agio lo strano americano che Claire de Cintré aveva scelto per proprio sposo, e ricompensare con un bel sorriso l’oggetto della loro ammirazione. Alla fine, mentre abbandonava quella batteria di sorrisi e di altre piacevolezze, Newman scorse il marchese che lo fissava con una certa gravità preoccupata: al che per un istante si riprese. «Mi sto forse comportando come un idiota?» si chiese. «Sembro forse un terrier che va in giro saltando sulle zampe posteriori?».