Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

La fine del colonialismo italiano tra storia e memoria

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Abstract

The loss of the colonies during the Second World War is usually related to the end of the Italian colonial rule in Africa. In fact the existence of a “Ministero Italiano dell’Africa” until 1953 and of a Italian Amministration of Somalia (AFIS) until to 1960 show a long transition: this could be considered as a decolonization case which ended only with the independence of the country on 1th July 1960. The AFIS experiment played a key role in the making of some of the most popular and enduring themes Italian narrative about the colonialism.

Premessa

La perdita delle colonie durante la seconda guerra mondiale viene comunemente indicata come la conclusione del dominio coloniale italiano in Africa. In realtà se è vero che la guerra pose fine alla fattispecie propriamente coloniale di un dominio diretto italiano sulla Libia e nel Corno d’Africa, la nuova Italia repubblicana rivendicò con forza la restituzione delle colonie per tutto il secondo dopoguerra fino al 1949 attraverso l’opera del Ministero dell’Africa Italiana (Mai) che venne liquidato solo nel 1953. La nuova Italia ritornò infine in Somalia con il compito di predisporre l’indipendenza della più periferica delle ex colonie attraverso l’esperimento dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia (Afis) che iniziò il 1° aprile 1950. Pur se il Trusteeship System rinvia alla fenomenologia del tutto speciale della tutela sotto l’egida delle Nazioni Unite, il mandato prevedeva l’istituzione di un’amministrazione diretta di una potenza fiduciaria che finì per essere molto simile all’amministrazione coloniale in senso proprio sia da un punto di vista ideale, sia da un punto di vista di quanto realizzato nella pratica [Morone 2006]. Nel caso poi della Somalia, la continuità tra la nuova amministrazione fiduciaria e la vecchia amministrazione coloniale fu resa ancora più evidente dalla circostanza per la quale la potenza fiduciaria coincideva con la vecchia potenza coloniale. Proprio per questo motivo la nuova Italia tentò di tutto per ripresentarsi in Somalia come un paese diverso rispetto alla vecchia Italia coloniale, ma così non fu e il bilancio dei dieci anni dell’Afis fu molto incerto tanto per gli italiani quanto per i somali.

Se diversi studi recenti sul colonialismo italiano hanno insistito dalla prospettiva metodologia dei Postcolonial Studies sulla continuità di discorsi e pratiche coloniali lungo tutto l’arco temporale dell’Italia repubblicana fino ad oggi [1], da un punto di vista della storia dell’Africa non vi è dubbio che il colonialismo, italiano come quello di altri paesi europei, finì solo quando le istituzioni coloniali vennero liquidate e le ex colonie divennero formalmente indipendenti. Se dunque è importante distinguere tra colonialismo ed eredità coloniali lungo la storia dell’Italia repubblicana, è altrettanto importante considerare come la fine del colonialismo italiano non può essere liquidata un po’ sbrigativamente con l’occupazione delle colonie da parte delle truppe britanniche e del Commonwealth durante la seconda guerra mondiale. Al contrario l’esistenza di un Ministero dell’Africa Italiana fino al 1953 e di un’amministrazione diretta in Somalia, nella fattispecie fiduciaria, fino al 1960 testimoniano una lunga transizione, che con specifico riferimento al caso somalo prende il nome di decolonizzazione, conclusasi solo con l’indipendenza del paese il 1° luglio del cosiddetto “anno dell’Africa”. Nel 1960 furono infatti ben 17 i paesi africani a diventare indipendenti, mentre l’anno si chiuse il 14 dicembre con l’approvazione all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite della risoluzione n. 1514 in favore dell’autodeterminazione dei paesi e dei popoli colonizzati. Pur in un quadro del tutto speciale, determinato più dalla sconfitta dell’Italia in guerra che dalla perdita delle colonie, le vicende che riportarono l’Italia nell’ultima colonia somala completano dunque la parabola del colonialismo italiano lungo un arco cronologico in consonanza con la fine della maggior parte degli altri colonialismi europei in Africa.

Nel periodo compreso tra l’occupazione delle colonie e l’indipendenza dell’ultima colonia italiana, le trasformazioni politiche e istituzionali si accompagnarono a un processo al tempo stesso di rimozione della realtà storica del colonialismo e di riscrittura del passato in termini edulcorati e sostanzialmente positivi. Sulle memorie del colonialismo italiano, in particolare sulle rimozioni e la mancata discussione si è scritto molto [2], mentre più di recente si sta riflettendo sulle riscritture, sul detto più che sul silenzio. In questa prospettiva, la propaganda per riottenere le colonie durante il secondo dopoguerra e la rappresentazione dell’Afis durante gli anni Cinquanta ebbero una valenza determinante per la formazione e il consolidamento di alcuni tra i più diffusi e duraturi miti a riguardo della storia coloniale. L’Afis in particolare non venne solo intesa quale prova di buona volontà per una nuova stagione nelle relazioni con l’ex colonia e per estensione con i paesi afro-asiatici, ma anche quale testimonianza del supposto carattere positivo del passato dominio italiano in Africa. L’Afis doveva testimoniare una sorta di riscatto per il passato coloniale, ma non portò a una esplicita condanna del trascorso coloniale da parte della nuova Italia repubblicana che al contrario propense per una sua nobilitazione. Lo scarto tra la realtà storica del colonialismo e il discorso sul passato coloniale si fece sempre più evidente attraverso una rivisitazione che magnificò l’opera di civilizzazione dell’Italia in Africa attraverso il lavoro dei coloni e il cosiddetto avvaloramento economico dello Stato coloniale.

La perdita delle colonie

L’Africa Orientale Italiana (Aoi) cadde nel 1941 sotto l’avanzata delle truppe inglesi e del Commonwealth, mentre nel 1943 fu la volta della Libia. La rinuncia da parte della nuova Italia repubblicana ai possedimenti africani venne formalmente sancita nel Trattato di pace di Parigi del 1947, eppure la nuove classe dirigente italiana con un’ampia convergenza d’intenti che comprendeva anche i partiti a sinistra dell’arco costituzionale promosse un progetto alternativo per ritornare in colonia. La nuova Italia ambiva a recuperare il suo status internazionale e gli ex possedimenti furono così rivendicati in una logica di «continuità della politica estera al di là di ogni rivolgimento interno» [Rossi 1980, 581]. Uno degli sforzi maggiori per riacquisire le colonie venne fatto sul versante delle relazioni diplomatiche con le quattro potenze vincitrici che furono chiamate in prima istanza a decidere sulla sistemazione delle ex colonie. Il 12 gennaio 1948 venne reso pubblico il Memorandum on the Italian Colonies con lo scopo precipuo di perorare la causa della restituzione delle colonie. Il documento era stato preparato per conto del Mai dall’ambasciatore Giuliano Cora e dall’illustre etiopista Enrico Cerulli. L’ambasciatore Cora aveva servito prima della seconda guerra italo-etiopica per ben due volte presso la legazione italiana in Etiopia, pubblicando anche una serie di contributi per il Centro di studi coloniali di Firenze, e dopo la fine della guerra «sostenne in polemica con il conte Sforza la grande importanza di una ripresa ed incentivazione del ruolo italiano nelle ex colonie e in specie verso l'Etiopia che reclamava ora per sé tanto l'Eritrea che la Somalia» [Clemente 1983]. Enrico Cerulli era stato un intellettuale e studioso organico all’impresa coloniale, tanto da essere stato alto funzionario in colonia e poi nel dopoguerra diventare segretario generale agli Affari Politici presso il Ministero degli Affari Esteri. Nel Memorandum si legittimava la richiesta di restituzione delle ex colonie sulla base di quanto l’Italia aveva fatto per «ricavare frutto da territori prima improduttivi» e per aver svolto in colonia un’opera di «attrezzatura civile ed economica» [3]. Il lavoro dei coloni italiani insieme alle politiche di valorizzazione economica intraprese dall’allora governo coloniale furono gli argomenti per eccellenza sui quali fondare le pretese italiane e al tempo stesso divennero strumenti utilissimi per iniziare a proporre quella rilettura edulcorata e buonista del passato coloniale che sottolineava la “civilizzazione” e lo “sviluppo” delle colonie, dimenticando di rendere conto delle tante discriminazioni, violenze e guerre perpetrate nelle colonie. I profughi d’Africa erano allora lavoratori piuttosto che colonialisti, al punto che la nostra diplomazia sostenne che questi italiani erano talmente radicati in colonia da poter essere paragonabili agli Afrikaners del Sud Africa e dunque definiti «cittadini» della Libia, Eritrea e Somalia [riportato in Pes 2014, 423]: la richiesta del governo italiano di ritornare in colonia passò dunque per il diritto presunto dei coloni a rientrare in Africa. A partire poi dal settembre 1948 quando il dossier coloniale passò all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, l’Italia, forte dell’appoggio dei paesi amici dell’America Latina, rinnovò il suo tentativo di raggiungere un compromesso con l’Inghilterra in primis e poi con la Francia e gli Stati Uniti utilizzando argomenti che rimasero nella sostanza simili a quelli contenuti nel Memorandum.

Sul versante della politica interna, una lobby colonialista che metteva trasversalmente insieme politici, intellettuali ed esperiti a vario titolo d’Africa con funzionari e amministratori coloniali, nonché coloni e concessionari si spese a fondo per sostenere l’opera propagandistica intesa a mettere in rilievo gli interessi degli italiani nelle colonie e i conseguenti diritti dell’Italia alla loro restituzione. Sul tema del colonialismo e della colonizzazione si articolò un’ampia opera pubblicistica, oltre alla serie di congressi dei profughi d’Africa (Siracusa, agosto 1947; Bari, settembre 1947; Padova, ottobre 1947; Asti, dicembre 1949). Alla pubblicistica si sovrapposero i contributi di intellettuali, studiosi e politici che collaboravano con l’Ufficio Studi del Mai e parteciparono ai diversi convegni patrocinati dal Centro di studi coloniali di Firenze, dalla Società geografica africana d’Italia, dall’Istituto di studi orientali, dall’Istituto per l’Oriente, dalla Società africana d’Italia e dall’Istituto coloniale, che poi nel 1956 prese il nome di Istituto Italo-Africano. Per Giuseppe Vedovato, affermato docente di diritto internazionale e coloniale, allora deputato alla Camera per la Democrazia cristiana, il ritorno dell’Italia in Africa era il «ritorno alla nostra migliore tradizione, a quella che iniziò con l’insediamento nel Corno d’Africa» [Moreno, Mangano, Vedovato 1947, 36]. Nel complesso gli interventi «proclamarono il diritto dell’Italia a essere destinata per l’amministrazione fiduciaria della Libia, dell’Eritrea e della Somalia» [Calchi Novati 1996, 189].

Dall’immediato dopoguerra fino alla primavera del 1949, la linea politica italiana passò da una posizione massimalista che era la pura e semplice restituzione di tutti gli ex possedimenti pre-fascisti a un compromesso che apriva a soluzioni variabili dal punto di vista del territorio e della sovranità. L’Italia chiese allora la restituzione delle colonie non nella prospettiva del ritorno al governo coloniale, bensì attraverso quella dell’istituto dell’amministrazione fiduciaria con la quale si proponeva di farsi carico delle ex colonie per contribuire al sistema della pace e della sicurezza promosso dalle Nazioni Unite. Il Trusteeship System, regolamentato nel XII capitolo della Carta di San Francisco del 1945, acquisì effettivamente «una grande popolarità» nel dopoguerra perché apriva alle istanze del nazionalismo africano, anche se nell’immediato garantiva soprattutto gli interessi europei e l’ordine (para)coloniale [Betts 2007, 50]. L’idea di tutela restava distinta nettamente da quella di libertà in quanto rinviava a un modo paternalistico dell’amministrare, che si basava su una supposta immaturità del soggetto a cui veniva indirizzata la cura: l’amministrazione fiduciaria era pur sempre una perdita di libertà, anche se con la promessa di un progresso futuro [Bain 2003, 2]. Si realizzò così e una volta in più un camuffamento delle logiche prettamente coloniali delle quali l’amministrazione fiduciaria permetteva in definitiva la continuazione: non a caso quando l’Italia rivendicava l’amministrazione fiduciaria sulle ex colonie lo faceva difendendo il passato coloniale piuttosto che attraverso una sua esplicita condanna.

Furono infine diverse le operazioni più o meno segrete che attraverso il Mai vennero ideate e finanziate nelle ex colonie con il preciso obiettivo di appoggiare gruppi, associazioni o veri e propri partiti politici che si impegnarono a sostenere il programma politico di un ritorno dell’amministrazione italiana in Africa. La British Military Administration (Bma), che deteneva la potestà militare sulle ex colonie a seguito dell’occupazione durante la guerra e in attesa di una decisione internazionale sulla loro sistemazione, inaugurò una politica di defascistizzazione e liberalizzazione della società coloniale. La conseguenza diretta fu la nascita di diverse associazioni o veri e propri partiti politici che inaugurarono una discussione pubblica sul destino delle colonie che non coinvolgeva solo gli ex colonizzatori e le potenze vincitrici, ma pur limitatamente anche gli ex colonizzati. Diventava allora indispensabile nella prospettiva italiana poter contare su una serie di referenti politici simpatetici all’idea del ritorno italiano in colonia: furono considerevoli i fondi concessi per lo più ai vecchi intermediari del governo coloniale, ascari e funzionari “indigeni”, affinché lavorassero per il ritorno di un’amministrazione italiana. In vista del passaggio del dossier coloniale alle Nazioni Unite e poi a maggior ragione durante le discussioni in Assemblea Generale, il ruolo delle diverse associazioni e partiti pro-Italia e all’opposto dei movimenti nazionalisti portò a una crescente conflittualità politica che diede luogo a cavallo degli anni Cinquanta a veri e propri episodi di violenza a sfondo politico che in Somalia e in Eritrea ebbero come bersaglio i coloni italiani. I risultati furono almeno in parte paradossali se proprio la propaganda in favore di un ritorno dell’Italia in colonia finì per attirare sui coloni italiani la violenza degli estremisti e indusse molti italiani a emigrare verso l’ex madrepatria.

La svolta nella vicenda della sistemazione delle ex colonie arrivò il 18 maggio 1949 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non approvò il cosiddetto “Compromesso Bevin-Sforza”. Si trattava di un accordo segreto firmato il 6 maggio precedente dai due ministri degli Esteri, inglese e italiano, che proponeva una sistemazione complessiva per le ex colonie italiane secondo una logica spartitoria di tipo ancora prettamente coloniale senza alcuna considerazione per i desiderata delle popolazioni, mentre le Nazioni Unite erano ridotte a un ruolo secondario di ratifica. La Libia doveva essere sottoposta a un’amministrazione fiduciaria congiunta dell’Inghilterra in Cirenaica, dell’Italia in Tripolitania e della Francia nel Fezzan; l’Eritrea sarebbe stata divisa tra la regione dell’altopiano annessa all’Etiopia e quella del bassopiano incorporata invece nel Sudan, mentre uno status particolare sarebbe stato concesso alle città di Asmara e Massaua al fine di tutelare gli interessi e le specificità delle comunità italiane che ancora vi risiedevano; la Somalia sarebbe infine dovuta andare all’Italia in amministrazione fiduciaria. A far mancare il quorum fu significativamente il voto contrario del rappresentante di Haiti, proprio uno dei “paesi amici” del gruppo latino-americano che avrebbero dovuto sostenere le ragioni italiane. L’esito del voto rinviava evidentemente a dinamiche più generali, che né a Roma né a Londra erano state previste: l’anacronismo stava in una politica vecchia ancorata a un sistema coloniale che mostrava oramai evidenti incrinature sotto la spinta dei movimenti nazionalisti in Africa e in Asia e più in generale nel quadro del nuovo ordine bipolare e della contesa dei due blocchi per l’influenza sul cosiddetto Terzo mondo.

L’Italia reagì alla mancata approvazione del Compromesso Bevin-Sforza con una vera e propria capriola diplomatica e si pronunciò a favore dell’indipendenza immediata per la Libia e l’Eritrea e dopo un periodo di adeguata preparazione per la Somalia. La risoluzione n. 289 del 21 novembre 1949 e poi la risoluzione n. 390 del 2 dicembre 1950 approvate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite disposero la definitiva sistemazione delle ex colonie italiane: la Libia raggiunse la piena indipendenza il 24 dicembre 1951 sotto la corona di re Idris al-Sanusi, capo della confraternita senussa e fedele alleato degli inglesi; l’Eritrea divenne un’unità autonoma federata all’Etiopia il 15 settembre 1952; la Somalia infine venne affidata all’amministrazione fiduciaria dell’Italia per un decennio a partire dal 1° aprile 1950. La sistemazione delle ex colonie italiane si chiuse nel complesso assicurando «a Gran Bretagna e Stati Uniti le basi in Libia e in Eritrea, mentre l’Italia aveva recuperato il possedimento meno interessante, dove anche i coloni erano pochi rispetto all’Eritrea o alla Libia» [Calchi Novati 1994, 89]. La svolta in favore delle indipendenze delle ex colonie e per estensione del continente africano fu rinviata dalla nuova Italia repubblicana troppo a lungo e soprattutto arrivò senza una precisa presa di distanza dal passato coloniale cosicché gli ex sudditi faticarono a percepirla come veramente genuina.

Le ragioni che possono spiegare l’accanimento della nuova dirigenza italiana postfascista nel perseguire una politica neo-colonialista poco lungimirante e politicamente destinata all’insuccesso sono molteplici e fanno riferimento a questioni sia di ordine internazionale sia di politica interna. Attraverso le colonie si perseguì il tentativo di «recuperare, almeno in parte, la posizione di cui l’Italia aveva goduto prima del 1922» così da tornare a contare sulla scena mondiale dopo le sconfitte subite in guerra [Seton-Watson 1991, 331]. In realtà proprio la vicenda diplomatica della sistemazione delle ex colonie dimostrò che una qualsiasi soddisfazione in Africa era subordinata alla collocazione internazionale dell’Italia e non viceversa: l’adesione italiana al Patto Atlantico, perfezionata il 4 aprile 1949, rappresentò un prerequisito indispensabile (anche se di per sé non sufficiente) alla conclusione del Compromesso Bevin-Sforza perché garantiva la collocazione nel blocco occidentale dell’Italia oltre che di ogni sua eventuale amministrazione fiduciaria [Calchi Novati 1996, 192-3].

Alle ragioni di politica internazionale se ne aggiungevano altrettante di ordine più prettamente interno. Pesò «il timore che non riavere le colonie di un tempo avrebbe potuto dare adito a rigurgiti nazionalistici e antidemocratici» [Labanca 2002, 430], anche se come rivela uno dei primi sondaggi d’opinione realizzato in Italia nell’ottobre 1946, la preoccupazione suscitata per la perdita delle colonie era minimo, paragonabile a quello per la perdita di Tenda, Briga e del Moncenisio [348]. Ebbe infine un peso non secondario la continuità dello Stato e dell’amministrazione che lasciò al loro posto molti funzionari fascisti e lavorò contro ogni ipotesi di immediata liquidazione del Mai. Il Ministero sapeva bene che dal ritorno in colonia dipendeva la sua stessa ragione di sopravvivenza come corpo amministrativo ed ebbe perciò un ruolo primario di promozione della politica neo-coloniale.

Il ritorno in colonia fu dunque considerato dalla nuova classe dirigente repubblicana come «rispondente agli interessi italiani e, più in generale, europei, da tempo e a prescindere dagli umori dell’opinione pubblica» [Rossi 1980, 577]. D’altra parte erano questi gli anni fondativi del processo di integrazione europea e proprio l’Africa continuò a essere intesa come la principale «destinataria della “civilizzazione” operata dall’Europa […] in una vera e propria continuità con il periodo coloniale» a partire da una frase rivelatrice contenuta nella dichiarazione Schuman, rilasciata dal ministro degli Esteri francese nel 1950: «Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali, lo sviluppo del continente africano» [Laschi 2014, 372]. Se la doppiezza della posizione francese era scontata nel proclamarsi al contempo anima del processo di integrazione democratica europea e potenza ancora convintamente coloniale, anche l’Italia in definitiva convergeva su quell’idea e progetto di Eurafrica che nel secondo dopoguerra proponeva di superare il dominio coloniale europeo sull’Africa senza tuttavia rinunciare a una visione paternalistica di sviluppo economico eterodiretto da parte dell’Europa nei confronti dell’Africa.

Il ritorno in Africa

Il mandato sulla Somalia, che era stato chiesto nell’immediato dopoguerra quale parte dal più ampio disegno di recupero delle colonie, venne in definitiva accettato nel 1950 in un quadro politico e diplomatico profondamente diverso. La storia dell’Afis [Morone 2011] si caratterizza per una discrasia tra gli obiettivi perseguiti dall’Italia in Somalia e quelli perseguiti dall’Italia attraverso la Somalia in una più ampia dimensione internazionale. In Somalia la scommessa era soprattutto quella di costruire in dieci anni un complesso di istituzioni democratiche che avrebbero formato la struttura del nuovo Stato somalo indipendente e di negoziare il progressivo trasferimento di poteri e competenze ai somali, trattando con il principale partito del paese, la Somali Youth League (Syl). Allo stesso tempo si trattava per l’Italia di ritagliarsi una posizione di influenza nel paese dopo l’indipendenza, specie attraverso l’aiuto allo sviluppo [Strangio 2012]. L’Italia fallì nel trapiantare istituzioni funzionali per il nuovo Stato somalo, probabilmente perché troppo pesanti e sofisticate da un punto di vista dell’amministrazione, mentre i Giovani somali fallirono sicuramente nell’applicare al sistema politico somalo quegli obiettivi di modernizzazione sociale e democratica postulati dallo stesso statuto del partito. Su un piano internazionale più ampio, il mandato sulla Somalia doveva testimoniare prima di tutto la partecipazione italiana a quell’opera di collaborazione e cooperazione per la pace e la sicurezza internazionale nell’ambito delle Nazioni Unite. La Somalia era «niente come colonia, ma un’importantissima pedina di politica estera» [4], come dichiarò Sforza, e doveva allora favorire le buone relazioni con i nuovi paesi indipendenti dell’Africa e dell’Asia e in particolare quelli arabi.

Il mandato in Somalia venne inserito nel più ampio quadro di quell’interpretazione flessibile della politica neo-atlantica messa in pratica dall’Italia a partire dalla metà degli anni Cinquanta rispetto a un rigido rispetto degli ordini di squadra provenienti da Washington o dal comando NATO: si trattava di dare «più credito ai precedenti storici o agli interessi commerciali e culturali dell’Italia nel mondo arabo, facendo pendere il “neo-atlantismo” verso una specie di “neo-mediterranesimo”» [Calchi Novati 2011, 257]. Come dichiarò il sottosegretario agli Esteri con delega all’Africa Italiana Giuseppe Brusasca, il mandato doveva «servire per qualificare il popolo italiano come fattore indispensabile per l’opera di solidarietà tra i popoli […] con il tramonto delle dominazioni coloniali» e l’Italia che «ha tanto sofferto per la riconquista della sua libertà e della sua indipendenza e che conosce le durezze della lotta per il pane e per il lavoro non deluderà nessuno» [Brusasca 1950]. La garanzia della democraticità del nuovo impegno italiano in Somalia passava dunque per la guerra civile italiana, la lotta contro il fascismo e la nascita della nuova Repubblica, ma in effetti le continuità politiche, amministrative e istituzionali con il passato regime pesarono sull’Afis e sui rapporti con le ex colonie come su tante altre questioni di politica interna ed estera nell’Italia del secondo dopoguerra.

La questione del ritorno dell’Italia in Africa finì per assumere una portata simbolica di patria e italianità nella prospettiva tutt’altro che scontata della ricostruzione della nazione italiana oltre che dell’Italia. La ripresa dei fili della storia patria dopo la caduta del fascismo finì per caratterizzare gli italiani come «un popolo depositario di una grande civiltà, composto fondamentalmente da brava gente i cui tratti essenziali non erano stati macchiati dal fascismo e neanche dalle sue guerre di aggressione» in Europa come in Africa [Patriarca 2010, 217-218]. Il fascismo finiva così per diventare un incidente di percorso lungo un cammino fondamentalmente altro della storia italiana, a esso venivano ricondotte tutte le colpe della storia italiana recente espiate poi attraverso la Resistenza. In modo non dissimile tutti gli aspetti negativi del colonialismo, la subordinazione, le guerre, la violenza, la segregazione razziale e lo sfruttamento economico, finirono per essere ricondotte al colonialismo fascista, con il risultato di caratterizzare in modo positivo il colonialismo italiano dopo averlo disconnesso da quello fascista. Non stupisce allora che Carlo Giglio uno dei principali storici del colonialismo di epoca liberale negli anni Sessanta definì il colonialismo come «la forma più blanda di dominazione che mai nella storia un popolo abbia esercitato su un altro, dello stesso o di un altro colore» [Giglio 1964, 141].

La «decolonizzazione dall’alto» degli ex possedimenti italiani decisa alle Nazioni Unite risparmiò all’Italia le possibili lacerazioni che le avrebbe probabilmente causato il confronto o lo scontro con gli ex sudditi coloniali sulla via dell’indipendenza, ma fu anche alla base della rimozione della storia del colonialismo e della memoria degli italiani [Calchi Novati 1995, 205]. A differenza di quanto avvenne in Germania, nel secondo dopoguerra in Italia non si ebbe nulla di equiparabile al processo di Norimberga e i presunti criminali di guerra denunciati da alcune ex potenze belligeranti compresa l’Etiopia finirono per godere di una «amnistia, mai promulgata» che cancellò d’un tratto tutte le colpe italiane [Del Boca 1982, 17]. Nel 1948 le rinnovate richieste fatte dal governo etiopico all’Italia per avere soddisfazione almeno dei due principali imputati, Badoglio e Graziani, ritenuti colpevoli ad Addis Abeba di crimini di guerra contro la popolazione etiopica, andarono a vuoto a causa del diniego italiano di concedere l’estradizione con il tacito assenso di Gran Bretagna e Stati Uniti. Pesò la volontà degli Alleati di non punire un paese che, seppur sconfitto, era stato anche cobelligerante, tanto più che alcuni dei presunti criminali di guerra italiani erano stati tra i principali collaboratori degli Alleati a partire da Pietro Badoglio.

L’Italia dunque ritornava in Africa per una rinnovata missione civilizzatrice che pretendeva di avere una portata esemplare e una valenza continentale senza una sola parola di condanna per il passato coloniale e anzi rivalutandolo nella prospettiva del rinnovato impegno in Africa. Il lessico del discorso neo-coloniale è testimoniato efficacemente dalle discussioni alla Camera nel febbraio 1950 in occasione del provvedimento legislativo per l’assunzione a titolo provvisorio del mandato fiduciario sulla Somalia. La legge n. 12 dell’8 febbraio 1950 venne predisposta in attesa dell’approvazione definitiva del Trattato di amministrazione fiduciaria alle Nazioni Unite, avvenuta nel dicembre 1950, e infine della legge n. 1301 del 4 novembre 1951 con la quale l’Italia ratificava il Trattato medesimo. Nella seduta del 3 febbraio, Gaspare Ambrosini, nella sua qualità di relatore per la maggioranza e deputato della Democrazia Cristiana in seno alla Commissione Esteri della Camera dichiarò:

L’Italia ritorna in Africa per continuare a svolgere una missione di civiltà che è consona al suo temperamento e alle sue tradizioni e vi torna a titolo diverso da quello precedente. [… Il mandato ha importanza] in relazione alla cooperazione volenterosa che l’Italia dà alla nuova organizzazione internazionale e anche, dal punto di vista più particolare dei nostri interessi, per le possibilità che la nostra presenza in Africa offre riguardo all’impiego del lavoro italiano sovrabbondante [AP 1950a, 14988] [5].

Nella lunga arringa pronunciata da Ambrosini, non si usa mai la parola colonialismo per indicare il dominio italiano in Africa al quale ci si riferisce invece nei termini di quella «opera intrapresa … nell’interesse delle popolazioni locali, della civiltà e delle valorizzazione in generale dell’Africa» [14988].

La portata politica e ideale delle parole del democratico cristiano scontava una evidente contraddittorietà con la storia: per un lato si afferma che «l’antico sistema coloniale è da considerarsi finito» e per l’altro se ne afferma la continuità con la pretesa irrealistica e antistorica di scindere la presunta brutalità del colonialismo riconducibile al fascismo e la bontà «del nostro temperamento e della nostra tradizione … per il progresso materiale e morale delle popolazioni» [AP 1950a, 14989]. Ambrosini e con lui il governo repubblicano si spinse al punto di sostenere in parlamento che le obbligazioni internazionali in funzione della pace e della sicurezza, dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sanciti dalla Carta di San Francisco nell’interesse delle popolazioni sotto mandato fiduciario fossero già propri «dell’antica amministrazione italiana» che ancora una volta si evita di chiamare coloniale. L’enfasi che la disciplina del Trusteeship System riservava al ricorso a istituti di diritto non occidentale quali il diritto islamico e le consuetudini legislative africane diventavano «il sistema che già vigeva in Somalia [dove] la legge materiale che si applicava ai nativi era proprio quella della loro religione e del loro aggruppamento tribale» [14989]. Ci si dimenticava però che l’ordinamento coloniale ricorreva a fonti e istituti di diritto islamico e consuetudinario con lo scopo sia di costruire e ordinare i differenti clan somali in modo funzionale al domino coloniale, sia di differenziare in termini di status giuridico tra sudditi coloniali e cittadini nazionali, tanto da istituire con la legislazione razziale del 1936 e degli anni successivi un vero e proprio regime segregazionista [De Napoli 2009].

In modo analogo l’attenzione rivolta dal sistema fiduciario allo sviluppo di istituzioni economiche a favore dei territori amministrati e del commercio internazionale finiva per rientrare nella tradizione «dello sviluppo agricolo, commerciale e delle vie di comunicazione … fondata sul lavoro [degli italiani] e potenziata da quei pochi capitali che il sudato risparmio degli italiani poteva impiegare» [AP 1950a, 14989]. Il lavoro degli italiani e la valorizzazione economica delle colonie furono al contrario intese prima di tutto a servire quel progetto di colonizzazione demografica [Podestà 2011] attraverso la riproduzione in colonia della società della madrepatria e se le conseguenze furono anche quelle di una mobilità sociale di alcuni gruppi o singoli individui colonizzati, non si può di certo concludere che l’obiettivo primo del colonialismo fosse il benessere dei colonizzati. Ambrosini toccava infine il culmine sostenendo che i vincoli posti dalla tutela internazionale in materia di istruzione e sanità si potevano riferire a quella «tradizione dell’antica amministrazione» per la quale «la materia scolastica, quella dell’igiene e quella della sanità erano state curate in Somalia in modo non voglio dire superiore, ma sicuramente non inferiore a quello di qualsiasi altro territorio africano» [AP 1950a, 14989]. Il colonialismo italiano in realtà e al contrario dei due grandi imperi, inglese e francese, si caratterizzò per una sistematica politica intesa a mantenere i sudditi nell’ignoranza. Salvo rarissimi casi, i sudditi potevano accedere solo ai primi tre anni di scuola elementare (nel 1926 venne introdotto un quarto anno), seguita al più da un biennio di formazione tecnica nelle scuole di arti e mestieri: l’intento era di «inculcare la subordinazione», limitando la partecipazione dei colonizzati ai livelli più bassi della società e irreggimentandoli nelle diverse organizzazioni giovanili del Partito nazionale fascista (Pnf) [Palma 2007, 236].

Sulla scia dell’intervento di Ambrosini tutto rivolto a nobilitare il colonialismo italiano falsificandone la realtà storica, il Ministro degli Esteri Carlo Sforza ribadiva lo stacco con il passato e allo stesso tempo il riferimento alla vecchia tradizione amministrativa dell’Italia in Somalia: «Noi pensiamo non ad una colonia italiana, ma ad una repubblica», così la nuova missione dell’Italia non aveva nulla da temere «perché i somali di mezza età ed anziani conservano il ricordo filiale della buona, paterna, democratica, antica amministrazione italiana: essi sanno che gli italiani sono brava gente e che non hanno nulla da temere da noi» [AP 1950a, 14998-9]. Si trattava in effetti di un chiaro programma politico nel quale indirettamente si manifestava l’intenzione di iniziare la nuova amministrazione fiduciaria in Somalia guardando, come poi realmente avvenne, ai vecchi intermediari coloniali, capi-clan, ascari e funzionari somali, a scapito di un rapido dialogo e accordo con i Giovani somali e il movimento nazionale. Fu una politica di questo tipo a rendere fortemente problematica l’opera di amministrazione italiana per tutta la prima parte del mandato, alimentando la conflittualità tra i nazionalisti della Syl e i vertici dell’Afis.

A differenza di quanto era avvento nell’immediato dopoguerra le sinistre criticarono in parlamento la politica del ritorno in Africa, ma è importante notare che le motivazioni riposarono non sempre o necessariamente su una chiara presa di distanza dalla vecchia politica coloniale, ma piuttosto sulla strategia del governo. Ecco allora che per il relatore di minoranza, il socialista Eugenio Dugoni, si poteva assolutamente essere d’accordo che «l’ottenimento di mandati … rientra legittimamente nella politica del nostro paese», ma il problema era piuttosto che «il mandato concessoci era sulla Somalia, infeconda e inospitale terra, chiusa dalla natura a qualsiasi importante attività del lavoro e dell’iniziativa italiana» [AP 1950a, 14993]. Allora la critica al governo non si appuntava tanto sulla ripresa della politica africana, ma sulle scarse garanzie che quel tipo di politica in Somalia poteva portare in termini di vantaggi all’Italia. Era ancora più esplicito un altro socialista, Guido Mazzali, intervenuto sulla scia del compagno di partito, dichiarando che «accettando di ritornare in Somalia, rinunciamo implicitamente a ritornare in Eritrea e in Libia» [15003]. Si difendevano così posizioni letteralmente superate dalla storia che avevano visto naufragare il Compromesso Bevin-Sfroza. L’unico partito a esprimersi in termini di vera e propria rottura con il governo e soprattutto con la sua interpretazione del passato e dei rapporti futuri con i somali fu quello comunista. Così intervenne nel dibattito Gian Carlo Pajetta per il Partito Comunista Italiano:

Voi non volete fare dell’autocritica, voi preferite la faciloneria! Credo che possiamo dire più severamente: voi preferite la recidiva! Voi siete incapaci di mutare strada e non potete perciò ottenere risultati diversi da quelli che ottennero coloro che vi hanno preceduti! […] Ci avete parlato di una specie di idillio col popolo somalo, mi dispiace doverlo smentire: quest’idillio non c’è mai stato! [15011]

Fu sempre Pajetta a leggere in parlamento alcuni documenti relativi alle guerre coloniali italiane in Somalia e alle atrocità perpetrate durante il periodo fascista nei confronti dei somali. Contro tali affermazioni intervenne in modo rivelatore il ministro Sforza: «Ma i somali sanno che noi eravamo perseguitati in Italia dalla stessa gente!» [15012]. In queste poche parole proferite sull’onda dell’emozione si coglie quel percorso di riduzione del colonialismo al fascismo, finendo per dimenticare che esistette un colonialismo italiano precedente al fascismo che nei suoi caratteri essenziali non era affatto diverso dal dominio di epoca fascista.

Il 4 febbraio 1950 chiudeva la discussione sull’Afis l’intervento in aula dell’allora presidente del Consiglio e ministro ad interim dell’Africa italiana, Alcide De Gasperi:

Accettare l’amministrazione provvisoria della Somalia implica che l’Italia crede alle nuove forme di amministrazione, ai nuovi rapporti internazionali. Vuol dire quindi che è in atto veramente una collaborazione profonda che lega l’Europa, che ci avvia alla costituzione della nuova Europa, che l’Italia partecipa all’Onu con senso del dovere e che vuol contribuire per la propria parte a questa nuova edificazione. […] Accettare l’amministrazione della Somalia vuol dire lavorare per un mondo nuovo, guadagnarci amicizie fra tutti i popoli che aspirano alla libertà e al progresso. E voi avete visto come l’atteggiamento nostro nell’ultimo periodo ci abbia cattivato altre amicizie nel Mediterraneo e nel mondo in genere. Questo è un mondo in sviluppo. Non si sa domani dove questo sviluppo potrà portare, ma è bene seguirlo e crearsi degli amici. Ora gli amici debbono essere le nazioni che aspirano alla libertà, che aspirano all’indipendenza. Tutto questo significa la ripresa dell’antica politica italiana, la politica del Risorgimento [AP 1950b, 15037].

Non si trattava in definitiva solo di una rappresentazione artificiosa del percorso che aveva portato l’Italia a chiedere il mandato sulla Somalia e più in generale a perseguire il proprio ritorno in Africa. Il discorso pronunciato da De Gasperi, dove ancora una volta non si usa la parola colonialismo, testimonia il più ampio processo in atto di rimozione della verità storica del passato coloniale e di giustapposizione di un passato edulcorato e rassicurante che si fondava sul collegamento diretto della nuova missione civilizzatrice in Somalia con la storia del Risorgimento italiano. Lo stesso lessico con il quale venne argomentata l’opportunità di farsi carico di quell’amministrazione che costituiva un «peso, ma sopportabile» rinviava neppure troppo velatamente alla retorica della missione civilizzatrice di fine Ottocento e al fardello dell’uomo bianco per la salvezza dei neri [15059]. Durante i lavori parlamentari era stato anche un altro cristiano democratico, l’onorevole Giuseppe Maria Bettiol, a utilizzare un lessico nazional-patriottico in chiusura della seduta del 3 febbraio, appellando i colleghi deputati «che voteranno contro questo disegno di legge […] uomini che non conoscono il significato veramente profondo delle parole coraggio e dignità nazionale» [AP 1950a, 15021].

Riflettendo sulla parabola storica del discorso nazional-patriottico dal Risorgimento al fascismo, Alberto Mario Banti ha scritto che «dopo la fine della seconda guerra mondiale, i termini “nazione” e “patria” e i valori loro associati vengono abbandonati dai protagonisti della vita pubblica italiana: […] quasi dovunque il nesso strettissimo che si è creato nei decenni precedenti tra ideologia nazional-patriottica e nazi-fascismo induce politici e pubblicisti di vario orientamento democratico a evitare per quanto possibile il riferimento all’universo valoriale del nazional-patriottismo» [Banti 2011, 203]. Tra i casi eccezionali e per tanti versi residuali di un certo «nazionalismo collaterale», l’autore ricorda lo ius soli come pietra angolare della disciplina giuridica della cittadinanza, il canone educativo imperniato sulla preminenza della letteratura in lingua italiana e il lessico sportivo dei “nostri atleti” [204]. A tutto questo va evidentemente aggiunto il rapporto non solo ideale, ma anche politico e sociale con il passato coloniale e con quei paesi che furono colonie italiane, fino a comprendere per estensione un certo modo di guardare all’Africa nel suo complesso. Il colonialismo costituisce una parte essenziale della storia d’Italia tra Otto e Novecento dal punto di vista della politica internazionale, della sperimentazione istituzionale, delle migrazioni e anche della formazione del carattere nazionale. Non stupisce allora che tra le tante continuità imputabili alla fine specialissima del dominio italiano vi sia anche quella di un certo discorso intorno alla nazione, alla patria e in definitiva alla rappresentazione dell’Italia e degli italiani che finisce per essere fortemente debitrice del colonialismo. Anche se ancora per gran parte da indagare, il nesso storico, politico ed ideale tra Risorgimento e colonialismo è innegabile come testimonia il rapporto tra l’invocazione di Mazzini a “purificare” la vergogna dell’Italia sottoposta al giogo straniero e la simile invocazione a riscattare l’umiliazione nazionale della sconfitta [subita ad Adua] che «si tradusse in un appello decisamente emozionale e aggressivo alla vendetta» con tutto quel che ne seguì in termini di guerre e crimini coloniali in Libia e nel Corno d’Africa [Patriarca 2012, 147].

Memoria e discorso coloniale

Il discorso intorno al passato coloniale che si accompagnò con il mandato sulla Somalia finì per legittimare le tante continuità dei dieci anni di amministrazione fiduciaria a scapito delle rotture. La chiusura del dossier coloniale e la sistemazione delle colonie per un verso avviò una più generale liquidazione di quell’apparato coloniale fatto di persone, istituzioni e interessi trasversali che fino al 1949 aveva sostenuto con forza la restaurazione di un ordine neocoloniale, tuttavia proprio le necessità di uomini, competenze e apparati amministrativi fecero transitare attraverso l’Afis più di uno spezzone del vecchio mondo coloniale con una serie di effetti negativi sulla gestione dell’amministrazione fiduciaria e in ultima analisi sui suoi stessi obiettivi finali. L’unica decolonizzazione italiana scontò tutte le contraddizioni e i limiti di un esperimento di “colonialismo democratico” a partire dalle continuità di pratiche e uomini della vecchia amministrazione coloniale in aggiunta a un paternalismo insito nell’idea stessa di tutela internazionale. Scelte di gestione amministrativa e altre propriamente politiche portarono i vertici dell’Afis a coltivare per troppo tempo i rapporti clientelari con i vecchi intermediari coloniali invece di puntare da subito a instaurare un legame nuovo e diverso con il nascente movimento nazionale somalo. Per questi e altri motivi i dieci anni dell’Afis possono essere letti come un confronto e uno scontro tra la direzione degli organi di vertice che realmente guardarono a politiche e pratiche nuove e un corpo amministrativo troppo spesso ancorato al passato.

A rilevare le ambiguità della politica italiana furono prima di tutto i nazionalisti somali. L’eccezionalità di un’amministrazione fiduciaria affidata all’ex potenza coloniale nonostante tutte le garanzie offerte dalle Nazioni Unite non mancò di sollevare le critiche della Syl che aveva lottato per un’immediata indipendenza del paese. I Giovani somali protestarono nel 1950 alle Nazioni Unite per l’eccessiva militarizzazione dell’Afis che stava dispiegando in Somalia un apparato di oltre 6 mila uomini e perché «con l’eccezione dell’amministratore e di pochi altri, i funzionari dell’Afis, particolarmente quelli più alti in carica, appartengono al Ministero dell’Africa Italiana (Mai) e l’assetto dell’amministrazione in Somalia è identico a quello che esisteva durante il regime fascista» [6]. Negli anni successivi la Syl scese a compromessi con l’Afis e nella sostanza partecipò all’esperimento fiduciario, facendo soprattutto affidamento su quella pattuglia di funzionari fiduciari che, pur provenendo dalla carriera diplomatica o del vecchio Ministero delle colonie, erano ormai acquisiti a idee diverse dal passato e garantirono il raggiungimento degli obiettivi formali del mandato insieme ad alcuni traguardi sostanziali specie nel campo dell’istruzione. L’accordo con i Giovani somali permise all’Italia di presentare il rapporto con la Syl come intrinsecamente virtuoso, celando il versante della lotta nazionalista e anticoloniale alla quale la Lega non rinunciò mai.

Nel complesso non tutte le colpe furono italiane e se con l’indipendenza vennero conseguite la derazializzazione e la somalizzazione del potere attraverso le elezioni politiche e l’immissione di funzionari somali nella macchina statale predisposta dall’Afis, non si può dire altrettanto per la declanizzazione della società e delle sue forme politiche che pure era tra gli obiettivi programmatici del nazionalismo somalo. Nonostante «l’agenda nazionalista avesse lodato la complementarietà e insistito sull’omogeneità» dei somali [Geshekter 1997, 71], il progetto di una Somalia unica e indivisibile, radicata su un territorio che avrebbe dovuto abbracciare tutte le popolazioni somalofone del Corno d’Africa, rimetteva in discussione i confini e gli assetti regionali di derivazione coloniale. La politica irredentista della Syl non ebbe solo l’effetto di destabilizzare gli equilibri dell’intera regione, ma andò anche di pari passo con una gestione sempre più autoritaria del potere all’interno del paese dove la Lega agì di fatto come se fosse in un sistema politico a partito unico.

I risultati conseguiti in Somalia alla fine del mandato furono limitati e nel complesso al ribasso con riferimento alla capacità dell’Italia di esercitare una concreta influenza sulla nuova classe politica somala, continuando in prospettiva ad avere un ruolo nel paese dopo la fine dell’Afis. L’unione contestuale all’indipendenza tra l’ex Somalia italiana e l’ex British Somaliland contribuì in modo determinante a limitare la portata dei modelli politici e amministrativi lasciati in eredità dall’Italia alla nuova Somalia dove venne non senza difficoltà accomodata la tradizione giuridico-amministrativa anglosassone legata all’ex protettorato inglese del Somaliland. L’indipendenza della Somalia rappresentò così al tempo stesso l’apice dell’influenza italiana e l’inizio di un suo veloce declino. Sul versante della cooperazione allo sviluppo, che nel contesto della guerra fredda rappresentò una delle maggiori leve di influenza e ingerenza delle potenze nelle diverse regioni del mondo, la sostituzione di un dominio diretto di tipo coloniale con un’influenza indiretta impegnava le ex potenze coloniali o le nuove superpotenze a concedere un aiuto condizionato a quei paesi neoindipendenti che sotto molti profili istituzionali, amministrativi ed economici non erano autosufficienti. La fine del dominio coloniale veniva utilmente riconvertita dagli ex colonizzatori nella prospettiva dello sviluppo, barattando il dominio diretto in cambio di relazioni post-coloniali vincolanti: la Somalia non faceva eccezione e per gli Stati Uniti che guidavano il blocco occidentale «la maggiore responsabilità nel settore dell’assistenza doveva essere lasciata ai paesi ex amministranti» e perciò in Somalia «maggiori saranno i controlli italiani sull’economia e più mezzi vi saranno per resistere alle pressioni di Mogadiscio» per una politica autonoma [7]. Tuttavia la capacità dell’Italia di servire questo disegno fu modesta e in ultima analisi insufficiente. Furono infatti americani e inglesi a subentrare sempre più alle posizioni italiane al fine di contrastare l’Unione Sovietica che invece nel 1963 trovò proprio in Somalia quello spazio di manovra del quale era alla ricerca nel Corno d’Africa. L’Italia si dimostrò fino all’ultimo una potenza coloniale e riuscì a esercitare una reale influenza sulla Somalia solo fino a quando fu in grado di mantenervi un dominio diretto, ma nel momento in cui questo venne meno si rivelò poco attrezzata di fronte alle sfide imposte dalle logiche dell’influenza indiretta e di politiche che necessitavano di strumenti sofisticati propri in ultima analisi delle grandi potenze.

Nonostante tutti i limiti dell’azione politica italiana in Somalia, il mandato servì in ogni caso a sostenere quella politica di collaborazione e cooperazione ad ampio raggio che la nuova Italia repubblicana si era proposta di perseguire nelle relazioni con i paesi africani di nuova indipendenza, tanto che l’Italia poté partecipare nel 1960 alla missione internazionale di pace dell’Organizzazione delle Nazioni Unite in Congo (Onuc). La rappresentazione dell’Afis fu sostanzialmente quella del contributo italiano allo sviluppo e all’autodeterminazione dell’Africa, celando gli obiettivi di influenza postcoloniale. Limiti, fragilità e problematicità della decolonizzazione somala, come di tante altre nel continente africano, sono riconducibili tanto ai colonizzatori quanto ai movimenti nazionalisti, ma solo la leggerezza con la quale l’Italia ha guardato al suo passato coloniale o addirittura alla sua strenua e irrealistica difesa possono spiegare quella presunzione di proporre attraverso l’Afis il colonialismo italiano come esempio di civilizzazione e di sviluppo. Era in definitiva proprio questo il tema trasversale che emerse in più di un intervento al parlamento a Roma in occasione dell’approvazione della legge ad articolo unico n. 643 del 28 giugno 1960 “Cessazione dell’amministrazione fiduciaria italiana della Somalia”.

Furono i due parlamentari della Democrazia Cristiana (Dc), Giuseppe Maria Bettiol e Giuseppe Brusasca, a ribadire la valenza “continentale” dell’Afis con la cui fine «l’Italia non chiude la pagina della sua politica africana, ma la approfondisce [in nome di] una fattiva collaborazione [affinché] un avvenire migliore possa essere domani realizzato per il bene nostro e per il bene dei fratelli africani»; l’Italia aggiungeva Brusasca aveva «compreso i nuovi tempi, […] dando la prova a tutti i popoli africani che noi vogliamo collaborare con loro su un piano di fraternità e progresso per la liberazione dai loro bisogni per la pace di tutti» [AP 1960, 15306-7]. Il socialista Tristano Codignola per un verso e più di altri non aveva esitato a equiparare la fine dell’Afis alla «caduta dell’ultimo diaframma che ancora legava in qualche modo il nostro paese a quel colonialismo che è così intimamente connesso con una concezione antidemocratica della nostra stessa vita nazionale», d’altra parte assolveva la portata del ruolo italiano nella spartizione del continente africano dove «il nostro paese, ultimo giunto nella contesa colonialistica dell’Europa, arrivò quando il colonialismo era già in declino e già era trasformato nelle sue più odiose forme», finendo per proporre quell’interpretazione di riduzione del colonialismo al fascismo quando affermava che «tutte le fasi del nostro intervento in Africa furono necessariamente legate alla involuzione democratica che ne seguì all’interno del nostro paese» [15308-9]. Fu paradossalmente Pino Romualdi, deputato del Movimento sociale italiano ed ex dirigente del partito nazionale fascista, per il quale ricoprì anche l’incarico di vicesegretario a Gimma in Etiopia nel 1939, a interrompere Codignola notando giustamente che «il colonialismo è sorto prima del fascismo» [15308-9].

La storia, quella vera, dell’espansione coloniale italiana in Africa è in effetti coeva a quella degli altri colonialismi europei. È vero che il governo Cairoli si spese fino all’ultimo per la difesa dello status quo nel Mediterraneo così da sfruttare i legami commerciali più che quelli coloniali per la penetrazione italiana in Africa, ma è altrettanto vero che dopo la proclamazione del protettorato francese sulla Tunisia nel 1881 e il bombardamento inglese di Alessandria d’Egitto nel 1882 la politica italiana mutò rapidamente tanto che l’Italia fece di tutto per partecipare alla Conferenza di Berlino del 1884-5 dove venne messo a punto quel meccanismo politico-diplomatico che nel giro di pochi anni portò alla spartizione dell’interno continente africano tra una manciata di potenze europee [Calchi Novati 1990]. Non fu certo un caso che dopo la nazionalizzazione della baia di Assab nel 1882, l’occupazione del porto di Massawa lungo la costa del Mar Rosso avvenne il 5 febbraio 1885 poche settimane prima della fine dei lavori della Conferenza di Berlino, così da testimoniare con decisione la volontà dell’Italia di voler prendere parte a quello che passò alla storia come lo Scramble for Africa. Riguardo poi al rapporto tra colonialismo e fascismo, il fascismo produsse un’accentuazione di dinamiche e processi già in atto in epoca liberale, non fosse altro per le maggiori risorse destinate alle guerre e alla colonizzazione, ma il dominio italiano in Africa fu coloniale fin dal principio.

Nella chiusura del dibattito parlamentare fu infine il liberale Giovanni Francesco Malagodi a insistere sul fatto che l’Italia in Somalia «non è andata con la violenza, è andata con pacifiche trattative: […] del resto questo è stato sempre in quel territorio il comportamento dell’Italia e per queste ragioni quelle popolazioni le sono sempre state amiche e fedeli» [AP 1960, 15310]. In realtà l’occupazione coloniale della Somalia venne tanto contrattata, quanto imposta con le armi: nel 1904 gli italiani dovettero far fronte alla rivolta del clan bimal nell’entroterra di Merca, nel Benadir, mentre nel Nord le truppe italiane aiutarono quelle inglesi di stanza nel British Somaliland durante la guerra ventennale contro Mohamed ‘Abdullah Hassan che nel 1899 aveva lanciato dalla valle del Nogol, nel Nord della penisola somala, il jihad contro gli europei, i cristiani etiopici e i musulmani ritenuti miscredenti. Dal 1925 al 1927 fu infine il quadrunviro Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon a guidare le cosiddette operazioni di polizia coloniale che in realtà furono una vera e propria guerra combattuta per sottomettere i due protettorati di Hobyo e di Majeerteen, mettendo fuori gioco le due rispettive dinastie sultanali, e unificare la colonia. Difficile infine parlare con tanta facilità di amicizia italo-somala se si considera che proprio la propaganda italiana per il ritorno in colonia nel secondo dopoguerra finì per esasperare a tal punto il confronto politico a Mogadiscio tra forze anti e pro italiane da sfociare in una serie di scontri che l’11 gennaio 1948 causarono la morte di 52 italiani e il ferimento di altri 48 in aggiunta a 14 morti e 43 feriti da parte somala [Calchi Novati 1980]. Durante tutta la discussione in parlamento sulla fine del mandato fu solo Arrigo Boldrini per il Partito Comunista Italiano a tenere una posizione di diverso tenore e nella sostanza critica verso quella che era invece stata la convergenza di tutti gli altri partiti sulla buona riuscita dell’amministrazione fiduciaria:

Vi sono ombre nella nostra amministrazione fiduciaria [perché l’Italia non è stata in grado di agire] con più larghezza di vedute, senza vedere con occhi limitati il gioco di questo o quel gruppo. La Somalia diventa uno stato libero e indipendente forse per merito degli italiani? Se oggi la Somalia diventa uno Stato indipendente, il merito fondamentale va al popolo somalo che ha dimostrato la sua capacità di essere un popolo indipendente [AP 1960, 15310].

La rappresentazione prevalente dell’Afis che emerge dalle discussioni parlamentari è in consonanza con quella proposta da coevi studiosi ed esperti d’Africa che con una mentalità ancora colonialista monopolizzarono almeno fino a metà anni Settanta lo studio del colonialismo italiano. Per Angelo Del Boca che è forse il più conosciuto storico del colonialismo italiano ed è stato tra i primi a proporne una ricostruzione critica, l’opera intellettuale e scientifica intesa a offrire una rappresentazione edulcorata e positiva del dominio italiano in Africa può essere definita nei termini di un «revisionismo di Stato» [Del Boca 2009, 12]. Il riferimento dello storico novarese è a un’intera stagione di studi e ricerche che può essere bene sintetizzata nella collana L’Italia in Africa edita dal “Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa” [Morone 2010]. Nel 1952, tra le pieghe del processo di liquidazione del Mai, prese corpo il progetto di «salvare il centro di aggregazione […] che aveva ruotato attorno all’Ufficio studi» del Ministero e di trasformarlo in un nuovo ente [Pellegrini, Bertinelli 1994, 103-4]. Il risultato fu la pubblicazione di quaranta tomi che si caratterizzarono per «una dipendenza totale dalle tesi oltranziste dell’epoca fascista e dalla superficialità e genericità della ricostruzione degli avvenimenti» [Rochat 1978, 109]. Le ricerche pubblicate furono dunque rappresentative di una più generale temperie culturale orientata a «far dimenticare gli orrori della notte coloniale» [Del Boca 2009, 27].

Il discorso e la riflessione tanto politica quanto intellettuale che si accompagnarono all’accettazione da parte italiana del mandato sulla Somalia, alla sua gestione e infine alla sua conclusione ebbero un ruolo importante nella formulazione e poi nel consolidamento dei principali miti relativi al colonialismo italiano. Proprio guardando all’Afis è evidente come non solo si rimosse il passato, ma si procedette anche a una sua rivisitazione attraverso l’amministrazione in Somalia. L’Afis dunque fu determinante nel riconciliare gli italiani con il proprio passato coloniale, ma a prescindere dalla verità storica e, in ultima analisi, in modo posticcio rispetto ai ritorni recenti della memoria coloniale innescati dalle migrazioni internazionali. Proprio mettendo a confronto le discussioni parlamentari del 1950 e quelle del 1960 si può vedere in modo chiaro come presero forma almeno tre temi della narrazione mitica e buonista del colonialismo italiano che ebbero particolare fortuna negli anni a venire fino ad oggi: l’Italia sarebbe arrivata tardi in colonia, al seguito degli altri paesi europei e senza un preciso piano di conquista e sottomissione; infatti il colonialismo italiano avrebbe dato più di quanto avrebbe preso e la prova starebbe nel lavoro degli italiani in colonia; e se mai fu commesso qualcosa di male, la colpa doveva essere sicuramente del fascismo non tanto del dominio civilizzatore italiano di epoca liberale. La leggerezza del passato coloniale fu uno strumento che i dirigenti della nuova Italia utilizzarono consapevolmente e a fondo per coltivare relazioni privilegiate con i paesi africani di nuova indipendenza. Tuttavia restò inevasa quella contraddizione di fondo che stava nel ricercare un ruolo nuovo e diverso per l’Italia in Africa attraverso il passato recente invece che a prescindere da esso.


 

Fonti primarie

AP

  • Atti Parlamentari 1950a, Camera dei Deputati, Discussioni, seduta del 3 febbraio.
  • Atti Parlamentari 1950b, Camera dei Deputati, Discussioni, seduta del 4 febbraio.
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ASCM

  • Archivio Storico del Comune di Casale Monferrato, fondo Giuseppe Brusasca.

ASDMAE

  • Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri:
  • Fondo della Direzione Generale dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia.
  • Fondo Affari Politici.

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  • Podestà G.L. 2011, Mito e realtà del progetto demografico, in Gian Paolo Calchi Novati, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Roma: Carocci.
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Note

1. Cfr. Colin, Laforgia 2003; Giuliani, Lombardi-Diop 2013; Giuliani 2015; Lombardi-Diop, Romeo 2012; Proglio 2011; Sinopoli 2013

2. Cfr. Andall, Duncan 2005; Del Boca 1984; 2009; Bertella Farnetti, Mignemi, Triulzi 2013; Labanca 2002; Uoldelul Chelati Dirar, Palma, Triulzi, Volterra 2011.

3. Copia del Memorandum si trova all’Archivio Storico Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in poi ASDMAE), fondo della Direzione Generale dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana della Somalia, b. 19, f. 42.

4. Archivio Storico del Comune di Casale Monferrato (AL) (d’ora in poi ASCM), fondo Giuseppe Brusasca (d’ora in poi GB), b. 32, f. 9, appunto della riunione per la Somalia al Mai, 26 novembre 1949.

5. Il corsivo è mio così come nelle successive citazioni. Ambrosini era docente di diritto pubblico e aveva ricoperto un importante ruolo nella redazione della Costituzione italiana quale deputato alla Costituente. Nonostante i sui principali interessi di studio e ricerca fossero il costituzionalismo e i sistemi elettorali, Ambrosini dal 1937 per alcuni anni aveva anche insegnato diritto coloniale all’Università di Roma “La Sapienza”.

6. ASCM, GB, b. 81, memorandum all’Assemblea Generale dell’Onu dalla delegazione somala, New York, ottobre 1950.

7.  ASDMAE, fondo Affari Politici b. 247, f. 840, lettera segreta n. 2254 da Manlio Brosio a Washington al Mae, 19 febbraio 1960.