Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Policentrismo e resistenze periferiche nella storia dell’arte italiana: “Centro e periferia” di Castelnuovo e Ginzburg

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Abstract

The contribution deals with “Centro e periferia”, a 1979 essay, written by Enrico Castelnuovo and Carlo Ginzburg and recently republished by Officina Libraria. It investigates the genesis of the essay and addresses the fruitful dialogue between the social history of art promoted by Castelnuovo and the experience of Italian micro-history. According to Ginzburg’s suggestions in the new Preface, Centro e periferia is discussed in relation to the historical studies’ current panorama. The focus is therefore on the analysis of a concrete cases’ sample and their composition in a model for the study of relations between centres and peripheries on whose potential — in the context of the challenge the globalized world posed to the humanities — the question is still open. It is a challenge taken up and relaunched by World history and Global history that makes once again the problems of comparison and self-reflexivity posed by the micro-history’s experiments urgent.

Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, Centro e periferia nella storia dell’arte italiana, Milano, Officina Libraria, 2019, 164 pp., ISBN: 9788833670621

Centro e periferia nella storia dell’arte italiana

A quarant’anni dalla sua prima pubblicazione nella Storia dell’arte italiana di Einaudi, Officina Libraria ripropone un denso saggio del 1979 scritto a quattro mani da Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg: Centro e periferia nella storia dell’arte italiana, che inaugura la collana Storie, diretta da Lucio Biasiori e Francesco Torchiani [1].

Considerato un classico nel campo della storia e storiografia dell’arte, Centro e periferia costituisce uno snodo obbligato per chi si interessa di geografia artistica come problema teorico e pratica storiografica.

La sua ripubblicazione, e gli spunti offerti dalla nota di prefazione di Ginzburg che l’accompagna (7-12), offrono inoltre l’occasione di riflettere su una questione che ha ripetutamente attraversato il dibattito storiografico internazionale degli ultimi vent’anni, e cioè la relazione tra analisi microstoriche (un insieme non facilmente riconducibile a una definizione generale) e tenuta epistemologica delle generalizzazioni da queste prodotte. Soprattutto, permette di farlo a partire da un caso storiografico concreto, tentando di metterne a fuoco la rilevanza in termini di attualità.

Castelnuovo ha retrospettivamente individuato l’innovatività di Centro e periferia, che gli valse una vasta eco internazionale, nella proposta di lavorare in modo analitico su un problema (le relazioni complesse tra centri e periferie) che in storia economica e sociale aveva mostrato le proprie potenzialità ermeneutiche e dunque si rivelava promettente, oltre che inedito, nell’ambito della storia dell’arte (Giovannini Luca e Pierobon 2014, 165-67; Castelnuovo e Ginzburg 2019, 154 nota 4) [2].

Le premesse da cui il saggio muove affondano infatti le radici nell’affinità di presupposti e intenti tra l’opera fortemente innovatrice che Castelnuovo promosse, a partire dagli anni Sessanta, sollecitando una riflessione sulla storia sociale dell’arte in Italia (Castelnuovo 1976 e 1977; Rossi Pinelli 2007, 176-80; Rossi Pinelli 2017, 6-8; Nicoletti 2017, 21-6), e l’attività di quel gruppo eterogeneo di storici che sarebbero in seguito divenuti noti come esponenti della microstoria italiana, che veniva profilandosi in stretto dialogo con la storia sociale [3]. Tra questi, Carlo Ginzburg – che sin dalle sue prime pubblicazioni intavolava un fitto dialogo incrociato con le Annales e il Warburg Institute (Ginzburg 1965 e 1966) – aveva in più occasioni invitato la storiografia (specie religiosa e culturale) a tener conto delle riflessioni in corso nell’ambito della storia dell’arte, e in particolare dell’iconologia, sulla pluralità di livelli di significato e fruizione e sulla circolarità di elementi interni ed esterni nelle produzioni figurative [4].

Come ricorda Ginzburg nella breve Prefazione che accompagna l’edizione di Officina Libraria (9) e come aveva evidenziato Castelnuovo (Giovannini Luca e Pierobon 2014, 168 e 171-73), per entrambi gli autori un riferimento decisivo erano gli studi di Michael Baxandall. Se Castelnuovo pensava infatti alla storia sociale dell’arte come a un approccio capace di scalzare il dilemma della generazione precedente – forme artistiche come espressione di una visione del mondo o autonomia e specificità del linguaggio artistico? (Castelnuovo 1976, 25) –, nel suo Painting and Experience in Fifteenth Century Italy, Baxandall (1972) aveva interrogato le relazioni tra stile, abilità artistica, elementi di natura economica, abitudini e aspettative del pubblico. In questo modo, aveva mostrato empiricamente la contiguità tra storia artistica e storia sociale e, soprattutto, impiegato gli oggetti storiografici canonici dell’una per produrre guadagni conoscitivi per l’altra.

Castelnuovo ha inoltre sottolineato quanto l’impianto del saggio dipendesse da una propensione a “pensare per problemi”, ovvero a lavorare in chiave anti-tradizionalista attraverso l’individuazione di anomalie, elementi di frattura, periodi critici e di transizione, posizionamenti di confine e snodi (di intersezione e di conflitto) economici, politici, culturali e sociali (Castelnuovo 1976, 15-6). Nella ricerca di problemi rivelatori, in grado cioè di complicare la relazione tra oggetto di analisi e contesto di riferimento, favorendo quindi la costruzione di «contesti attivi» (Castelnuovo e Sergi 2002, xxxii) e multifocali, si può cogliere un punto di contatto significativo con l’autoritratto che Ginzburg ha proposto, in più sedi, del proprio programma storiografico, all’interno del quale la microstoria ha un peso rilevante e, insieme, un significato dinamico (Ginzburg 1993 e Ginzburg 2005).

Se dunque un impulso decisivo per la genesi di Centro e periferia – nel contesto di quella che Castelnuovo avvertiva, dall’interno e in presa diretta, come una fase di profonda riconfigurazione della storiografia artistica (Castelnuovo 1977, 4) – venne anche da un proficuo dialogo con la storia sociale ed economica, una lettura che si collochi (anche) oltre i confini della storia dell’arte può rivelarsi proficua.

In questa sede cercherò dunque di porre l’accento sull’aspetto che mi pare più interessante evidenziare in relazione all’attuale panorama degli studi storici. Ovvero l’analisi di un campione di casi concreti, e la loro composizione in un modello per lo studio delle relazioni tra centri e periferie sulle cui potenzialità, nell’ambito della sfida posta alle scienze umane dal mondo globalizzato, la questione è ancora aperta. Una sfida raccolta e rilanciata dalla World history e dalla Global history [5] che rende nuovamente urgenti i problemi di comparazione e auto-riflessività posti dagli esperimenti di microstoria (Revel 1996; Cerutti 2004; Ginzburg 2005; Espada Lima 2006; Trivellato 2011 e 2015; Allegra 2011; De Vito 2019).

Avanzamento obliquo e décloisonnement: storia sociale dell’arte e microstoria

Originariamente destinato a un volume di carattere metodologico, il primo (Questioni e metodi), della grande opera einaudiana co-diretta, non senza divergenze, da Giovanni Previtali e Federico Zeri, il saggio di Castelnuovo e Ginzburg aveva preso forma nel contesto, infuocato e ricchissimo, in cui per quasi un decennio si progettò, sulla scorta del successo della Storia d’Italia, la Storia dell’arte italiana, dibattendo questioni generali relative alla definizione dell’oggetto storiografico stesso, come la periodizzazione e il senso dell’attribuzione dell’aggettivo “italiana” alla storia dell’arte [6]. Nell’ambito del progetto attorno a cui l’Einaudi aveva raccolto voci eterogenee – e la stessa scissione della Storia dell’arte nei due blocchi affidati ai due curatori e impostati in modi differenti rispecchiava l’approdo a una soluzione di compromesso più che alla definizione di un impianto armonico – la proposta di lavorare sulle nozioni polivalenti di centro e periferia in relazione ai fenomeni artistici si configurava evidentemente come un tentativo di avanzamento in obliquo.

Una strategia, quella dell’avanzamento in obliquo, che rispondeva a un’esigenza comune ai due autori, da entrambi dichiarata e perseguita nei propri ambiti di ricerca e da entrambi associata a una particolare attenzione al quadro metodologico dei saperi storici. Si trattava, cioè, di ottenere guadagni conoscitivi scalzando gli opposti riduzionismi – con conseguenti vicoli ciechi e automatismi interpretativi – al cui interno la ricerca storica e storico-artistica rischiava di restare irretita (Ginzburg 1966; Castelnuovo 1976 e 1977).

Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg a Torino (piazzetta Primo Levi), 27 giugno 2006
Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg a Torino (piazzetta Primo Levi), 27 giugno 2006

Questo saggio è dunque anzitutto un marcatore particolarmente felice dell’intersezione tra gli interessi di uno storico dell’arte «attratto dalle questioni legate alle periferie e alle frontiere» (Giovannini Luca e Pierobon 2014, 169), che aveva ricevuto in eredità da Longhi la scoperta di inesplorate periferie pittoriche italiane e aveva lavorato in profondità su contesti per molti versi anomali, dialogando intensamente con la storia sociale nella prospettiva privilegiata della ricezione [7]; e gli interessi di uno storico da sempre attento ai metodi degli storici dell’arte e dei conoscitori (Ginzburg 1966; 1976a; 1978 e 1981), allora immerso nella fase inaugurale di un dibattito sulla cultura popolare destinato ad attraversare, fino a oggi, alterne fortune, e che nelle sue ricerche sui processi inquisitoriali si era proposto di cogliere il punto di vista degli imputati e di scriverne la storia in una prospettiva in grado di registrare le relazioni asimmetriche tra gli attori in campo e insieme scalzare sul piano storiografico gli effetti di rapporti di forza – materiali e simbolici – squilibrati (Ginzburg 1972; 1976c e 1980).

Ma, al di là dell’affinità dei presupposti e della comune esigenza di incrinare le narrazioni tradizionali, il punto di forza del saggio sta nell’intreccio concreto tra discipline e scale di analisi, con l’obiettivo di controllare un alto numero di variabili sincroniche [8] e trasformazioni diacroniche, secondo uno schema di griglie sovrapponibili che Castelnuovo aveva descritto in un denso saggio pubblicato in due puntate su Paragone (Castelnuovo 1976 e 1977; in particolare Castelnuovo 1977, 4-5).

In quella sede, Castelnuovo aveva discusso l’esperienza della storia sociale emersa negli anni Cinquanta (Antal e Klingender) ed evidenziato i limiti di approcci à la Hauser (ovvero basati su uno schematico modello di “rispecchiamento” tra arte e società), pur tenendo ben salda la necessità di non abbandonare gli strumenti della sociologia (e individuava in Bourdieu un interlocutore importante: Castelnuovo 1977, 20-1) [9].

La storia sociale dell’arte doveva dunque mirare alla costruzione di modelli dinamici, lavorando in chiave di “décloisonnement [10] e pluralizzazione dei fattori e degli attori coinvolti nei processi di produzione artistica, distinguendo il versante della dominazione politica e simbolica da quello della “diffrazione”, ovvero della mediazione di una coscienza sociale plurale, non omogenea e attraversata da contrasti (Castelnuovo 1976, 13-4; Castelnuovo 1977, 8 e 26-7) [11].

Anche qui si coglie una forte affinità con la prospettiva di Ginzburg, che aveva individuato negli studi di iconologia prodotti nell’ambito del Warburg Institute uno strumento da mettere a frutto anche nella decifrazione dei suoi oggetti di ricerca (ad esempio le visioni oniriche dei benandanti friulani o le teorie cosmogoniche del mugnaio Menocchio), oltre ad aver iniziato a focalizzare in modo progressivo la necessità di variare in termini spaziali e cronologici i contesti all’interno dei quali la complessità di interazioni e “diffrazioni” poteva essere osservata [12].

Rileggere Centro e periferia alla luce del “manifesto” di Castelnuovo sulla storia sociale dell’arte permette di identificarvi la sperimentazione di un modello di analisi in grado di superare lo iato tra quelli che Burke (1972) aveva definito un approccio macrosociologico (Hauser e Antal) e un approccio microsociologico (Gombrich) e, in questo modo, guadagnare un punto di vista capace di complicare la relazione tra produzione figurativa e società. Da notare, su questo punto, un richiamo agli scritti di Walter Benjamin su Baudelaire, a integrazione dei limiti della prospettiva di Gombrich sulla relazione tra produzione artistica e mercato dell’arte (Castelnuovo 1976, 24-5), tema che Centro e periferia riprenderà in altra chiave (32-4).

L’idea di un movimento proficuo lungo l’asse micro/macro, d’altra parte, era stata chiamata in causa anche da Cantimori (un referente importante per entrambi gli autori), con rimando alla Wissenssoziologie e al potenziale euristico di casi limite o eccezionali, in un passaggio cruciale delle sue lezioni sulla storiografia dei movimenti ereticali [13].

E in un ricco saggio sull’arte delle Alpi, uscito nello stesso anno di Centro e periferia, Castelnuovo metteva a tema la relazione tra studi ravvicinati e modelli critici di sintesi, soffermandosi sulle potenzialità della geografia artistica, se capace di render conto della variabilità storica, politica e sociale della produzione artistica:

Non è dunque possibile [per la scarsità di inventari monumentali e studi particolari, n.d.a.] dar luogo a studi comparativi soddisfacenti, ovvero a opere di sintesi. Nondimeno, dobbiamo evitare la conclusione più immediata, la più semplice che si potrebbe formulare: attendiamo che siano fatti questi studi particolari prima di tentare l’abbozzo di un discorso di insieme. Ritengo che, anche quando si cerca di chiarire una situazione particolare, occorra adottare un’ottica per così dire globale, partire da ipotesi formulate in modo esplicito a costo di modificarle o abbandonarle in seguito, considerare i problemi in modo da non farsi distrarre dal particolarismo del caso isolato. A partire da una certa soglia, il metodo del ‘caso per caso’ diviene un pericolo; si dovrà dunque procedere formulando ipotesi di insieme e sottoporre gli esempi prescelti, in epoche differenti e in diverse regioni alpine, a domande simili. […] Si tratterà di ‘interrogare’ il monumento in esame, sia esso un affresco, una vetrata, un edificio o un manoscritto miniato. Chi sono i suoi autori e donde provengono? Appartengono questi a una tradizione locale già affermata (e da quando?) e, in tal caso, come si pongono rispetto a tale tradizione? Sono artisti itineranti e, in questo caso, a quale tradizione e a quali prototipi si rifanno? Chi sono stati i committenti (individui, collettività, ecc.)? Qual era la condizione del luogo nel momento in cui l’opera è stata prodotta? Si trovava sull’asse di una strada o, se si tratta di un’opera prodotta in e per un centro urbano, qual era all’epoca il contesto politico e socio-economico di detto centro? Era sede di un potere politico o spirituale, vi esisteva un’attività commerciale che si manifestava in mercati e fiere la cui fama si estendeva al di là della regione? Qual era la sua situazione demografica? Si tratta di domande elementari a cui potrebbero seguirne molte altre. In ogni caso, chiunque abbia cercato di dar loro risposta sa in quale misura esse pongano dei problemi difficili o anche impossibili da risolvere. […] Nondimeno, questo tipo di ricerca offrirà il vantaggio di impedirci qualsiasi osservazione vagamente tinta di razzismo (Castelnuovo 1979, 51).

Centro e periferia rappresenta dunque un tentativo empirico di correggere un approccio deterministico ai problemi storico artistici, condotto a partire da un marcatore geografico in grado di mettere concretamente in questione «l’impermeabilità delle tradizioni artistiche» e ricostruire la complessità di quelle «unità culturali che i confini politici moderni […] hanno frantumato» (Castelnuovo 1979, 49) [14], senza rinunciare a una prospettiva di sintesi all’interno della quale praticare la comparazione, ovvero scartare sia il particolarismo (e la sua spesso implicita e/o inconsapevole matrice positivista) sia la genericità astratta.

«Ripensare, intera, la storia d’Italia»

In 164 pagine (note e tavole di immagini incluse), Centro e periferia sgrana, con vastissima erudizione e scrittura incalzante, un percorso tra luoghi, date, stili, opere e nomi dell’arte italiana (con qualche mirata escursione internazionale). Richiamandosi alla tradizione della Kunstgeographie tedesca, e ripensandone però gli strumenti con attenzione a fattori sociali, economici e politici per disattivarne i corollari «mitizzanti» (153 nota 2; Castelnuovo 1979, 46-8; Gamboni 2009, 6), Castelnuovo e Ginzburg propongono di isolare il binomio centro/periferia per indagarlo attraverso una ricerca empirica in cui l’arte italiana è assunta come un «caso» e l’Italia come un «laboratorio privilegiato» (16-7).

Gli autori dichiarano subito che «ripensare la fisionomia della produzione artistica italiana dal punto di vista dei rapporti tra centro e periferia […] significa […] ripensare, intera, la storia d’Italia» (16). Ma solo a patto che il binomio in questione venga assunto nella sua complessità e polivalenza – squalificando quindi schemi semplicistici e monocausali – e vagliato attraverso l’intreccio di più livelli. Di cosa parliamo, infatti, quando parliamo di “centro” dal punto di vista della produzione artistica?

Gli estremi del problema preliminare che il saggio propone di trattare – appunto cosa definisca un centro artistico – emergono dalla dialettica tra criterio stilistico e criterio politico che si agita tra le pagine della Storia pittorica dell’Italia di Luigi Lanzi: «un punto di partenza obbligato» (17) in cui si avverte l’eco della scelta teorica compiuta da Dionisotti nei confronti di Tiraboschi nell’ambito della storia letteraria italiana (Dionisotti 1967). Nella sua costruzione di una geografia delle scuole pittoriche italiane, Lanzi reagiva allo schema vasariano, sostanzialmente monocentrico e basato su un criterio biografico (su cui si sarebbe facilmente innestata una prospettiva idealistica) e si inseriva in una tradizione di storia della letteratura artistica che tentava di individuare una norma in grado di spiegare la relazione tra geografia politica e geografia artistica, spesso non allineate, dell’Italia.

Nel loro proposito di sterilizzare la nozione tutt’altro che neutrale di “centro artistico”, gli autori risalgono quindi fino alla guerra sociale del I secolo a.C. e, nella prospettiva della lunga durata (con esplicito richiamo a Braudel), vi individuano l’origine di una spaccatura nord/sud destinata a incidere lungamente sulla conformazione geopolitica e culturale della penisola, per poi ripercorrere la costruzione del reticolo urbano d’Italia, l’instaurarsi di relazioni diversificate tra tessuto urbano e territori rurali nelle diverse aree della penisola, le fasi di creazione e soppressione delle diocesi, il costituirsi di due Italie, policentrica e comunale l’una, oligocentrica e feudale l’altra (34-9) [15].

Dopo aver definito una griglia dei fattori che presiedono alla costruzione storica e al dislocamento geografico dei centri artistici italiani e aver individuato una costante rilevante nella compresenza di due committenze potenzialmente rivali nel potere civile e in quello ecclesiastico, il saggio mette a fuoco due aspetti: le forme di dominazione simbolica di un centro rispetto alle esperienze periferiche, e le forme di resistenza, ovvero la proliferazione di esperienze consapevolmente alternative nei confronti di una proposta dominante.

Il ripensamento del binomio centro/periferia si configura così come una complicazione dello schema «sottilmente tautologico» che definisce i due poli della dicotomia e stabilisce la loro relazione assumendola aprioristicamente come statica e gerarchica. A rappresentante di questo schema – di cui gli autori mostrano la persistenza in vari capitoli di storiografia dell’arte – viene evocata, in apertura, la posizione «disarmante» di Kenneth Clark: centro artistico è il polo propulsore di uno stile e periferia è un luogo di approdo, segnato da ritardo, subalternità, degenerazione o approssimazione per difetto alla proposta centrale (15-6) [16].

Eccezionalità e potenzialità del caso italiano

La sfida teorica del saggio, valida ancora oggi e anche oltre i confini della storia dell’arte, è dunque quella di servirsi di una dicotomia storicamente generata e ideologicamente utilizzata in chiave asimmetrica con una finalità opposta a quella con cui è stata creata: ovvero come una lente rovesciata che, sfruttando criticamente la distanza (cronologica e/o fisica) dai fenomeni e dai codici attraverso cui questi sono interpretati, permetta di cogliere complessità e dinamiche altrimenti invisibili.

Se è ben noto, infatti, che la storia ha due occhi, e cioè la cronologia e la geografia, la relazione tra la storia e i suoi lumina non è affatto statica. Decisive sono allora le domande che gli storici pongono sul ruolo che un indicatore, ad esempio geografico, può giocare sulla costruzione di una specifica ricerca storica. E se, dunque, la pacifica immagine diffusionista di Clark non contempla altre forme di relazione tra centro e periferia, l’argomentazione procede in direzione opposta, inseguendo individui e opere nelle loro peregrinazioni e componendo progressivamente un quadro molto vario.

Lorenzo Lotto, Presentazione di Gesù al tempio, 1554 ca. Loreto, Museo Pontificio Santa Casa
Lorenzo Lotto, Presentazione di Gesù al tempio, 1554 ca. Loreto, Museo Pontificio Santa Casa
Si parte dall’analisi ravvicinata di casi specifici: ad esempio lo spostamento del Perugino da un centro artistico come Firenze verso aree periferiche (44-5); o le caratteristiche della produzione pittorica umbra tra quattro e cinquecento (58-61); o, ancora, le resistenze degli architetti della Borgogna e della valle del Rodano alle soluzioni innovatrici proposte nella ricostruzione duecentesca della cattedrale di Chartres e di larga fortuna nell’Île de France (119-20). O l’esempio, canonico ed eclatante, di Lorenzo Lotto – protagonista di un micro-saggio nel saggio (L’esilio di Lorenzo Lotto, 127-29) – e della sua ricerca di un’alternativa ai «modelli incombenti» di centri come Venezia e Roma che «si traduce fisicamente in esilio». In questa chiave sono lette le sue originali soluzioni figurative – come nel caso del Cristo-vite della Cappella Suardi, in cui «moduli iconografici tradizionali […] vengono sottoposti a un’audace rielaborazione naturalistica», – e, soprattutto, la sua prolifica attività marchigiana [17].

Lorenzo Lotto, Il Cristo-vite e Storie di Santa Barbara, 1524. Trescore Balneario, Cappella Suardi
Lorenzo Lotto, Il Cristo-vite e Storie di Santa Barbara, 1524. Trescore Balneario, Cappella Suardi

Facendo interagire la produzione figurativa con la sua ricezione nella storiografia artistica, Castelnuovo e Ginzburg studiano i modi in cui la produzione artistica viene filtrata e organizzata in modelli interpretativi e come questi ultimi influenzino i codici di lettura in base ai quali la produzione artistica viene poi, a sua volta, letta.

Uno degli snodi più significativi dell’intreccio tra i due livelli è sicuramente quello imposto da Longhi a proposito di alcune esperienze pittoriche periferiche. Se dunque Burckhardt definiva l’attività dei bolognesi «spaventosamente maldestra e insignificante» e caratterizzata da assoluta assenza di talento, individuandovi nulla più che una rozza e mediocre imitazione dell’arte fiorentina e senese, e Berenson definiva Cola Petruccioli «a sienese little master», tradendo così il pregiudizio di una «incondizionata sudditanza» della pittura umbra prima del Perugino alla scuola senese (Burckhardt 1855, 780), Longhi aveva concretamente mostrato la possibilità di attingere, dietro al codice di lettura, un oggetto interpretabile in modo non pregiudizialmente asimmetrico: «una specifica cultura pittorica orvietana nella seconda metà del Trecento sembrava inammissibile: che dico, impensabile. Eppure essa era esistita» (Longhi 1962, 4).

Non tutte le periferie sono ritardatarie, dunque. E «identificare senz’altro la periferia col ritardo significa, in definitiva, rassegnarsi a scrivere eternamente la storia dal punto di vista del vincitore di turno», concludono gli autori (113-14), ricorrendo a una formula con cui, anche in altre sedi, Ginzburg aveva chiosato il proprio programma storiografico (Ginzburg 1976c).

Microstoria e “storia globale”

Recentemente, Béatrice Joyeux-Prunel è intervenuta sulla presa dello schema centro/periferia, insistendo sulla relatività dei due poli nel mondo globalizzato e sui rischi di un uso meccanico di un binomio «that arguably instantiates a neo-colonial art history and criticism» (Joyeux-Prunel 2014, 4). Nella prospettiva della promozione e musealizzazione dell’arte (questione cara a Castelnuovo e in filigrana ben presente, su scala italiana, nel nostro saggio), Joyeux-Prunel osserva:

Maintaining a center-periphery logic – even one in which the periphery is now valued equally or even more than the center – produces and keeps the traditional hierarchical canon of art history, preserving the subaltern position of the artistic production of the peripheries while including them in a barely altered canon – an apparatus producing perennial, obligatory questions. […] Only a transnational and comparative art history can open such horizons. A connected and circulatory approach to art history seems to be the simplest and least polemical way to give peripheries a sustainable remembrance. […] Marginalization, or the presentation of peripheries as dominated, alienated and inequitably despised and misunderstood – something that the overly dichotomistic logic of center-periphery methods paradoxically reinforces – could be ameliorated through pragmatic, transnational, historical work (Joyeux-Prunel 2014, 4 e 7).

Rispetto ai rischi segnalati da Joyeux-Prunel [18], va notato come, in Centro e periferia, la degerarchizzazione – compendiata dalla citazione riportata sopra: «identificare senz’altro la periferia col ritardo significa […] scrivere eternamente la storia dal punto di vista del vincitore di turno» (114) – sia inscindibile da un movimento di scale volto a creare un quadro comparativo spazio-temporale grazie al quale il binomio in questione (ma il discorso è qui generalizzabile) non si limiti a «elimina[re] le difficoltà anziché risolverle» (15-6).

L’Italia, dicevamo, viene infatti presentata come un «laboratorio privilegiato» per un’indagine sul binomio centro/periferia. E ciò per due motivi.

In primo luogo, per il suo eccezionale policentrismo: un policentrismo di natura artistica, politica, religiosa, letteraria (un riferimento importante del saggio, sorta di voce fuori campo in alcuni snodi cruciali dell’argomentazione, sono gli studi di Dionisotti sulle letterature regionali e sulla geografia dell’Italia letteraria). Attraverso la composizione di serie ragionate di casi concreti, l’eccezionale policentrismo italiano permette di rintracciare dinamiche a tal punto molteplici da fornire agli autori materia su cui ricostruire delle vere e proprie tipologie di relazione (dalle più passive alle più conflittuali) tra centri e periferie.

In secondo luogo, per la traiettoria disegnata dall’Italia artistica (osservata, nell’epilogo del saggio, in una prospettiva più larga) da una posizione centrale a una periferica, in uno scenario mutato nel tempo. Nei quattro paragrafi conclusivi si attraversa quindi la storia dell’arte dal Seicento al primo Novecento (con un rapido passaggio mediano sul ruolo dell’antiquaria settecentesca, messo a fuoco da Momigliano: 132 e 162 nota 138) [19] e gli autori congedano il lettore di fronte alla divaricazione tra i futuristi e De Chirico nel rapporto retrospettivo con la centralità tramontata dell’Italia artistica (l’Italia-museo, iconoclasticamente respinta o messa a distanza e sublimata) in uno scenario europeo dominato da una fantasmatica Parigi postbenjaminiana (146-52).

Il focus cronologico dell’indagine riguarda infatti i secoli XIII-XVI, dunque l’apice della centralità artistica italiana in prospettiva europea, ma anche la fase iniziale di quel lungo processo di globalizzazione in cui si sarebbero susseguiti il dominio europeo sul mondo, le diverse fasi della «provincializzazione» dell’Europa (Chakrabarty 2000) e, infine, il configurarsi di uno scenario globale policentrico e poliperiferico. Ciò che permette a questo saggio di sollecitare il lettore di oggi è proprio il configurarsi di uno scenario globale che, su scala più ampia, presenta caratteristiche sovrapponibili al modello individuato a partire dal caso, del tutto eccezionale, qui indagato.

La natura insieme concreta e metaforica del binomio centro/periferia e il riferimento al contesto italiano come a un “caso” (che quindi rilancia oltre i propri confini la possibilità di individuare casi analoghi o contraddittori), permettono dunque di riformulare le domande poste dagli autori nel contesto geopolitico (e geoartistico) attuale, proiettando le implicazioni dei problemi sollevati oltre il limite cronologico e spaziale che l’indagine lambisce.

In modo asciutto e incisivo, nel primo paragrafo del saggio, vengono indicate infatti prospettive più larghe di applicazione dello schema che, a distanza di quarant’anni, pur avendo una loro segnatura cronologica e di contesto ben identificabile, si prestano a esser messe alla prova di nuove connessioni contestuali:

In un’età di imperialismi e subimperialismi, in cui anche una bottiglia di Coca-Cola si configura come un segno tangibile di vincoli non solo culturali, il problema della dominazione simbolica, delle sue forme, delle possibilità e dei modi di contrastarla, ci tocca inevitabilmente da vicino (16).

Il problema cruciale che il saggio pone, coniugando due dimensioni (quella della dominazione simbolica e quella della pluralità e mutabilità storica e sociale degli agenti della produzione artistico-culturale e dei suoi fruitori e interpreti) riguarda dunque, in ultima istanza, la possibilità di disarticolare una visione gerarchica senza però ignorare o rimuovere retoricamente i disequilibri (materiali e di potere) e senza semplificare la complessità delle formazioni culturali e la mobilità delle scale spazio-temporali che tale complessità necessariamente implica.

Ed è, forse, proprio a partire dalla geografia della fortuna in contesti periferici degli studi microstorici (intesi come studi che ricorrono a una scala di analisi ristretta per sottrarsi a una relazione gerarchica e disattivare i codici di lettura che da quella dipendono) che questo libro ci consente di mettere a fuoco i modi e le forme della dominazione simbolica e le strategie molteplici di resistenza che a essa si relazionano anche all’interno di una dialettica tra analisi microscopica e prospettiva globale [20].

Si tratta di un nodo che ha sollevato, negli ultimi decenni, numerosi interrogativi. Sede, a partire dagli anni Novanta, di un fitto dibattito su questioni cruciali per la storiografia culturale, la World history – un campo del sapere abitato da intenti, metodi, prospettive molteplici e ovviamente anche conflittuali – ha posto questioni teoriche importanti, come il rapporto tra comparazione e riflessività del sapere storico e tra il piano epistemologico e la concretezza degli oggetti di ricerca [21]. In questo vasto dibattito è stata avanzata la questione dei limiti e delle potenzialità, all’interno della dialettica tra dimensione locale e scala globale, della composita esperienza della microstoria [22].

In proposito, la stessa collana Storie ha in agenda la pubblicazione – prevista per la fine del 2020 – di una silloge di scritti di Francesca Trivellato dedicati proprio al rapporto tra microstoria e storia globale. In uno di questi interventi, Trivellato ha indicato nella Connected history proposta da Subrahmanyam [23] un proficuo intreccio tra microstoria e scala globale:

More than Revel and the Italian microhistorians, Subrahmanyam has spent his career questioning deep-seated generalizations about the writing of world history and the relations between Europe and Asia in the age leading up to modern colonialism. Like the Italian microhistorians, he has often confronted the challenge of making arguments on the basis of documents that fit Grendi’s notion of ‘the exceptional normal’. His ‘connected histories’ can be interpreted as one possible productive encounter of global and micro-history (Trivellato 2015, 131).

Come è stato più volte notato, infatti, la critica più difficile alla microstoria riguarda il problema della relazione tra analisi microscopica e dimensione macrostorica o tra caso singolo/eccezionale e sua rilevanza in termini generali (Allegra 2011, 60; Menegon 2019, 6-10; De Vito 2019).

Ad esempio, poco dopo la pubblicazione del ventunesimo e ultimo volume della famosa collana Microstorie, in un saggio di sintesi sui rapporti tra teorie sociologiche e metodologie storiografiche, Peter Burke scriveva:

Negli anni Settanta l’approccio microstorico ha attirato una notevole attenzione, positiva e negativa. […] Tuttavia abbastanza curiosamente non si è prodotta una vera discussione fintanto che non sono state sollevate questioni fondamentali con il passaggio dal livello macro a quello micro. […] Pur non aspirando a mostrare il mondo riflesso in un granello di sabbia, questa corrente induce conclusioni generali da dati locali. […] Se il movimento microstorico cerca in qualche modo di sottrarsi alla legge dei ritorni decrescenti, in questo caso è necessario che i suoi adepti parlino con maggiore intensità della cultura in senso lato e dimostrino i legami fra le piccole comunità e le tendenze macrostoriche (Burke 1995, 55-8).

Se è indubbio che l’incremento di analisi ravvicinate rischi di produrre risultati poco o per nulla rilevanti in termini generali, va però anche detto che la possibilità di scartare la law of diminishing returns di cui parla Burke – con cui comunque anche la World history deve fare i conti sul piano del sottile confine tra generalizzazione e genericità (Subrahmanyam 1997, 742) – è stata individuata, in riferimento ad almeno un modo di intendere la microstoria, in uno strumento preciso (sebbene, inevitabilmente, di significato negoziabile): la comparazione.

Nella prefazione al diciannovesimo volume della collana Microstorie (Vineis 1990), ad esempio, Ginzburg ragionava sulla «straordinaria affinità dei problemi affrontati da epidemiologi e storici» e ne sottolineava le conseguenze sul piano dei procedimenti di indagine, ovvero «la necessità di costruire un proprio oggetto di indagine e quella di privilegiare il metodo comparativo» (Ginzburg 1990, viii-ix). La storia dell’epidemiologia, scriveva Ginzburg, permette infatti di osservare come la crescita in termini di complessità delle domande relative alla relazione tra salute e malattia avesse prodotto anche una sostanziale riformulazione del concetto di causalità:

Il ricercatore non ha più di fronte a sé un oggetto dato, come per esempio il cadavere da sezionare o il batterio da isolare: deve costruire un ambito di osservazione in grado di far vedere connessioni tra il reticolo di cause che ha trasformato un individuo, o un gruppo di individui, in altrettanti malati. Costruire i campioni di osservazione diventa dunque un’operazione che è al tempo stesso preliminare e fondamentale. Non si tratta di un’operazione semplice o meccanica. Bisogna definire il gruppo che è oggetto d’analisi; i suoi confini; le sue dimensioni; il peso da assegnare alle differenze tra i suoi componenti, e così via. […] Ma una volta analizzato dall’interno il gruppo prescelto, l’epidemiologo deve intraprendente un’operazione fondamentale: la comparazione. Essa assolve il compito che nelle scienze sperimentali è affidato all’analisi di laboratorio. Solo comparando è possibile misurare il peso delle singole variabili, distinguendo tra fenomeni ricorrenti e fenomeni legati da un rapporto causale (Ginzburg 1990, ix-x).

Nella comparazione veniva dunque individuata la possibilità di prendere le distanze critiche da una «concezione semplificata, e forse semplicistica, dei nessi causali» (Ginzburg 1990, x). Ma non solo:

L’ordinamento del mondo esistente è spesso condotto trascurando la natura delle categorie adottate, fino al punto di non chiedersi se esse siano interne o esterne alle realtà analizzate. Di solito gli storici s’interessano ben poco a una questione che (come risulta dalla seconda parte del libro di Vineis) sta diventando centrale per gli epidemiologi: la traduzione del linguaggio del soggetto analizzato in quello di chi conduce l’analisi. […] Tutto ciò impone una coscienza sempre più acuta sia dei limiti imposti dal punto di osservazione, sia della possibilità di valutarli e controllarli criticamente grazie alla comparazione. Ma l’attenzione per i linguaggi dei soggetti analizzati ha implicazioni più vaste. La continuità spazio-temporale costituisce, com’è ovvio, il presupposto implicito delle estrapolazioni scientifiche: essa rende vera su una scala più vasta una legge desunta da un numero limitato di osservazioni in un contesto spazio-temporale dato. Se ammettiamo la possibilità che le diverse scale di osservazione non siano legate da un rapporto di semplice continuità, dobbiamo accettare, ad esempio, l’idea che individuo, gruppo e comunità richiedano procedimenti di analisi diversi, adeguati ai rispettivi tempi di azione e reazione e ai significati che, a ciascun livello, può assumere lo stesso fenomeno (Ginzburg 1990, x-xi) [24].

Porre la comparazione al centro dell’agenda storiografica significa rendere dirimente il ripensamento del contesto – o, meglio, dei contesti – a cui la narrazione storica dovrà essere riferita [25].

Se Castelnuovo mutuava la nozione di «campo artistico» da Bourdieu (Castelnuovo 1977, 19-20), il “campo” attraverso cui Ginzburg, presentando Centro e periferia al lettore del 2020, invita a ripensare la costruzione del contesto ha un’altra matrice. Si tratta del campo in senso cinematografico, chiamato in causa a partire dalle riflessioni di Siegfried Kracauer [26] sul montaggio di long shot e close-up nella narrazione visiva del cinema (7-8).

Il rapido accenno di Ginzburg a Kracauer può essere letto in chiave retrospettiva (il rapporto tra microstoria come tecnica storiografica e linguaggio cinematografico) [27], ma anche proiettato in avanti. Una traiettoria in tal senso promettente può essere individuata nell’approfondimento dinamico, in prospettiva storica, delle connessioni non solo tra fenomeni, ma anche tra attori e osservatori, capace di tenere il più possibile conto delle mediazioni, anche tecniche (e potenzialmente impiegabili con finalità varie e tra loro opposte), che organizzano il nostro sguardo sulla realtà.

«Réculer pour mieux sauter»: la formula efficace con cui Castelnuovo e Ginzburg descrivevano un’esperienza diffusa di resistenza periferica alla dominazione simbolica, politica e culturale dei centri – ovvero il ricorso consapevole, da parte di artisti periferici, e la riattivazione in chiave polemica di potenzialità implicite in forme artistiche sopravanzate, ignorate o scalzate dai modelli centrali – si può far valere anche per questo saggio. Réculer, individuarvi domande applicabili su nuove scale rispetto al «laboratorio privilegiato» a partire dal quale sono state formulate e interrogare la natura conflittuale del rapporto tra centri e periferie nel mondo globale – e iperconnesso attraverso una rete composita di “nuovi media” – ci ricorda che la sfida intellettuale della microstoria resta valida nel suo invito a scartare, empiricamente e progressivamente, i modelli attraverso i quali, talvolta in forme inconsapevoli, decifriamo il passato e il suo rapporto con il presente.


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Note

1. Il saggio era già disponibile come volume autonomo in traduzione tedesca (Castelnuovo e Ginzburg 1987). Una traduzione francese ridotta è stata pubblicata nel 1981 dalla rivista Actes de la recherche en sciences sociales diretta da Pierre Bourdieu (Castelnuovo e Ginzburg 1981); una traduzione portoghese è stata inclusa nella raccolta Micro-história e outros ensaios (Ginzburg, Castelnuovo e Poni 1991); una traduzione inglese è stata pubblicata nel primo dei due volumi della History of Italian Art curata da Peter Burke (Castelnuovo e Ginzburg 1994) e più recentemente, in versione ridotta, su rivista (Castelnuovo e Ginzburg 2009).

2. La quarantennale fortuna del saggio è amplissima. Una sintesi della discussione fino ai primi anni dello scorso decennio si trova in DaCosta Kaufmann 2004; Besse 2010; DaCosta Kaufmann, Dossin e Joyeux-Prunel 2015. Nella bibliografia dell’ultimo ventennio segnalo – oltre a una sintesi problematica sull’impatto delle prospettive post-coloniali nell’ambito della promozione dell’arte contemporanea (Joyeux-Prunel 2014) – pochi esempi a vario titolo significativi: Bock 2008a e 2008b discute Centro e periferia in uno studio su un caso specifico (l’arte napoletana dei secoli XIII-XV, con particolare attenzione alle committenze), muovendo alcune critiche al modello proposto da Castelnuovo e Ginzburg con riferimento al dibattito, tutt’ora molto vivo, sul cultural transfer (oltre ai lavori fondativi di Michel Espagne, su limiti e potenzialità della categoria di cultural transfer, Joyeux-Prunel 2003; Feuchter 2011; Wendland 2012; Rossini e Toggweiler 2014). Gee 2017 si rifà a Centro e periferia per costruire e analizzare il contesto storico artistico del nord dell’Inghilterra lungo il corso del trentennio inaugurato dalla prima elezione di Margaret Thatcher e chiuso dai prodromi della crisi economica del 2008, studiando in particolare la relazione tra trasformazioni socio-economiche, produzione artistica, mercato e fruizione dell’arte. Interessante, infine, Campbell 2019, che lavora sugli scarti tra la storiografia artistica rinascimentale e un’analisi delle opere volta a rilevare «the effective formation within works of art themselves of networks of affiliation that manifest a transpeninsular geographical consciousness» (xvii). Con l’obiettivo di leggere «against the grain» (xvii) lo schema centripeto proposto dalla storiografia artistica rinascimentale, Campbell incentra dunque la sua analisi sugli spostamenti di opere e artisti e propone di analizzare lo stile in quanto «geopolitical symptom» (xviii). Per una proposta di messa a frutto del binomio centro/periferia in altri ambiti della storia culturale si veda l’Introduzione a Rial Costas 2013 (con riferimento a Centro e periferia, XXI); De Vito 2019, 354-55.

3. Nel 1977 – lo ricorda Ginzburg nella nuova Prefazione (8) – era uscito «uno dei saggi fondatori della microstoria», Micro-analisi e storia sociale (Grendi 1977). Per la prospettiva di Ginzburg sull’esperienza della microstoria, Ginzburg 1985, 1993, 2005 e 2015.

4. Ginzburg 1966; Ginzburg 1980, ix-x; Ginzburg 1981; Molho 2004, 126-27.

5. Su World history e Global history esistono numerosi lavori di sintesi, nonché riviste dedicate (come il Journal of World History, pubblicato dalla University of Hawai‘i Press, e il Journal of Global History di Cambridge University Press), programmi di ricerca e riconoscimenti. Sulla World history, Di Fiore e Meriggi 2011 e Vanhaute 2013; sulla Global history, Conrad 2015 e Stanziani 2018. Per una sintesi su fortuna internazionale, intersezioni e differenze tra i due approcci, Delpiano 2016.

6. Si veda il contributo di Previtali nello stesso volume I della Storia dell’arte italiana: Previtali 1979. Sul progetto einaudiano, Castelnuovo 2009; Nicoletti 2017 (in particolare 25-6) e le note retrospettive di Castelnuovo in Giovannini Luca e Pierobon 2014, 168-69.

7. Castelnuovo aveva iniziato a lavorare, su indicazione di Longhi, sulle produzioni artistiche dell’Avignone papale, pubblicando nel 1962 il suo studio su Matteo Giovannetti e la pittura provenzale del Trecento (Castelnuovo 1962, con cui vinse il Premio Viareggio Opera Prima nel 1963), ripubblicato in versione ampliata nel 1991. L’interrogazione problematica delle corti come contesti di produzione artistica costituisce un motivo persistente dell’opera di Castelnuovo, si veda ad esempio Castelnuovo 1983.

8. Su questo punto Castelnuovo recuperava una critica già mossa da Cantimori ad Antal sull’insufficienza delle variabili chiamate in causa per l’analisi di specifici oggetti storiografici, Castelnuovo 1976, 14. Sulla relazione e la reciproca influenza tra Antal e Longhi, Castelnuovo 2010, 132-43.

9. Bourdieu 1966. Viceversa, sull’interesse di Bourdieu per i lavori di storici dell’arte e storici tra cui Castelnuovo e Ginzburg (e loro interlocutori), Chartier 2011, 32 nota 29.

10. «Si avverta infine che tra gli aspetti più significativi di una rilettura odierna di Antal […] stanno le osservazioni caratteristiche della sua ‘seconda maniera’, quella che si colloca sotto il segno della storia sociale, sui criteri di costruzione del ‘corpus’ e i frequenti tentativi di degerarchizzare il materiale esaminato. Il problema della degerarchizzazione e dell’allargamento del corpus già presente in Antal appare fondamentale nel libro di Francis Klingender sull’arte e la rivoluzione industriale. Per studiare l’effetto che questa ebbe sulle arti nel complesso, Klingender segue nell’opera di artisti apparentemente secondari, ma tali solo se valutati secondo certi criteri, le tracce e le testimonianze della mutazione. Non si propone di illustrare una storia scritta in maiuscolo con un corredo di immagini subalterno al discorso principale, né di scorgere sul piano artistico il ‘riflesso’ di grandi avvenimenti che su altri piani andavano maturando, ma legge i fatti artistici come avvenimenti primari della rivoluzione industriale, allo stesso modo delle macchine e dei manufatti, e comprende i loro autori tra i protagonisti della mutazione cui direttamente contribuiscono, come, anche se con diversa funzione, gli inventori e gli economisti. Ciò gli è possibile perché ha operato un deciso décloisonnement dei generi e delle gerarchie, ha considerato sullo stesso piano il pittore e l’illustratore, l’ingegnere civile e l’architetto» (Castelnuovo 1976, 15-6).

11. Rossi Pinelli (2017, 6-7) sottolinea, a partire dal contributo di Castelnuovo, la divaricazione tra la storia sociale dell’arte in Italia (e la valorizzazione della componente materiale e fisica delle opere) e la proposta di storia sociale della New Art History anglosassone, evidenziandone la tendenza a disincarnare/decontestualizzare le opere lette come “metalinguaggio”.

12. Per alcune considerazioni retrospettive al riguardo, Ginzburg 2012.

13. «Mi sembra che occorrerebbe soffermarsi sui rapporti di questa società ereticale con il resto della vita religiosa europea. Si può dire che proprio il carattere estremistico […] costituisce per lo studioso uno specchio che ingrandisce e riflette in maniera più evidente i fenomeni della vita religiosa europea, permettendo così di usare (con metodo analogo alla Wissenssoziologie) i materiali e i risultati della ricerca microscopica per l’indagine e la considerazione macroscopica, senza derogare ai canoni della concretezza, della specificazione e della cautela che sono propri di ogni studioso di storia, e senza incorrere in generalizzazioni arrischiate o fantastiche» (Cantimori 1992, 426). Le Prospettive di storia ereticale, un corso di lezioni pisane nel 1959 (Ginzburg era allora studente alla Normale), furono pubblicate nel 1960.

14. «Nelle Alpi ci si trova di fronte, forse più che altrove, a situazioni assai differenziate. Si hanno, da un lato, dei centri estremamente aggiornati, finanche sofisticati: monasteri, corti principesche o vescovili, città mercantili situate lungo le grandi vie di comunicazione; dall’altro lato, si incontrano centri assai più modesti, senza grandi contatti con disponibilità ben più limitate verso gli investimenti simbolici quali la costruzione o la decorazione di edifici. Le generalizzazioni si rivelerebbero, di conseguenza, nocive: come parlare di un’arte delle Alpi evocando il decoro cavalleresco del castello di Fénis in Val d’Aosta o della torre dell’Aquila nel castello del Buon Consiglio, residenza del vescovo di Trento, e, nello stesso tempo, le pitture delle cappelle di Bardonecchia, Briançon o della Alpi Marittime? Eppure vi sono dei legami degni di essere considerati. […] Vi è tuttavia un ulteriore e più grave problema: in generale, gli storici dell’arte (con l’eccezione del mondo germanico) nutrono una certa diffidenza verso la geografia artistica. […] Parlare di storia dell’arte nelle Alpi non significa fare esclusivamente una geografia artistica all’antica, esclusivamente topografica e descrittiva, bensì prendere in considerazione delle realtà sociali, fare della socio-geografia culturale. […] Ritengo che per affrontare, nei limiti del possibile, una storia globale dell’arte, la quale non sia unicamente costituita da una serie di monografie di artisti né si limiti soltanto a registrare le variazioni di un sistema autonomo di forme, occorrerà ripensare i termini dell’approccio geografico al problema, riaprire le pratiche della geografia artistica, verificandone nel contempo i metodi come le ipotesi e le limitazioni. Si rende essenziale porre il problema in una prospettiva dinamica e non statica, non prestar fede all’impermeabilità delle tradizioni artistiche o a quella delle frontiere, tentare di ricostruire quelle unità culturali che i confini politici moderni, creati in generale seguendo gli spartiacque, hanno frantumato» (Castelnuovo 1979, 46-9).

15. Su questo punto è interessante segnalare che Ginzburg – autore di questa sezione del saggio – nel 1976 aveva scritto un volume per il Corso di geografia diretto da Gianni Sofri (Ginzburg 1976b), dedicando una sezione ad analisi socio-economiche e politiche di lungo periodo volte a chiarire le caratteristiche del policentrismo italiano in prospettiva storica.

16. Le posizioni di Clark, in opposizione a quelle di Antal, erano state discusse anche in Castelnuovo 1976, 6-7.

17. «Lasciata definitivamente Venezia per le Marche, Lotto ritroverà a Loreto, lontano dai modelli incombenti, la libertà espressiva che farà apparire così moderna l’incompiuta Presentazione di Gesù al tempio. Dopo Bergamo sono dunque le Marche a concedere al Lotto uno spazio per la sua pittura. Una regione tradizionalmente legata a Venezia, almeno nella fascia adriatica, per cui i pittori veneziani avevano lavorato fin dal Trecento, ma che nel corso del Cinquecento perde gradatamente la sua importanza politica ed economica. Ciò significa che gli esempi più moderni del Lotto troveranno qui un luogo di libertà» (128-29). Sulla produzione marchigiana di Lotto, Dal Pozzolo 2018.

18. Sulla questione si veda anche Piotrowski 2009.

19. Si tratta di un tema su cui Ginzburg ha continuato a lavorare: Ginzburg 2017b e 2019a.

20. Una rassegna complessiva della geografia degli studi di microstoria resta ancora da fare. Andrà intanto segnalata l’ampia e dettagliata monografia sulla microstoria italiana di Espada Lima 2006, e ricordata la vasta fortuna dei lavori microstorici di Ginzburg in Centro e Sudamerica, dove la rivista Contrahistorias. Pensamiento Crítico y Contracultura, nata nel 2003 da una sinergia di interessi tra storici messicani, guatemaltechi, argentini, cileni e colombiani, ha contribuito in modo decisivo alla discussione sulla sua opera nel contesto di un vasto progetto culturale finalizzato all’analisi delle metodologie storiografiche in relazione alla storia centro e sudamericana.

21. Sul tema della comparazione in ambito storico-artistico, utili note bibliografiche si trovano in Werner e Zimmermann 2006.

22. La microstoria ha avuto una ricezione complessa e ha dato vita a esperienze diversificate. Anche in questo caso un criterio geografico o geopolitico può essere illuminante: si vedano Trivellato 2015, 126-32 e Menegon 2019. L’oscillazione del termine “microstoria”, con diversificazioni anche legate ai diversi contesti accademici e/o intellettuali, emerge ad esempio, proprio in relazione all’uso dello schema centro/periferia nella storia dell’arte, in Campbell 2019: «The challenge is not just to create a set of regional microhistories, but also to think about larger patterns presented by these geographically dispersed artistic enterprises. The prevailing question for scholarship on Renaissance art history – and one that this book seeks to address – is how to identify and address the local, and how to characterize the local in terms of relations within an overall field of artistic production which, in the sixteenth century, is increasingly marked by centralization» (xix).

23. Subrahmanyam 2005, 2007, 2011 e 2014.

24. Ringrazio moltissimo Lucio Biasiori per avermi segnalato queste pagine. Sulla comparazione, Ginzburg è tornato in diverse occasioni: si vedano ad esempio Ginzburg 2003a, 262-63 e 266-67; Ginzburg 2012 e 2017a. In un volume di recente pubblicazione, la comparazione è fittamente discussa in un dialogo tra Ginzburg e Bruce Lincoln (Ginzburg e Lincoln 2020, in particolare 142-93; sul metodo comparativo di Ginzburg, specie quello impiegato nella sua Storia notturna, si veda anche Lincoln 2018, in particolare 37-53). Sulla necessità dell’autoanalisi, Castelnuovo 1977, 27.

25. Allegra 2011, 67-8: «Non si tratta di cambiare le regole del gioco microstorico, ma solo di immaginare una diversa nozione di contesto: un contesto tenuto insieme e definito da catene di connessioni e interdipendenza non necessariamente locali; anzi, tendenzialmente non solo locali. […] In ballo non è una dilatazione geografica dei confini dell’oggetto – dal piccolo al grande – ma la possibilità di ricostruire contesti pertinenti a partire da una trama connettiva più complessa di quella locale. Una trama che risulti finalmente immune alle critiche di irrilevanza. Non dovremmo smettere di studiare nei villaggi, ma dovremmo smettere di studiare solo nei villaggi». Ginzburg è recentemente intervenuto sulla questione, ragionando sull’uso della comparazione storica, Ginzburg 2017a. Sulle potenzialità della microstoria in prospettiva globale si veda anche De Vito 2019 e rispettive indicazioni bibliografiche.

26. Kracauer 1995, su cui si veda anche Ginzburg 2003b.

27. Si veda anche Ginzburg 2003b e 2019b, in cui lo storico interroga il proprio approccio storiografico in dialogo con le tecniche cinematografiche.