Giulia Delogu, L’Emporio delle parole. Costruire l’informazione nei porti franchi d’età moderna, Roma, Viella, 2024, pp. 196
Nel volume L’Emporio delle parole, Giulia Delogu — professoressa associata in Storia moderna presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia — propone un’analisi inedita e affascinante del porto franco come laboratorio istituzionale, culturale e comunicativo dell’Europa moderna. Al centro della sua indagine non c’è il traffico delle merci o lo studio delle rotte commerciali, ma la circolazione dell’informazione, dei saperi e dei discorsi che accompagnano e strutturano il mondo portuale tra Sei e Settecento.
Delogu parte da un’intuizione fertile: il porto franco non è solo un’istituzione economica, ma anche uno spazio epistemico, dove si costruisce e si controlla il sapere. L’analisi muove da un caso fondativo: la creazione del porto franco di Genova nel 1590, in risposta a una crisi alimentare provocata dalla cosiddetta “piccola era glaciale”. È in questo contesto che l’istituzione del porto diventa strategia di sopravvivenza e, al tempo stesso, dispositivo di produzione di flussi — non solo cerealicoli ma anche simbolici. La necessità di rendere continua e affidabile la navigazione inverte i tradizionali assi mediterranei (da sud a nord) e crea un nuovo mondo informativo, dove la notizia viaggia insieme alla nave. Il libro si snoda come un vero e proprio viaggio di esplorazione costiera: i primi capitoli si soffermano sull’immagine proiettata dai porti franchi — tramite editti, monete, pubblicazioni ufficiali — mentre nella seconda parte l’autrice “entra” nei porti per osservare, dall’interno, i meccanismi attraverso cui si produce, gestisce e diffonde l’informazione. È un viaggio lungo la costa del Mediterraneo, ma sempre letto in chiave globale: dalle Fiandre al Levante, dall’Atlantico all’Adriatico, emergono reti, attori e politiche che connettono i porti a un più ampio sistema di scambi materiali e simbolici. Una delle intuizioni più riuscite del volume è l’analisi degli editti portuali come vere e proprie “brochure” promozionali, strumenti di marketing ante litteram, volti a rappresentare i porti come spazi di opportunità. In particolare, Livorno diventa il caso paradigmatico: non solo luogo dove si fanno affari, ma città che costruisce la propria identità attraverso un’attenta operazione pubblicitaria — fatta di promesse di tolleranza, immunità fiscale, apertura ai mercanti stranieri, anche di fede ebraica. Livorno è porto franco “di uomini e merci”; Genova, al contrario, si limita all’aspetto merceologico, non avendo la stessa esigenza di attrarre popolazione.
Il volume insiste sul fatto che i porti franchi non sono istituzioni monolitiche, ma realtà mutevoli, adattate ai contesti: alcuni sorgono in città nuove (Trieste, Livorno), altri in capitali consolidate (Genova, Venezia); alcuni hanno un retroterra produttivo immediatamente accessibile, altri faticano a imporsi per mancanza di mercati o risorse. Delogu mostra come il successo o il fallimento di un porto franco dipendano da molteplici fattori: politici, sanitari, demografici, finanziari. La presenza di capitale, la garanzia di protezione giuridica, la gestione delle epidemie (come nel caso della peste a Marsiglia nel 1720), sono elementi decisivi nel determinare il grado di attrattività del porto.
Il tema del contrabbando, trattato con finezza, mostra l’ambivalenza dei porti franchi: luoghi di apertura e al tempo stesso zone grigie, dove i confini della legalità sono spesso labili. Livorno è tollerante, fino a chiudere un occhio; Genova è più rigida, perché ha bisogno delle tasse per ripianare il debito pubblico. Si disegna così un paesaggio variegato, in cui le istituzioni negoziano continuamente tra controllo e permissività. Di grande interesse è anche l’analisi del rapporto tra porto e politica internazionale: la creazione, soppressione o trasformazione di un porto franco non dipende solo da fattori economici, ma anche dal quadro delle alleanze, delle guerre e delle rivalità dinastiche. È il caso di Nizza, che istituisce il proprio porto franco nel 1712 e lo rinnova nel 1749 cercando l’appoggio inglese. I porti funzionano perché il potere è frammentato: la loro esistenza è resa possibile dalla pluralità di sovranità nell’Europa moderna.
Il libro è frutto di un’intensa ricerca archivistica, condotta tra Genova, Livorno, Vienna, Marsiglia e Modena. Il caso modenese è particolarmente interessante perché mostra lo sguardo della città di terra sul mare, e rivela come anche le realtà lontane dal litorale fossero profondamente coinvolte nelle dinamiche portuali. Dal punto di vista metodologico, l’opera coniuga rigore filologico e chiarezza espositiva. L’autrice si muove con competenza tra storia economica, politica, culturale e della comunicazione, offrendo un quadro complesso ma leggibile anche da un pubblico non specialistico. Lo stile è piano, curato, privo di tecnicismi superflui; ogni capitolo è introdotto da esempi concreti e ben documentati. In chiave critica, si potrebbe auspicare un ampliamento dell’analisi oltre lo spazio europeo — ad esempio verso i porti ottomani — e una maggiore attenzione alle forme subalterne e orali della circolazione informativa. Tuttavia, la coerenza interna del progetto e l’efficacia del paradigma adottato ne fanno un contributo rilevante per la storiografia. L’Emporio delle parole è dunque molto più di una storia dei porti franchi: è una riflessione sulla circolazione della conoscenza e del potere, sui modi in cui le società moderne hanno imparato a gestire l’apertura, la diversità, il rischio. Un libro che parla di passato ma sollecita interrogativi attuali.

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