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Massimo Vallerani, “Regimi di cittadinanza nell’Italia comunale”

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Massimo Vallerani, Regimi di cittadinanza nell’Italia comunale. Roma: Viella, 2024. 238 pp.

Con Regimi di cittadinanza nell’Italia comunale Massimo Vallerani, professore di Storia Medievale presso l’Università di Torino, conferisce piena articolazione al tema della civilitas nei regimi comunali tra XIII e XV secolo (spingendosi, in alcuni casi, fino al XVI secolo), pervenendo a una sintesi su un interesse di ricerca a lungo coltivato. L’obiettivo del volume è quello di ricostruire l’evoluzione dell’inquadramento della popolazione urbana da parte delle istituzioni municipali, scegliendo come punto d’avvio dell’analisi la seconda metà del Duecento, quando la tumultuosa crescita demografica e le capacità attrattive delle città nei confronti degli abitanti delle campagne avrebbero stimolato, in regimi patrocinati dalle società di mestiere – i cosiddetti comuni di Popolo –, la creazione di nuovi filtri d’accesso alla vita politica cittadina.

La scansione dei capitoli rispecchia dunque la pluralità e la dinamica trasformazione dei sistemi di qualificazione del cittadino adottati dalle diverse città del panorama comunale: la Classificazione dei cittadini tramite liste (cap. 1), la Valutazione delle capacità contributive (cap. 2), l’Esclusione degli evasori fiscali e dei banditi (cap. 3), la Negoziazione da parte degli esclusi del proprio status civico (cap. 4), la Selezione «artificiale» della cittadinanza tramite atti amministrativi e criteri genealogici (cap. 5) e, infine, la Moltiplicazione dei livelli di civilitas lungo il XIV e il XV secolo, con la conseguente frammentazione dei diritti (cap. 6), rappresentano non solo le modalità con cui le istituzioni determinarono chi dovesse essere considerato cittadino, ma delineano anche i passaggi fondamentali della ridefinizione dell’oggetto di studio lungo l’arco cronologico indagato.

I primi capitoli del libro (capp. 1-4) ricostruiscono come i comuni di Popolo della seconda metà del Duecento e dei primi decenni del Trecento precisarono il ventaglio di azioni che gli uomini del comune dovevano compiere (pagare le tasse, militare tra le fila dell’esercito, essere lavoratori iscritti nelle società di mestiere ed essere considerati uomini di buona fama dai concittadini) e, allo stesso tempo, ciò di cui essi non dovevano macchiarsi (non commettere reati, non appartenere alla fazione avversa a quella momentaneamente egemone, non vivere secondo lo stile dei “magnati” e non evadere il fisco) per essere considerati cittadini. Nella seconda parte del volume (capp. 5-6) l’attenzione si appunta invece sulle tappe che, a partire dalla prima metà del Trecento, scandirono una profonda ridefinizione del paradigma. La concezione di cittadino cominciò infatti a diversificarsi, sulla base di quattro meccanismi profondamente interconnessi: la possibilità di modificare lo status personale dei singoli per atto amministrativo, attraverso una fictio giuridica che assimilava un soggetto al cittadino, omologandolo formalmente agli altri («come se...»), senza tuttavia conferirgli una piena eguaglianza. L’introduzione di un criterio genealogico che estendeva le condizioni dei padri ai figli; la diffusione del criterio dell’origine (origo) per la selezione di un gruppo privilegiato, contrapposto ai nuovi immigrati; infine, l’invenzione di una cittadinanza artificiale, elargita in forma graziosa soprattutto dai governi degli stati regionali, che non comportava, tuttavia, un accesso automatico alla sfera politica e garantiva per lo più benefici di carattere economico.

Si delinea così all’interno del volume un percorso che prende le mosse da una concezione performativa e mutevole di civis – cittadino è colui che compie determinate azioni e, di conseguenza, gode di diversi diritti, anche politici – fino ad arrivare alla cristallizzazione di status privilegiati, esplicitati dall’accesso alle cariche pubbliche e giustificati sulla base di una presunta originarietà del gruppo familiare. L’esito di questo lungo processo avrebbe determinato una frammentazione dei diritti connessi alla cittadinanza e una separazione tra appartenenza al corpo civico (concessa a un ampio strato della popolazione) e partecipazione politica (riservata alla nobiltà).

Tra i numerosi meriti del libro, il primo è senz’altro quello di sottrarre «un oggetto rarefatto e poco definito» (p. 7) come la cittadinanza tardomedievale da possibili fraintendimenti o anacronismi, e di reinserirlo nella propria dimensione storica: la civilitas dei comuni prima, e degli stati regionali poi, non rappresentò mai, come potremmo essere tentati di immaginare retroproiettando la nostra concezione di cittadino, un insieme di diritti e di doveri inalienabili e accordati al soggetto alla nascita, ma rimase un concetto fluido e cangiante, legato all’evolvere della società cittadina.

Un ulteriore punto di forza è dato dall’analisi minuta dei meccanismi di definizione degli status personali tramite un’indagine ravvicinata delle fonti, in primo luogo delle diverse tipologie di liste prodotte dai comuni di Popolo. La “rivoluzione” documentaria del XIII secolo rappresenta infatti uno snodo fondamentale nel definirsi di una volontà politica (e di una capacità tecnica) di irregimentare e qualificare i propri abitanti in contribuenti cittadini o rurali (gli estimi della città e del contado), in categorie di mestiere (le matricole delle corporazioni), in milites o pedites (le liste degli atti alle armi), in nemici dei popolani (le liste di magnati), in nemici del comune (liste di proscrizione) e in evasori fiscali (libri di “malpaghi”). È attraverso queste liste che il comune e le gerarchie interne, via via più definite in senso oligarchico, avrebbero continuato a reinventare la propria identità, dal momento che i nominativi conservati nei registi comunali tra XIII e XIV secolo (paradossalmente anche nelle liste “negative”, come quelle magnatizie) sarebbero stati utilizzati ancora nell’età moderna come prove di nobilità. Sotto questo aspetto, il punto d’osservazione privilegiato individuato da Vallerani è senz’altro Bologna: complice anche la conservazione particolarmente fortunata dei suoi archivi comunali, la città felsinea svolge infatti un ruolo da protagonista all’interno della riflessione e, in particolare, è al centro dei primi tre capitoli della monografia. Ampiamente indagati risultano anche diversi comuni toscani – in primis Firenze – così come ampie riflessioni vengono dedicate anche ai comuni emiliani, a Venezia e a Genova; più defilati rimangono invece i contesti a forte trazione signorile, come il Piemonte, il Veneto e la Lombardia, dove le possibilità di cooptazione per le cariche cittadine accordate alle fazioni – molto trasversali ai ceti sociali grazie alla propria strutturazione verticistica – rimangono solamente accennate nelle pagine conclusive del libro, ma che potrebbero invece rappresentare un termine di confronto interessante per ulteriori indagini sul tema.

Per concludere, Regimi di cittadinanza nell’Italia comunale è un’opera ricca e stratificata, che mette al centro della riflessione un tema – anche per l’oggi – di forte attualità. In particolare, attraverso il prisma della civilitas emergono con chiarezza tutte le sfumature di una società in pieno fermento e ridefinizione, non solo in termini giuridici – campo di elezione dell’A. – ma anche sociali e culturali: si pensi, per esempio, all’esclusione ipso facto dell’elemento femminile dalla nozione di cittadino e all’inversione valoriale subita dal lavoro manuale, da virtù del buon cittadino nei comuni di Popolo del Duecento ad accusa infamante per i gentiluomini del Quattrocento. Infine, l’opera di Vallerani sottolinea, in linea con le tendenze storiografiche degli ultimi decenni, come ogni categoria e ogni ceto sociale individuati dalle istituzioni comunali sottendano realtà diversificate e variabili nel tempo, da vagliare sempre alla luce delle finalità e delle modalità con cui tali classificazioni furono di volta in volta postulate.