Storicamente. Laboratorio di storia

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Salvatore Romeo, L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi.

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Salvatore Romeo, L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi. Una fabbrica e una città nella lunga parabola della siderurgia italiana, Roma, Donzelli Editore, pp. 298

Salvatore Romeo, ne L’acciaio in fumo, delinea la storia dell’interazione tra Taranto e il siderurgico; storia di un rapporto non sempre unidirezionale, di sopraffazione, di subalternità della città alle esigenze produttive, ma ricostruzione della complessità delle relazioni intercorse tra politica, capitale, lavoro e territorio.

Il saggio consta di sette capitoli attraverso i quali è possibile seguire la parabola dell’acciaieria tarantina dal decennio immediatamente precedente alla sua realizzazione sino all’evoluzione involuzione subita negli ultimi anni, ovvero dalla grande accelerazione alla fine del “secolo breve”, con la caduta dei regimi comunisti, sino ai risvolti di una post-modernità liquida, precaria, deregolamentata.

Il primo capitolo si apre con uno slogan, “Taranto non vuole morire”, che costituisce il leitmotiv dell’intera narrazione; l’espressione, infatti, ben sintetizza l’aspirazione della città ad affrontare gli squilibri occupazionali, le problematiche ambientali emerse dapprima in sordina poi, poi, a partire dagli anni ’70, sempre più prepotentemente in relazione ad una produzione impattante dell’azienda. Nell’immediato dopoguerra, infatti, Taranto si ritrova a dover fronteggiare uno stato di profonda crisi economica avendo perso, con la fine di una stagione coloniale ed imperialistica, la sua centralità geopolitica ed economica; manifesta pertanto la strenua volontà di “scampare alla catastrofe”, innescata dal processo di deindustrializzazione postbellico, legando di lì a poco i destini dell’economia locale alle magnifiche sorti e progressive dell’acciaio. L’ostinazione di Taranto a non cedere si tradusse in una adesione da parte delle istituzioni locali alle politiche dirigiste e meridionaliste nazionali volte a sanare gli squilibri macroregionali e rendere il Paese più competitivo all’interno del Mercato economico europeo inaugurato nel 1957. Si apriva così la strada alla realizzazione del siderurgico nel Mezzogiorno.

In principio erano gli ulivi, poi venne il tempo del boom, dell’acciaio, della “vita” a scuotere un immobilismo secolare “perché gli ulivi, il sole, le cicale significavano, abbandono, sonno, rassegnazione e miseria”. Il nascente mercato della CECA, la domanda crescente di una ingorda società dei consumi, la necessità della politica locale e nazionale di dare risposte occupazionali ad un Sud in crisi di identità produttiva, le finalità speculative locali e le mire clientelari dei partiti coinvolti spinsero verso questa riconversione non sempre facile. La scelta di dar vita in Italia al quarto centro siderurgico a ciclo integrale nella città di Taranto arrivò dopo un braccio di ferro tra autorità politiche e vertici Finsider, che si risolse in quella che Romeo riconosce come una “integrazione subalterna”, perché se da una parte spinse il gruppo imprenditoriale ad investire in un’area economicamente depressa, dall’altra però non diede sufficienti risposte alla promozione di una economia locale autonoma svincolata dalle sorti del siderurgico. Dal 1960 al 1964, ovvero dall’inizio dei lavori volti all’edificazione dello stabilimento sino alla sua conclusione, emerse la posizione di preminenza dell’azienda nei confronti degli interessi e delle istituzioni locali. Fu subito chiaro che il siderurgico nasceva nella penombra di un compromesso asimmetrico tra industria, territorio e società. Taranto in questa fase incassò i contraccolpi del ricatto economico, i tempi non erano ancora maturi per una lotta politicamente organizzata in nome dei diritti. Fu necessario, perché ciò avvenisse, attendere il tempo della contestazione; segnato da un nuovo corso della dialettica tra impresa, politica, mondo operaio impresso da una nuova coscienza di classe ed ecologica che andava maturando nei meccanismi alienanti e impattanti del capitalismo industriale nel decennio 1960-1970. Quando infatti Finsider-Italsider pose mano, alla fine del decennio, ad un progetto ambizioso e avveniristico, il raddoppio del siderurgico, la città non fu pronta ad accoglierlo passivamente e si scosse dal torpore che aveva caratterizzato il decennio precedente. Una nuova volontà pervase mondo operaio, politico, intellettuale e sanitario locale: superare la dicotomia tra capitale e diritti nella direzione di una sintesi armonica. Il progetto del raddoppio infatti si presentava gravido di insidie: arbitri urbanistici, polverizzazione degli appalti e dei diritti, disoccupazione di ritorno, inquinamento, uso privato del porto. Gli esiti di questa dialettica furono parziali e non definitivamente risolutivi. Le questioni emerse, lungi dall’essere completamente risolte, si ripresentarono nei decenni successivi quando, affievolita la carica politica e contestataria dell’azione operaia, la tensione si sarebbe allentata a favore di un’azienda sempre più incline a perseguire i propri interessi.

A partire dalla metà degli anni ’70 si assistette, dapprima negli USA e poi con effetti propagatori in Europa, ad una crisi economica che investì il mercato europeo, quello dell’acciaio in particolare. La Commissione europea, per far fronte alla sovracapacità produttiva nell’area CECA consegnò alla concorrenza deregolamentata del libero mercato la facoltà di imprimere un corso selettivo e competitivo al commercio dell’acciaio. In Italia il gruppo Finsider pertanto si trovò a dover fronteggiare una fase di ristrutturazione aziendale in un clima politico notevolmente cambiato: lo Stato svestiva i panni dell’azionista e apriva ad una fase di privatizzazioni che si sarebbe conclusa con la vendita dell’acciaieria di Taranto alla famiglia Riva nel 1995. A partire da quel momento “il siderurgico tornò a concentrarsi su se stesso”; operai e sindacati sotto i colpi e i timori di una crisi emergenziale, assunsero “l’orizzonte di compatibilità delle strategie aziendali”. Fu sull’agonia di questa spinta propulsiva che l’ILVA dei Riva instaurò un regime aziendale di tipo padronale fatto di ricatti, confinamenti nella «palazzina Laf», di demansionamenti. In assenza di un intervento sanzionatore da parte delle istituzioni politiche nazionali, argine a questa condotta autoreferenziale fu rappresentato dalla magistratura, che sulla base dei dati allarmanti relativi all’avvelenamento in atto da diossina, benzopirene, particolato sequestrò l’area a caldo il 26 Aprile del 2012, ponendo fine all’era Riva e sancendo lo iato definitivo tra città e azienda.

“Taranto non vuole morire”: un epilogo circolare per una storia che non conclude e si fa cronaca irrisolta di un contrasto rigido e infruttuoso tra città, classe operaia da una parte e la neo-acquirente ArcelorMittal dall’altra, multinazionale “con salde entrature nella grande finanza internazionale” e pertanto sorda ad ogni logica di sviluppo industriale nazionale e meridionale ed insofferente nei confronti di una legislazione a tutela dell’ ambiente e del lavoro. Una questione dunque ancora oggi aperta che l’opera di Romeo ha il merito di indagare con l’oggettività lucida dello storico che riconsegna al presente una vicenda complessa nel tentativo di sottrarla ad improduttive esasperazioni mediatiche e populistiche.