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Roberta Pergher, “Dalle Alpi all’Africa”

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Roberta Pergher, Dalle Alpi all’Africa. La politica fascista per l’italianizzazione delle “nuove province” (1922-1943). Roma: Viella, 2020. 368 pp.

Nell’autunno del 1938 il regime fascista, su ordine di Benito Mussolini, operò il trasferimento di ventimila coloni nelle regioni nord-africane di Tripolitania e Cirenaica, strappate con la guerra del 1911-12 all’Impero ottomano e poi organizzate nella colonia di Libia. Proprio allora, il senatore trentino Ettore Tolomei, ex-suddito austro-ungarico di lingua italiana, pubblicò nella rivista nazionalista da lui fondata “Archivio per l’Alto Adige” un articolo che invocava, per la sua regione, l’adozione di politiche di popolamento simili a quelle che il regime di Mussolini si apprestava a realizzare in Libia.

Quest’articolo di Tolomei offre la traccia fondamentale del libro di Roberta Pergher, studiosa originaria di Bressanone, ma formatasi nel sistema accademico statunitense. Grazie ad un’ampia ricerca basata su fonti di lingua italiana, tedesca e inglese, il libro si articola in cinque densi capitoli che ripercorrono in un arco temporale compreso tra il 1918 e il 1943 le vicende parallele di «due regioni di confine» come Alto Adige e Libia. Al centro del libro si pone il “paradosso” dell’intreccio di nazione e impero – un tempo ben distinti, o addirittura opposti, e ora raccontati come momenti e aspetti di un progetto fascista plasmato dall’eredità della Prima guerra mondiale: «conciliare il concetto di coesione nazionale con il dominio su popoli e terre non italiani» (18). Invece di analizzare le terre conquistate in Africa orientale o nei Balcani nel ciclo bellico successivo al 1935, la studiosa si concentra sull’esperimento fascista nelle terre già acquisite prima dell’avvento al potere di Mussolini, dedicandosi «allo stanziamento di coloni provenienti dall’Italia, fenomeno emerso come asse portante delle politiche di consolidamento ed espansione della sovranità italiana». Smarcandosi dalla prospettiva storiografica tradizionale, di ispirazione latamente marxista, che individuava un nesso diretto tra imprese di conquista coloniale e problema di sovrappopolamento interno, Pergher mira a decentrare la visione del fascismo attraverso la prospettiva delle borderlands, dove le politiche di popolamento tentavano di alterare l’equilibrio demografico e culturale di regioni contese a favore dell’italianità. La domanda di fondo che in definitiva si pone è la seguente: «Come si poteva, dunque, essere imperialisti in un’epoca “post-imperiale”?» (41).

Nel primo capitolo (I confini della sovranità: il dominio italiano nei territori contesi) Pergher si propone di incrociare la storiografia sul fascismo con quella sull’ordine internazionale tra le due guerre, legittimato dal riferimento all’autodeterminazione nazionale. Entro il “sistema di Parigi”, che stringeva un nesso strettissimo tra sovranità e legittimità degli Stati, emergeva così la natura incerta e fragile, “indeterminata”, della sovranità italiana su due regioni contestate come la Libia e l’Alto Adige. Ovviamente non mancavano differenze tra i due casi, sottolinea l’autrice. Nella colonia nord-africana il regime fascista condusse una politica di gestione ben più brutale e diretta di quanto non facessero in quella fase gli Imperi britannico e francese. La retorica demografica era funzionale a stringere i rapporti tra madrepatria e colonie, non tanto nel senso di risolvere il problema di sovrappopolamento della prima, quanto di implementare un progetto di italianizzazione delle seconde. La creazione di nuovi villaggi e poderi gestiti da coloni italiani era volta a raggiungere l’obiettivo di «affermare rivendicazioni di tipo nazionalistico e per legittimare la sovranità dell’Italia su queste nuove basi nazionaliste, ritenute più forti rispetto a quelle della dominazione coloniale» (81). D’altro canto, nei territori ex-asburgici come l’Alto Adige, lo sforzo di costruzione di un nuovo stato nazionale si scontrava con la necessità, riconosciuta almeno formalmente dagli stati successori dell’Impero, di tutelare i diritti delle minoranze. Nella seconda metà degli anni Venti, cominciò ad affiorare l’idea che solo una strategia di pervasivo intervento sociale e culturale potesse garantire l’assimilazione italiana della regione altoatesina e risolvere così la crisi di sovranità. Ma Pergher precisa che non si trattava tanto dell’imposizione da parte del regime fascista di un modello coloniale adattato alle realtà post-asburgiche, quanto dell’idea che «in un periodo in cui l’autodeterminazione era generalmente accettata, fosse necessario l’intervento statale affinché la popolazione corrispondesse all’idea di uno Stato-nazione omogeneo» (99).

Il secondo capitolo (Colonizzazione e sovranità dalle Alpi all’Africa) si concentra quindi sulla ripresa dei metodi e dei progetti coloniali nella cornice dittatoriale fascista attraverso la creazione di insediamenti agricoli, rivitalizzando in una chiave più decisa e aggressiva un repertorio ottocentesco di politiche di integrazione statale delle campagne. Ma, secondo Pergher, fu soprattutto lo sforzo di realizzare interventi di bonifica agraria come la bonifica delle paludi pontine a interpretare la volontà integralmente fascista di plasmare un “uomo nuovo”. Questa politica che, nella visione del tecnico e professore di agricoltura Arrigo Serpieri, era volta a promuovere una politica di insediamenti rurali doveva estendersi ai territori ai confini della “nazione fascista”. A suo avviso, «la spinta fondamentale all’attuazione di quella politica da parte del regime derivò dal bisogno di avere terre incubatrici per la crescita futura e per l’espansione territoriale». Infatti, conclude l’autrice con una formula felice, «Mussolini aveva bisogno di un popolo per l’impero, non di un impero per il popolo» (111).

Tuttavia, il fatto che i coloni delle frontiere e il regime di Mussolini ricorressero alla medesima costellazione di parole, riferendosi alla nazione e all’impero, al lavoro e alla terra, all’insediamento e alla migrazione, non impediva l’insorgere di incomprensioni, fraintendimenti e divisioni, come dimostra il terzo capitolo (Divisi da un linguaggio comune: il regime e i coloni). Il principale nodo discendeva dalla «confusione» tra «le politiche contraddittorie di rigenerazione nazionale, da un lato, e la retorica della grandezza imperiale, dall’altro», la quale a sua volta rispecchiava una contraddizione interna al progetto d’espansione fascista, vale a dire la «volontà di costruire un impero, e al contempo, di ampliare la nazione» (183). Questo progetto si articolava, secondo Pergher, lungo tre prospettive. Anzitutto, «per conseguire una reale sovranità sui territori contestati, era necessario creare una maggioranza di italiani leali al regime, o almeno una minoranza che potesse essere culturalmente egemone»; quindi, «per radicare gli italiani in quelle aree era necessario che essi diventassero proprietari agricoli»; da ultimo, «per legittimare le loro rivendicazioni su quelle terre dovevano coltivare i campi in modo efficace e produttivo» (203).

Dalla natura ambigua del progetto fascista scaturiva la tensione esistente tra l’aspirazione coloniale a stabilire un ordine gerarchico fondato sull’esclusione degli “altri” e l’aspirazione nazionale a plasmare una comunità politica fondata sull’assimilazione di tutti i cittadini. Questo problema è al centro del quarto capitolo (Sudditanza e cittadinanza: il regime e le popolazioni autoctone). Nel corso degli anni Trenta si manifestò un «atteggiamento oscillante e contraddittorio» del regime fascista nei confronti dell’“altro” (218), che questi fosse la popolazione autoctona (prevalentemente musulmana) della Libia o la minoranza tedesca in Alto Adige. Mentre nel primo caso l’enfatico ed esplicito riconoscimento dell’irriducibilità degli “autoctoni” apriva la strada ad una «sempre maggiore segregazione», nel secondo caso l’incerto riconoscimento della diversità degli “allogeni” ammetteva la possibilità dell’assimilazione, impegnandosi per «una piena italianizzazione» (263).

Nel quinto capitolo (Confini “intoccabili per sempre”: la terra, il popolo e l’accordo delle opzioni fra la Germania nazista e l’Italia fascista), l’autrice cerca di tirare le fila del ragionamento fin qui svolto, a partire dall’analisi delle politiche di trasferimento della popolazione di lingua tedesca abitante in Alto Adige nel Terzo Reich e le sue implicazioni in termini di «complessivo ripopolamento della regione da parte dell’Italia» (266). Tuttavia, conclude Pergher, le opzioni rappresentarono in un certo senso «un’ammissione di sconfitta, perché riconoscevano che il piano di Mussolini per italianizzare il Sudtirolo era fallito» (268).

Questo libro di Roberta Pergher, in definitiva, offre un contributo significativo e innovativo sul piano della concezione e della pratica della sovranità nelle borderlands imperiali. Emerge con particolare chiarezza l’intreccio ambiguo e indissolubile tra le politiche di nazionalizzazione e quelle di fascistizzazione nel contesto aperto dai trattati di pace e dal conseguente sforzo di riorganizzazione del sistema internazionale attraverso il principio wilsoniano di autodeterminazione nazionale. Tuttavia, sul terreno della netta, rigida distinzione tra “italiani” e “non-italiani” che attraversa le pagine relative all’Alto Adige post-asburgico, si possono esprimere alcune perplessità. Nonostante qualche sporadico cenno in nota, Pergher non si confronta con la recente storiografia asburgica che, con Pieter Judson, Tara Zahra e Jeremy King, ha rimesso in discussione paradigmi del nazionalismo metodologico. Il loro punto di vista privilegia un approccio situazionista che analizza le mutevoli e molteplici dinamiche di identificazione, a differenza di una prospettiva essenzialista che tende al riconoscimento delle “nazioni” come identità statiche ed esclusive. Peraltro, anche un critico acuto di questo revisionismo storiografico come Laurence Cole ha richiamato l’esigenza, a partire proprio dal caso del Tirolo, di evitare ogni prospettiva teleologica, osservando lo spettro variabile e multiplo delle lealtà, locali, regionali, imperiali. In questo senso chiedersi chi fossero gli “italiani” e i “non italiani” in Alto Adige (diverso è il caso della Libia) si presenta come una domanda tutt’altro che scontata. Il già citato Tolomei parlava di popolazioni sì di lingua tedesca, ma di «nazionalità fluttuante» (88). Perciò il regime di Mussolini si appellò alla mobilitazione dei “veri italiani”, identificati con i fascisti, costituendo di fatto un polo di fascistizzazione più che di nazionalizzazione nelle regioni miste di confine, con l’obiettivo di imporre una nuova lealtà ideologica e di stabilire una nuova sovranità statale.