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Marcello Anselmo, “Il consumatore realsocialista”

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Marcello Anselmo, Il consumatore realsocialista. Dispositivi, pratiche e immaginario del consumo di massa in DDR (1950-1989). Firenze: Le Monnier, 2020. IX+226 pp.

Marcello Anselmo – storico di profilo ibrido: dottorato all’European University Institute, ma anche scrittore e documentarista radiofonico per Radio 3 – pubblica un libro importante su un aspetto della storia della Repubblica democratica tedesca che, almeno in Italia, ha ricevuto finora un’attenzione solo episodica. Nel volume vengono esaminate le abitudini quotidiane del consumo nella “seconda” Germania durante la Guerra fredda, ricostruendo il modo in cui cittadine e cittadini tedesco-orientali vissero le loro esistenze materiali tra politiche istituzionali avviate dal regime e consumi informali, in un sistema che l’a. chiama di “socialismo consumista”.

Questa analisi illumina il fenomeno di un regime, quello del partito unico SED (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands), impegnato a rendere anche un sistema economico rigidamente pianificato come quello nella DDR appetibile per l’accesso al benessere individuale oltre che sociale, in relazione a (e in competizione con) una Germania occidentale il cui sviluppo postbellico era stato imperniato sulla ricchezza e sui beni di consumo. Due sono le chiavi di lettura che, ad avviso di chi scrive, emergono come particolarmente originali e innovative in questo lavoro.

La prima riguarda le ambivalenze legate al caso studio peculiare della Germania Est. L’abbinamento del tutto particolare, nel blocco sovietico, tra il dogmatismo politico-ideologico e un contatto continuo e costante con una controparte occidentale produssero, argomenta Anselmo, una contraddizione di base, un dilemma organizzativo che lo stato tedesco-orientale si trovò ad affrontare in tutta la sua complessità. In che modo conciliare un’idea di sviluppo socio-economico fondata sul marxismo-leninismo, sulla pianificazione e sul lavoro, con il consumo di beni materiali? Capovolgendo la questione: come proporre alla popolazione una forma nuova di diritto alla felicità individuale, attraverso l’accesso a beni di consumo, presentati e declinati però secondo precetti socialisti? O ancora: quale spazio e ruolo assegnare ai consumi, in un sistema marxista-leninista non basato sul privato, e storicamente non in possesso di strumenti teorici adeguati a tematizzarli?

L’ipotesi dell’a. è che proprio da questa negoziazione scaturisca una particolare società dei consumi. È un’interpretazione storiografica che supera – felicemente – l’idea di una distinzione netta tra un’idea di stato repressivo, dogmatico e poliziesco, e quella di una società completamente annientata da questo apparato di controllo. Si apre invece la strada all’ipotesi di un tentativo originale di conciliazione, caratterizzato da una dialettica continua tra il regime e i “consumatori realsocialisti”, ovvero i cittadini destinatari di questo progetto: se questi, da un lato, sollecitarono un maggiore accesso al consumo, dall’altro ne furono anche controllati. Il Konsumkommunismus, inoltre, fu costruito ex novo dapprima facendo della contrapposizione con la Repubblica federale (che disponeva peraltro di piattaforme e studi già avviati, in virtù della continuità che incarnava con le precedenti fasi della storia tedesca) un elemento centrale della strategia; e, in un secondo momento, proponendo un modello sempre più autonomo e indipendente.

L’a. mostra le diverse fasi della ricerca di questo socialismo (o comunismo) del consumo, in un arco temporale che intende abbracciare l’intera esistenza della DDR. Ne ricorda l’avvio già negli anni Cinquanta (con l’Institut für Bekleidungskultur, fondato nel 1952, le prime boutique – empori urbani – e i Konsum-Geschäfte, grandi magazzini socialisti), e l’esplosione tra anni Sessanta e Settanta. Il 1961, anno della costruzione del Muro, che condusse a un’«autonomia storica e sociale della DDR» in concomitanza della quale «fu tratteggiata la linea di demarcazione materiale tra due mondi di consumo», è individuato come momento periodizzante (p. 45). Prima di allora aveva molto spazio, in una Germania e soprattutto una Berlino ancora porosa e osmotica, un’economia informale in grado di aggirare quella pianificata.

Non manca un’attenzione ai primi elementi di decadenza del modello consumistico anticapitalista, nel quadro più generale della crisi del blocco sovietico. Con i decenni, infatti, emerse anche l’aspetto più contraddittorio di tale modello, ovvero la sempre crescente dipendenza dall’importazione e dai prestiti occidentali, necessari per garantire un accesso ai consumi ormai avviato e divenuto parte integrante del discorso politico, ma anche per salvaguardare le realizzazioni socialiste. Se il ricorso ai prestiti avrebbe prodotto meccanismi virtuosi, come lo sviluppo della tecnologia, la sfera economica sarebbe andata anche incontro a un progressivo soffocamento. Negli anni Ottanta la compresenza degli ingenti investimenti pubblici (welfare, alloggi, educazione) e dell’universo legato alla macchina dei consumi non sarebbe più stata sostenibile, conducendo alla crisi che conosciamo, ereditata dalla parte orientale della Germania dopo la Riunificazione.

Il secondo aspetto di notevole interesse nella ricerca è quello generazionale. Anselmo mostra con efficacia questo ricambio, sia nella classe dirigente della SED che nella cittadinanza. L’idea di un consumo socialista si realizzò infatti compiutamente solo con il cambio al vertice del ١٩٧١, che vide il nuovo segretario del Partito Erich Honecker succedere a Walter Ulbricht. Inoltre, il prototipo ideale del “consumatore realsocialista” non erano gli operai adulti negli anni dello stalinismo, ma i giovanissimi, nati negli anni del conflitto mondiale o immediatamente successivi. Non a caso il capitolo più corposo del libro è dedicato al Deutschland Treffen der Jugend, meeting giovanile tenutosi a Berlino nel 1964, e concepito anche e soprattutto come vetrina espositiva rispetto ai progressi ottenuti nel campo della qualità della vita, in una Inszenierung in cui lo scopo principale non era più superare l’Occidente ma mostrare i progressi di un modello originale. Esso era destinato proprio ai giovani, come sottolinea l’a. in una pregnante descrizione della destinazione degli spazi del Treffen:

Gli uffici organizzativi, nei servizi così come nelle brigate di lavoro e nella polizia, erano i luoghi degli organizzatori, adulti della generazione HJ, dei genitori, di coloro che avevano vissuto la disfatta, le prime contraddizioni del socialismo, e cercavano un ordine e un rigore sociale finalmente in grado di garantire uno sviluppo di vita sereno. I concerti, le conferenze, le gare ginniche erano invece luoghi della massa, fatta prevalentemente di giovani della FDJ, di studenti, di apprendisti ma anche di outsider della generazione adulta ma sostanzialmente composta dalla prima generazione di nati in DDR (p. 75).

Al di là dell’effettiva efficacia propagandistica dell’incontro, è significativa la trasformazione che quel momento aggregativo generò e accelerò sul piano dei consumi, specie nelle culture e subculture giovanili. Consumi da intendersi non solo come oggetti, ma anche come produzione culturale nel senso più ampio: concerti, sport, romanzi, programmi televisivi – cui infatti sono dedicati gli ultimi due capitoli del libro. In sostanza tutto quanto aveva a che fare con il mondo materiale come produzione sociale.

Sul piano storiografico il libro si distingue per una lettura sfumata dell’esperienza storica della Germania orientale, scostandosi dalla tendenza, diffusa negli anni Novanta e in alcuni casi ancora oggi, a dipingere la DDR come un paese unidimensionale, figlio della contrapposizione tra blocchi, rigido, dogmatico, appiattito dalla pianificazione, poco vivace sul piano sociale ed economico. Questo nel contesto tedesco ma anche in quello italiano, dove con poche eccezioni (su tutti Enzo Collotti, da poco scomparso, pur con significativi cambi di rotta nel corso dei decenni) la “seconda Germania” è stata spesso descritta come una realtà istituzionale funzionale alle dinamiche geopolitiche della Guerra fredda. Ciò che è invece più interessante è la sua realtà sociale, spesso in secondo piano dietro agli slogan ideologici, ma tutt’altro che priva di movimenti e di interesse. L’a. fa emergere proprio questo grazie a un approfondito lavoro sulle fonti, esaminando, del consumo, sia gli aspetti formali che quelli informali e “sottobanco”, prima e dopo la costruzione del Muro di Berlino; e proponendosi di superare «la rigidità dicotomica che vede nel mondo materiale realsocialista la prevalenza di un’ideologia della penuria, a favore di una lettura basata sulla complessità sociale e culturale capace di trasferire negoziazioni e conflitti dal piano politico a quello del consumo quotidiano» (p. 13).

Lettrici e lettori avvezzi alla letteratura tedesca sulla DDR rimarranno stupiti dalla sostanziale elusione di una discussione rispetto alla classificazione storico-politologica dello stato tedesco-orientale, in genere orientata, con diverse sfumature, verso le categorie della dittatura e dello stato totalitario. Anselmo sceglie di non affrontare esplicitamente questo discorso, distanziandosi in questo anche dal mainstream della ricerca. Viene preferita la più neutra dicitura di «regime», e l’attenzione trasferita al rapporto tra stato e società su un altro livello.

A fronte di un solido impianto interpretativo, e di un accurato lavoro sia teorico che empirico, il volume si presta ad alcune notazioni critiche. Il focus geografico, ad esempio, è convogliato su Berlino, nonostante il continuo richiamo alle altre due grandi città dell’Est, Lipsia e Dresda. In sede introduttiva questo sbilanciamento viene affrontato nei termini di un contrasto tra la città e la campagna, ma dell’assenza delle altre città tedesco-orientali non si fa menzione. Tale assenza è probabilmente dovuta a limiti delle fonti, ma leggendo si avverte l’esigenza di una maggiore tematizzazione di questo problema. Simile sbilanciamento si verifica sul piano cronologico, con ripercussioni sulla struttura generale del lavoro. Il capitolo sul Deutschland Treffen del 1964 è infatti molto specifico, mentre le parti successive virano verso un discorso più generale su letteratura, produzione cinematografica e editoria. L’impalcatura risulta così non del tutto omogenea, nel suo oscillare tra un caso studio particolare e un’analisi generale, e più dilatata nel tempo, sugli immaginari del consumo. Anche dal punto di vista formale sono da segnalare alcuni piccoli errori linguistici e tipografici in tedesco.

Da ultimo: rimane parzialmente in sospeso il discorso avviato dall’a. sulla crisi degli anni Ottanta. Resta aperta la questione dell’impoverimento della dialettica tra mondo dei consumi e socialismo di stato, e delle forme da essa assunte durante il declino della Germania orientale. Un capitolo conclusivo più lungo, ampliato alla cesura dell’89 e al suo significato in termini di confronto tra società dei consumi e lotta per la democrazia e i diritti civili, sarebbe stato utile. Avrebbe aggiunto un ulteriore tassello all’importante lavoro di Anselmo e alla comprensione delle radici storiche e dei problemi sia della Germania che dell’Europa post-1989 – intesa, quest’ultima, come ampio spazio geopolitico di cui i territori centro-orientali, ex stati del blocco sovietico riassorbiti dall’Occidente, sono oggi parte integrante.