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Lucia Bianchin, Dove non arriva la legge. Dottrine della censura nella prima età moderna

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Il libro di Lucia Bianchin sviluppa, a partire dalla questione storiografica del disciplinamento sociale, uno studio consacrato alle dottrine sulla censura elaborate tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII. Intesa in questo periodo come «un insieme di tecniche di controllo e di regolamentazione» esercitate sugli aspetti politici, religiosi e sociali della vita di ogni individuo, la censura rappresentò per le istituzioni politiche e religiose un fondamentale strumento di autoconservazione. «L’ampiezza e il rigore della censura», infatti, aumentarono «quanto più grave fu la minaccia alla stabilità del potere politico e all’ordine sociale» (p. 107).

Nel corso del XVI secolo, si delinearono due modelli di censura ecclesiastica: quello cattolico e quello riformato. La censura della Chiesa di Roma fu concepita prevalentemente come censura dei libri, finalizzata ad impedire o almeno ad arginare la circolazione delle idee ereticali per mezzo di uno stretto controllo, non sempre efficiente, su autori, editori e lettori. Le Chiese riformate, invece, concentrarono la loro azione censoria soprattutto sul disciplinamento dei costumi (censura morum). Ciò che distinse maggiormente la censura della Chiesa cattolica da quella protestante, nella fattispecie calvinista, fu l’espressa volontà di quest’ultima di coinvolgere l’intera collettività nella azione di controllo e di vigilanza, svolta dal presbiterio, sulla vita morale e religiosa della comunità.

A partire dal Cinquecento, l’esercizio della censura non fu più appannaggio esclusivo della Chiesa ma cominciò ad essere svolto anche dalle autorità statali, la cui azione in questo ambito crebbe proporzionalmente all’affermarsi di un potere centralizzato. Proprio in questo periodo il ruolo della censura «riportato alla luce nella sua conformazione originaria dalle grandi sintesi di diritto dei giuristi umanisti, assume nelle teorie dello Stato una rilevanza e una centralità evidenti». Tuttavia, coloro che tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII fecero della censura l’oggetto di una riflessione politico-giuridica, non si riferirono ai modelli storici contemporanei, bensì si richiamarono prevalentemente a quelli del mondo antico.

Gli autori presi in esame da Lucia Bianchin – Jean Bodin, Pierre Grégoire, Giusto Lipsio, Johannes Althusius (capp. IV-VII) – pur nelle intrinseche differenze politiche e confessionali, concordarono nel ritenere la censura, sull’esempio antico, uno strumento indirizzato principalmente al controllo e al disciplinamento dei costumi. Troppi erano infatti i comportamenti pericolosi per i quali le leggi non prevedevano una pena, e che, se lasciati impuniti, potevano condurre lo Stato alla rovina.

All’interno di questa concezione comune, tuttavia, è possibile ravvisare delle differenze tra i diversi autori. Così, Pierre Grégoire si discostava da Bodin, fautore di una magistratura censoria priva di potere giurisdizionale, laddove affermava che le competenze e le prerogative dell’istituto censorio dovessero non solo declinarsi nelle forme della giustizia ordinaria, ma, se reintrodotte in Francia nella forma classica, sarebbero dovute spettare al sovrano, il solo al quale era lecito di diritto «costringere al rispetto e all’obbedienza delle norme morali, in base a una potestas di ordine superiore, a lui concessa da Dio per la cura, la difesa e la salvezza del suo popolo» (p. 209). Giusto Lipsio, per evitare che la censura diventasse odiosa ai sudditi, affermava che lo stesso principe avrebbe dovuto assoggettarsi alle leggi della censura, prevedendo inoltre di elargire premi e ricompense ai meritevoli. Il perno della trattazione di Althusius, nella cui dottrina confluirono i risultati dell’esperienza politica svolta nella città calvinista di Emden, ruotava attorno agli aspetti punitivo-repressivi della censura. Alle forme tradizionali di punizione previste per la correzione dei comportamenti devianti, quali l’ignominia e la multa, Althusius aggiungeva quella delle case correzionali (ergasteria), destinate agli individui recidivi.

Diversamente, il giurista tedesco luterano Johannes Angelius Werdenhagen, ultimo autore preso in esame dalla Bianchin (cap. VIII), rifiutava «una giurisdizione umana» che andasse oltre «la repressione dei crimini, arrogandosi il diritto di giudicare azioni e comportamenti indifferenti per le leggi». Per Werdenhagen, la sola censura ammessa era quella esercitata sull’istruzione religiosa, in modo da prevenire, per mezzo dell’educazione delle coscienze, i comportamenti sbagliati.

Se il contesto storico-politico rimane talora in secondo piano nello studio di Lucia Bianchin, la puntuale lettura delle fonti fa emergere come il ruolo centrale assegnato alla censura dalla dottrina di fine Cinquecento e inizio Seicento sia espressione della concezione del potere «che racchiude in sé una complessità di elementi culturali, politico-giuridici e religiosi, a volta a volta diversi, ma sempre indissolubilmente legati fra loro».