Storicamente. Laboratorio di storia

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Giulia Lorenzoni, Conquistare e governare la città. Forme di potere e istituzioni nel primo anno della signoria viscontea a Bologna (ottobre 1350-novembre 1351), Bologna, Clueb, 2008, 506 pp.

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Il libro analizza uno spazio di tempo assai circoscritto, ancorché di grande significato, del basso Medioevo bolognese. Esso va infatti a focalizzarsi sul primo anno di attività del governo visconteo, che viene osservato attraverso la privilegiata tipologia documentaria delle delibere comunali, le Provvigioni, un corpus di ben 1.142 documenti per il solo anno preso in esame, il che spiega perché il range cronologico sondato sia tanto ristretto. Opportunamente regestati, questi documenti vengono a costituire il grosso – oltre che la parte più innovativa – del libro, una corposa Appendice documentaria che sarà senz’altro apprezzata dallo studioso delle vicende tardomedievali bolognesi, in ragione della messe di informazioni di natura sociale, politico-istituzionale ed economica che mette a disposizione.

La prima parte del volume si offre come una messa a punto – ben registrata sul piano storiografico, ma anche vagliata attraverso il ricorso a fonti statutarie, cronachistiche e amministrative – del contesto sociopolitico entro cui presero vita le esperienze signorili in Bologna. Ci si muove per gradi dalla conquista della città da parte della famiglia Pepoli sino all’avvento di Giovanni Visconti, tenendo in particolare considerazione il prevedibile mutamento “genetico” cui furono soggette le istituzioni civiche nel corso del ’300.

Fu nel 1337 che i Pepoli, con Taddeo, instaurarono un regime criptosignorile capace da un lato di svuotare di significato o di sopprimere le tradizionali magistrature comunali e, dall’altro, di reinventare o arricchire la macchina burocratica di nuovi funzionari e corpi istituzionali. Tuttavia i Pepoli ressero la cittàin un momento alquanto infausto: il perdurante ripetersi di guerre e carestie aveva stremato il corpo sociale, rendendo Bologna poco reattiva di fronte alle potenze regionali che andavano via via prosperando in questo giro di anni. Anche e soprattutto per tale ragione, «decisamente prudente e remissiva» fu la politica estera condotta dai Pepoli. La volontà di attenersi a scelte di basso profilo dipese inoltre, spiega l’a., dalle origini popolari di questa famiglia che non favorirono la costruzione di stabili cerchie di alleati al di fuori delle mura cittadine (pp. 41 ss., p. 47); ma viene da chiedersi fino a che punto ciò fu vero, considerato il grave stato di crisi in atto e visto che Bologna non fu l’unica città emiliana a soccombere alla potenza viscontea.

Come che sia, fu quasi naturale che, vuoi per «saggio calcolo politico» (p. 37), vuoi per banale realismo, i Pepoli cedessero al dominio forestiero. Piuttosto che ribellarsi, meglio affidarsi a un potente straniero con il quale peraltro la città aveva stretto legami di amicizia almeno dal 1339, quando si era schierata con Azzone Visconti nella battaglia di Parabiago.

L’a. entra poi nel merito dei patti di vendita stipulati tra i Pepoli e i Visconti (pp. 47-52). A fare da sfondo al decisivo momento, fu il Palazzo nuovo del Comune di Bologna, dove Giovanni fu proclamato dominus generalis al cospetto del Consiglio del popolo, convocato per l’occasione dal podestà e del priore degli anziani; dopo la legittimazione dal basso giunse puntuale quella dall’alto, con la concessione del Vicariato da parte dell’autorità imperiale (pp. 60-66). Anche se Bologna era ormai avvezza alle accentrate pratiche di governo monocratiche (furono d’altronde in tutto identiche le procedure d’insignorimento di Taddeo e Giovanni), molto cambiava. E in peggio. La città gravitava ora su Milano dove Giovanni risiedeva e da dove governava, e che, tramontato il progetto di restaurazione imperiale di Enrico VII, stava imprimendo una forte accelerazione al proprio disegno statuale, ambiziosamente esteso a buona parte del Centro-settentrione dell’Italia. Con tutto ciò che ne conseguiva, perché il permanente stato di guerra portò a un evidente inasprimento del controllo politico sulle città soggette (Bologna subì un sensibile processo di militarizzazione, p. 63) e a perseguire logicamente «la strada dell’aggressione all’autonomia finanziaria delle città, mediante il progressivo assorbimento da parte del signore di tutte le entrate cittadine» (p. 77).

I principali incarichi amministrativi e organi consigliari, vecchi o nuovi che fossero (pp. 153-179) furono eterodiretti da Giovanni, che introdusse negli assetti istituzionali bolognesi anche i nuovi fondamentali uffici del capitano o luogotenente del signore e del vicario generale; senza dimenticare che a gestire l’amministrazione cittadina erano chiamati anche i referendari (con competenze finanziarie), i tesorieri, i collaterali (cui spettava l’organizzazione delle compagnie di mercenari presenti nelle città soggette), l’ufficiale delle vigne e della guardia di Bologna (pp. 85-143).

Il libro si rivela un utile strumento per scrutare nella loro complessità istituzionale, attraverso la lente d’ingrandimento di più un migliaio di regesti delle Provvigioni, le dinamiche di assoggettamento allo Stato visconteo delle realtà cittadine emiliane e non solo.