Storicamente. Laboratorio di storia

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Daniele Di Bartolomeo, "Nelle vesti di Clio. L’uso politico della storia nella Rivoluzione francese"

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Daniele Di Bartolomeo, “Nelle vesti di Clio. L’uso politico della storia nella Rivoluzione francese (1787-1799)”, Roma, Viella, 2014, 355 pp.

Frutto di una tesi dottorale e di molti altri anni di studio incentrati prevalentemente su una letteratura francese cospicua ma ancora non esaustiva, il volume di Di Bartolomeo ripercorre con uno stile narrativo assai piacevole un problema rimasto a lungo incompreso dagli storici della Grande Révolution. L’autore si serve di pamphlets, giornali, atti parlamentari e altri discorsi per dimostrare che in tutto il periodo che va dal Consiglio dei Notabili al 18 Brumaio la storia – anzi, «gli specchi della storia» – fu costantemente presente, utilizzata, rivendicata e strumentalizzata da tutte le parti in causa. Cominciarono aristocratici e parlamentari, ma il Terzo Stato non rimase a guardare: l’Assemblea convocata per la primavera del 1789 avrebbe dovuto riprendere le regole del XVII o piuttosto quelle del XV secolo? E poi, chi poteva legittimarsi come testimone ed erede idoneo della storia nazionale, tra i chierici, i nobili e i borghesi? Già, perché in un primo tempo l’armamentario retorico privilegiò soprattutto la storia di Francia, tirata in ballo a seconda dei momenti e degli attori nei suoi albori merovingi o nel passaggio carolingio. Poi, tramontata l’opzione di una rivoluzione monarchica e tramontato dopo Varennes anche il progetto di un partito monarchico-costituzionale (i Foglianti), i discorsi cominciarono a riandare sulla storia antica, per il momento ancora incerti se preferire Sparta o Atene.

Qui si innesta la prima tesi importante di Di Bartolomeo: innanzi tutto i Montagnardi non furono gli unici a coltivare miti classici (ché anzi anche i Termidoriani, repubblicani di ferro e regicidi, avrebbero fatto ricorso ad immagini invalse nel Terrore); né si può dire che Robespierre fosse succube di un vagheggiamento del passato tale da renderlo impreparato di fronte alla realtà concreta dell’Anno II. Prova ne sia il fatto che tutti gli emuli dei Gracchi (e perciò fautori della riforma agraria) vennero isolati; che tutti – ed erano numerosi – i fautori di istituzioni quali l’eforato, il tribunato, i comizi, vennero tacitati (e ciò fino all’instaurazione delle italiche Repubbliche “sorelle”). Quindi il mito di Sparta non accecò il leader, né si dileguò dopo Termidoro.

Ma perché utilizzare così ossessivamente «gli specchi della storia»? Per risolvere il problema cardinale di tutte le fasi del processo: quello, per l’appunto, della auspicabile «chiusura» della Rivoluzione stessa. E, ancora avvinti ad una visione ciclica nonostante il prorompere del mito del progresso, i rivoluzionari non volevano che si ripetesse specialmente la vicenda inglese del secolo precedente: non il regicidio e non l’apparizione di un Cromwell, dapprima; poi, non la Restaurazione tirannica. Merito tra gli altri dell’autore è quello di aver valorizzato la risonanza – la prima e di fatto ultima che ebbe in sede internazionale una ricostruzione di mano femminile fino al pieno XIX secolo – della storia inglese della repubblicana Macaulay, controcanto del tory David Hume. E se i rivoluzionari furono lettori, traduttori, volgarizzatori e soprattutto retori, fino alla fine (della Repubblica direttoriale) coesistettero con lo spettro di una sorte rovinosa degli istituti liberali. Finché un redivivo Sieyès non giunse a trattare di storia romana, ma non della Repubblica cara a girondini e giacobini del 1792, bensì delle guerre civili e dell’avvento del Principato. E pure Napoleone si avvalse nell’Anno VIII degli «specchi della storia», peraltro intervenendo su una sensibilità già profondamente modificata dall’irrompere dei generali a turbamento della dialettica politica.

Come anticipato, il lavoro di Di Bartolomeo riesce a coniugare una ricerca imponente, diversificata e minuziosa a una scrittura avvincente. Il saggio si presta a molti usi: una riflessione più aggiornata sulla Grande Révolution certamente, ma anche l’inizio di un nuovo percorso nell’immaginario storico del primo Romanticismo, costruitosi in buona parte in contrasto con quello repubblicano e poi con quello imperiale. Non da ultimo, Di Bartolomeo merita una lode per aver ricompreso nel suo strumentario un novero vastissimo di voci e attori, non arrestandosi di fronte alle distinzioni invalse tra “maggiori” e “minori”, tra “alto” e “basso”. Così che riesce a trattare nel suo discorso temi collaterali come le feste, il simbolismo, la politica religiosa. In definitiva, un libro di storia importante, che suscita spunti e anche emozione, specie di fronte a un finale in crescendo.