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Laura Ciglioni, “Culture atomiche”

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Laura Ciglioni, Culture atomiche. Gli Stati Uniti, la Francia e l’Italia di fronte alla questione nucleare (1962-1968). Roma: Carocci, 2020. 404 pp.

La Guerra fredda è stata una guerra immaginaria e immaginata tanto da alte cariche governative come da donne e uomini comuni. Nell’ottobre del 1945, quando George Orwell in un articolo su Tribune coniò l’espressione Guerra fredda, pose fin da subito in evidenza come tale conflitto costituisse una “metafora” la cui genealogia si poteva associare a un complesso intreccio di processi di democratizzazione, costruzione imperiale e tecnologie militari all’indomani della Seconda guerra mondiale. Orwell era, infatti, già cosciente di quanto l’arma militare per eccellenza, ovvero, la “bomba atomica” costituisse uno strumento di potere che andava ben oltre la sua concreta applicazione nel campo di battaglia e soprattutto di quanto la “bomba” stesse generando un’incerta condizione di “pace che non era pace”. Quali visioni del mondo, mentalità, credenze e strutture sociali avrebbe, quindi, potuto favorire tale paradossale condizione con cui si trovavano ora a convivere le società del dopoguerra?

Se fin dai mesi successivi alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki Orwell mise al centro del dibattitto i nodi e le conseguenze psicologiche dell’era atomica, al contrario la storiografia ha considerato per molto tempo la Guerra fredda un prodotto esclusivo delle dinamiche elitarie di politica estera e forza militare lungo l’asse Est-Ovest. Soltanto nella tappa finale del conflitto bipolare e, quindi, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso e grazie alle suggestioni del decostruttivismo, le idee, le percezioni e gli stati d’animo delle masse anonime si sono convertiti in oggetto di studio essenziale per comprendere lo sviluppo ed esito finale di tale conflitto, spostando, di conseguenza, l’attenzione storiografica dall’“alto” delle élite militari e diplomatiche al “basso” delle percezioni ed esperienze della gente comune. Storici come Spencer Weart o Paul Boyer, per esempio, hanno dedicato le loro pionieristiche ricerche alle elaborazioni culturali e le rappresentazioni sociali della bomba atomica negli Stati Uniti. Altre ricerche, come gli studi di David Campell, hanno invece messo a fuoco i processi di ridefinizione identitaria e nazionale all’interno delle politiche di sicurezza della Guerra fredda; altri, come Holger Nehring, si sono spinti ben oltre, fino a definire il conflitto bipolare come una guerra civile e simbolica nel cuore degli stessi stati nazionali. Dalle prime ricerche e riflessioni metodologiche statunitensi sulla “cultura nucleare” l’interesse della comunità scientifica si è rapidamente spostato verso le specificità sociali e la comparazione tra realtà territoriali in Europa e in Giappone, come accade, ad esempio, negli studi di Benjamin Ziemann, Matthew Grant o Beatrice Heuseur.

Per quanto riguarda l’Italia – con le notevoli eccezioni delle ricerche di Renato Moro sull’idea di pace e guerra tra le forze politiche, di Leopoldo Nuti sulla relazione tra politica estera e armi nucleari, di Leonardo Campus sull’impatto della crisi dei missili a Cuba sull’opinione pubblica, e in parte del recente volume Nuclear Italy curato da Elisabetta Bini e Igor Londero sulla storia delle differenti componenti socio-culturali che hanno influenzato le politiche nucleari italiane – l’interesse accademico si è concentrato prevalentemente sulle peculiarità culturali degli Stati Uniti. L’opera prima di Laura Ciglioni viene a riempire in modo originale e accurato tale vuoto storiografico. In particolare, la monografia si propone di analizzare il complesso mosaico di opinioni, atteggiamenti e stati d’animo rispetto alle applicazioni del nucleare militare (ma anche ai suoi usi civili) in Francia, Italia e Stati Uniti, nell’arco temporale che va dall’indomani della crisi di Cuba del 1962 ai dibattiti sul Trattato di non proliferazione nucleare del 1968.

La scelta cronologica appare appropriata. Gli anni Sessanta costituiscono infatti un tornante nel quale, da un lato, le politiche di distensione tra le due superpotenze offuscarono le preoccupazioni per gli armamenti nucleari; ma dall’altro, l’angoscia per la minaccia nucleare si radicò, seppure in forme diverse, in tutta Europa, in un contesto di crescita economica, di diffusione dei consumi di massa e di maggior consapevolezza sul ruolo dell’opinione pubblica in democrazia. Come spiega Ciglioni, in questo decennio la visione dell’atomo si modificò: dal “sublime nucleare” del dopoguerra, ovvero il timore ma anche la fascinazione quasi reverenziale ed estetizzante per l’energia nucleare, le visioni del nucleare si fecero rapidamente frammentate, distorte, critiche, anticipando per molti versi il pastiche della postmodernità dei decenni successivi. Il nucleare divenne citazione pop nell’opera di Andy Wahrol, proprio nel momento in cui il “grande” incubo atomico si stava scomponendo in un mosaico di tante “piccole” paure.

Obiettivo del libro è comprendere quali altre inquietudini celava la questione nucleare nei tre paesi (a ognuno dei quali è dedicato un capitolo riccamente documentato). A tal scopo, applicando le suggestioni di George Mosse sull’articolata relazione tra cultura europea e mito dell’esperienza di guerra nel XX secolo ed esplorando i cangianti equilibri dello scenario internazionale postbellico, l’autrice ricostruisce il tessuto culturale dell’epoca e il processo di profonda torsione e ideologizzazione delle mentalità. Le fonti utilizzate per comprendere le speranze e le paure di fronte alla questione nucleare sono molteplici e costituiscono il punto di forza della monografia. Ciglioni, infatti, si destreggia tra cultura “alta” e “bassa”, analizzando non solo le analisi degli intellettuali, ma anche rotocalchi, settimanali illustrati, film, opere d’arte e fumetti. Riserva inoltre proficua attenzione ai sondaggi di opinione, che dalla fine degli anni Quaranta si stavano progressivamente diffondendo prima negli Stati Uniti e poi in Europa: dimostrando piena consapevolezza sulle insidie della fonte, l’autrice utilizza numerosi rilevamenti sull’opinione pubblica conservati negli archivi del Research and Reference Service della US Information Agency, della francese Direction des Renseignements Généraux e del Ministero degli Interni italiano.

L’analisi di tale variegata documentazione porta Ciglioni a concludere che cliché, repertori e metafore legate al nucleare nei tre paesi non solo attinsero al serbatoio delle memorie nazionali di lungo periodo, ma si intrecciarono in modo articolato alle differenti tradizioni di rappresentazione della nazione e a distinte idee di modernità. Anche se fin dal suo esordio quella del nucleare fu chiaramente una questione globale e transnazionale, dal lavoro di Ciglioni emerge più che altro quanto la prospettiva nazionale marcò con forza gli atteggiamenti e le letture sulla sfida atomica, che, pertanto, fu in buona parte modellata dalle percezioni che ciascun paese aveva del proprio ruolo nel mondo bipolare. Negli Stati Uniti, infatti, una superpotenza che possedeva la bomba atomica e pure l’aveva utilizzata, le rappresentazioni del nucleare si fusero in una visione di grandezza e rigenerazione nazionale ancorata a una percezione salvifica e millenarista dell’atomo, che contribuì a sublimare le paure suscitate dalla bomba. In Francia, un ex impero coloniale che negli anni Sessanta stava costruendo il proprio arsenale nucleare, l’atomo simbolizzò piuttosto la missione civilizzatrice della nazione e, al contrario, per i suoi detrattori una forma di perversione e crisi dell’identità nazionale. In Italia, una media potenza che rinunciò all’opzione del nucleare, la questione mise in evidenza da un lato la persistente sopravvalutazione del ruolo internazionale del paese, dall’altro il comune riferimento alla civiltà italiana quale giustificazione per la rinuncia alla bomba. Tale riferimento evocava, infatti, il “genio italiano”, che avrebbe senza dubbio potuto garantire al paese un arsenale nucleare ma era troppo civilizzato per farlo.

I meriti di questa monografia sono davvero molteplici, dal momento che contribuisce a delineare nuove linee di ricerca sulla relazione tra scienza e modernità, sull’aggiornamento del dibattito in chiave ambientalista nel decennio successivo, sul complesso rapporto tra nucleare e difesa del carattere nazionale, sul rifiuto dal basso di un nuovo conflitto globale, sul grado di allineamento o meno tra le mentalità delle élite e gli orientamenti di fondo dell’opinione pubblica, sulla percezione della possibilità di una difesa europea indipendente dalle superpotenze. Semmai, il maggior limite riguarda la scarsa concettualizzazione della metodologia comparativa, nonostante nell’introduzione il volume venga presentato proprio come un coraggioso studio comparativo. I diversi casi nazionali, infatti, sono analizzati singolarmente più che tra loro comparati; né il richiamo alla dimensione transnazionale della cultura nucleare è effettivamente sviluppato o giustificato. Inoltre l’autrice opta per lasciare fuori quadro ogni riferimento ad altri paesi europei, ai margini del conflitto bipolare, che invece recenti ricerche sulla Guerra Fredda – come quelle di Laurien Crump, Susanna Erlandsson e Theodorova Dragostinova – hanno preso in esame modificando categorie e letture storiografiche a lungo sedimentate. Cionondimeno, Culture atomiche si rivela un lavoro importante e ben documento, in grado di spiegare come simboli, rappresentazioni e opinioni associati all’energia nucleare dalla ‘gente comune’ non modificarono nell’immediato orientamenti politici e decisioni governative, ma sul lungo periodo ebbero un decisivo impatto su mentalità collettiva e forme di partecipazione alla vita pubblica.