Storicamente. Laboratorio di storia

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Dana Fields, “Frankness, Greek Culture, and the Roman Empire”

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Dana Fields, Frankness, Greek Culture, and the Roman Empire. London-New York: Routledge, 2021. 236 pp.

Insolito ed evocativo, “parresia” non è un vocabolo sconosciuto al registro colto della lingua. Il Grande Dizionario Battaglia informa (XII, 639) che la sua prima attestazione (“parrisia”) in italiano si dovrebbe al compositore barocco Giovanni Andrea Bontempi, che la intese come “licenza” nella sua Historia musica del 1695; il termine circolava in Europa dall’età elisabettiana. Immediati riferimenti all’antico concetto greco di parrhesia, “libertà di parola, franchezza, parlare liberamente”, furono sicuramente passi come Giovanni VII 26 o Atti degli apostoli IV 13, in cui l’annuncio è dato parrhesiai e meta parrhesias, cioè con chiarezza e sicurezza. Pur relativo all’ambito imperiale romano dei primi due secoli, lo studio di Dana Fields della State University of New York di Buffalo – specialista di Elio Aristide, Dione Crisostomo e altri autori della fase conclusiva della “lunga età ellenistica”, secondo il concetto estensivo di Ellenismo ripreso e riaffermato di recente da Angelos Chaniotis in Age of Conquest. The Greek World from Alexander to Hadrian (2018) – si rivolge di rado a fonti giudaico-cristiane e latine. L’a. preferisce argomentare tematicamente, passando in rassegna fruitori e destinatari di diverse accezioni della franchezza (non solo la parrhesia: anche l’isegoria, “eguale libertà di parola”, e altri modi elencati a pagina 2), con una decisa preferenza per le voci provenienti dal “lungo” II sec. d.C. e per la retorica post-classica nelle dinamiche politiche greche, all’incirca fra Nerone e i Severi. Il focus è sulla letteratura flavio-antonina: quando, cioè, la civilitas imperiale avrebbe consentito – l’a. è di questo avviso – un’apparente tolleranza per i diversi pareri (18). Il volume si colloca, in ultima istanza, fra gli studi che intendono reagire all’erronea credenza nella “morte della polis” e in una parrhesia depoliticizzata dopo Filippo II e Alessandro Magno.

Il capitolo 1, che è anche un’articolata introduzione, lascia intendere come questa attitudine/facoltà, lungi dall’essere percepita quale mera espressione di qualsiasi cosa passasse per la mente, rinvenisse, piuttosto, codici e modelli nei “parresiasti” Socrate, Aristofane, Demostene e in altre «icons of frankness» (12). Emergono, così, gli interessi principalmente letterari dell’a., e si capisce quanta influenza abbia in questo filone di ricerca la lettura foucaultiana della parrhesia, vera anatomia del dire-vrai, la cui origine socratica ha come condizione formale la democrazia, come condizione di fatto la superiorità di alcuni, come condizione di verità la necessità di un discorso ragionevole e come condizione morale il coraggio. Consistente, non a caso, è la presenza del filosofo francese nella Bibliografia (204). Il problema individuato dall’a. risiede nello iato – indicato per la prima volta da G. Scarpat e A. Momigliano – fra parrhesia come diritto politico nella polis classica e la sua privatizzazione, come virtù morale, nella Grecia post-classica. La tesi sostenuta dall’a. è che, al contrario, «parrhēsia still had political relevance in a number of contexts during the first two centuries of our era» (4).

Il capitolo 2 si apre con l’umorismo dell’operetta Vite dei filosofi all’asta di Luciano di Samosata, forse degli anni ’70 del II sec., circa la virile sicumera di un Diogene il Cinico ‘profeta di libertà e parresia’ ma, nondimeno, messo all’incanto. Il cenno consente all’a. di soffermarsi sull’associazione di libertà di parola e condizione libera, virilità e nobiltà nella polis classica – un modello persistente – e sull’assorbimento filosofico di queste qualità in un’opposta identità, eticamente orientata, tale da associarle con chi avesse fatto ricorso alla franchezza in prima istanza, piuttosto che per dare seguito a uno status privilegiato. Si esaminano varie forme di parrhesia in relazione allo status sociale: dall’aristocratico all’esiliato, dallo schiavo al filosofo fino all’ambito dei gender studies. Si prendono in esame riferimenti in Euripide, Plutarco, Epitteto e altri; particolarmente interessanti le considerazioni sulla Vita di Esopo, di anonimo del I o II sec.

I capitoli 3, 4 e 5 riguardano i destinatari di parole franche e dirette – sovrani, demos ed élites – nella sfera che più interessa all’a. È la peculiarità politica e sociale di tali facoltà comunicative a motivare un esame che evita di focalizzarsi su ambiti come l’intimità e la famiglia, ma che analizza tracce e memorie del dire-vrai politico nell’età imperiale, tanto d’ambito pubblico quanto nelle interazioni fra sovrani e consiglieri (sovente rappresentanti del loro côté cittadino), fra corpo civico e classe dirigente (“buleutica”), e nelle relazioni all’interno di quest’ultima.

Kings: frankness to power prende le mosse dall’oratoria indirizzata a monarchi – da Isocrate, che si rivolse ai signori di Salamina di Cipro, fino a Dione Crisostomo e altri, più o meno larghi di consigli o di critiche – e disamina il cliché dell’invito ai potenti di fidarsi di consiglieri aperti e intelligenti anziché di adulatori. La franchezza al cospetto del tyrannos Domiziano, nella Vita di Apollonio di Tiana ultimata da Filostrato dopo il 217, ed episodi dalle Vite plutarchee di Dione e Alessandro, mostrano che la pazienza del regale ascoltatore e il coraggio del “parresiaste” dovevano far parte di un idealtipo comportamentale condiviso. Dēmos: rhetoric in post-classical city mostra che rivolgersi apertamente al corpo civico significava attendersi e attenersi ai medesimi codici, anche se, a volte, la tradizione sembra ritagliare per l’oratore un ruolo da pedagogo coraggioso del demos tyrannos. Focalizzato sul Come distinguere l’adulatore dall’amico di Plutarco, composto fra il 90 e il 116, Elites: hierarchy, oligarchy, and friendship osserva tradizioni sulle semantiche interpersonali di poteri ellenici coesistenti con quello di Roma fra politica e politesse.

L’ironia nelle opere di Luciano di Samosata è al centro del capitolo 6: essa emerge, su un doppio livello, come libertà di esprimersi ironicamente e trattamento ironico di chi usufruisce della parrhesia (o crede di farlo). Questo capitolo si discosta leggermente dall’andamento del libro fino a questo punto, oppure sottintende che il mondo caleidoscopico di Luciano contenga, sparsa fra operette e dialoghi, una sinossi delle dinamiche fin qui analizzate; propendo per quest’ultima possibilità.

Ho letto uno studio dotto e aggiornato, alla cui impostazione non critico l’assenza di riferimenti ad attestazioni della parrhesia in epigrafi e papiri: i parametri di lavoro (18-9) sono onestamente circoscritti e motivati, e l’interesse dell’a. per testimonianze letterarie che sostanziano i fatti narrati – Tolemeo V che invia veleno al precettore Aristomene per essere stato da questi messo pubblicamente in imbarazzo, come credeva Plutarco (155) – coglie un’unità interna, un’unità d’immagine circostanziabile tramite l’analisi delle prospettive autoriali e di tradizioni stratificate nella trascrizione, per nulla inattuale, del topos di una retorica non-retorica.