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Stefano Malpassi, “La «democrazia economica» americana”

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Stefano Malpassi, La «democrazia economica» americana. Alla ricerca di un ordine giuridico del mercato, tra cultura individualistica e tentazioni corporativistiche (1919-1939). Milano: Giuffré, 2022. 423 pp.

Il testo di Stefano Malpassi analizza e ricostruisce in modo dettagliato la rilevanza della relazione tra diritto ed economia per l’evoluzione dell’ordinamento giuridico statunitense tra Otto e Novecento. La caratteristica più preziosa di questo lavoro risiede tanto nella ricchezza delle fonti, quanto nella capacità di mostrare concretamente che solo uno studio interdisciplinare è davvero in grado di dare ragione a una realtà storica dove economia e diritto non potevano essere separati, né tra essi né dai discorsi politici circolanti. Si tratta di un approccio controcorrente rispetto al ritorno di una certa chiusura interna delle discipline nell’ambito della ricerca. Malpassi ricostruisce le trasformazioni istituzionali che hanno contribuito a dare forma alla democrazia economica americana, tenendo insieme una duplice prospettiva, storiografica e metodologica. Seguendo i percorsi di ricerca della global legal history e di quella che indica come “teoria comparata”, l’autore intesse un quadro tanto specifico e accurato dei contesti trattati, con una mole stimolante e ricca di fonti, quanto ampio e articolato, in grado cioè di evitare il ricorso a paradigmi di eccezionalità e impermeabilità della democrazia americana ai processi in corso al di là dell’Atlantico, ampiamente superati già da altre ricerche provenienti da ambiti disciplinari anche diversi. Il testo mira anzi a ragionare sulle contaminazioni tra le due esperienze, senza forzature, ma con un livello di teorizzazione necessario e fecondo circa i temi trattati.

Malpassi mostra come proprio dalle teorizzazioni dell’ordine del mercato tra le due guerre mondiali viene alla luce una critica dell’individualismo che non solo produrrà una mutazione cruciale del liberalismo, ma che apre alla possibilità di pensare e sperimentare nuove e diverse soluzioni istituzionali, alla nascita di teorie e dibattiti il cui punto di partenza polemico era simultaneamente giuridico, economico e politico. Queste teorie offrivano non solo nuove visioni della realtà storica in cui si sviluppano, ma costituivano proposte di trasformazione istituzionale e sociale.

Di fronte alla polarizzazione ideologica prodotta dalla guerra e dalla Grande depressione, il corporativismo non è l’opposizione all’ultra-individualismo, ma un discorso che offre la mediazione sociale necessaria a conciliare l’intervento pubblico e il nuovo protagonismo dello Stato, cui non si poteva semplicemente opporsi, e l’attribuzione di un nuovo ruolo sociale al mercato, all’iniziativa privata e alla concorrenza. Proprietà, libertà e interesse pubblico: una questione di “check and balances” è il titolo di uno dei paragrafi che nel primo capitolo (La “vera” fine del laissez faire) affronta la persistenza dei temi cruciali degli anni Venti alle soglie del New Deal, ovvero di un momento di sperimentazione caotica, com’è stata definita da Richard Hofstadter, ma anche di saturazione ideologica. L’interesse per il modello fascista, così distante dalla tradizione giuspolitica statunitense, si spiega nell’urgenza di trovare una gestione dell’economia «non più abbandonata alle passioni e agli interessi individuali ma guidata da una classe di “funzionari”, ampiamente qualificati e interessati più al progresso del Paese che a quello personale» (pp. 125-6). L’attenzione posta al «fermento intellettuale […] oltre le concrete realizzazioni istituzionali e i successi politici» (p. 20) permette di dare finalmente il giusto peso alla persistenza di tematizzazioni dell’ordine giuridico del mercato che non si esauriscono nella singolarità e nei limiti delle due esperienze. Corporativismo e New Deal vengono dunque riletti articolando insieme le questioni che i nuovi studi su queste esperienze hanno fatto emergere in tempi recenti. In questa direzione, il lavoro di Malpassi non si ferma a una mera comparazione ma, come rende esplicito il titolo del terzo capitolo, attua «una comparazione teorica», applicando «una teoria comparativa».

Nel secondo capitolo Malpassi ripercorre alcuni passaggi salienti dell’Early New Deal nei termini non solo di un insieme di politiche e provvedimenti più o meno efficaci, ma di «una storia di idee e progetti» che hanno avuto un impatto sull’evoluzione giuridica dell’ordinamento statunitense. È proprio questo approccio e l’analisi accurata di provvedimenti come il Banking Act del 1935, l’NRA, con la sua tensione tra una nuova filosofia sociale della cooperazione e la fascinazione per il fascismo italiano, e infine il conflitto giurisprudenziale tra concorrenza e business cooperation, che sanciva un nuovo approccio sociologico al diritto. Questo capitolo si conclude con un’analisi del rapporto tra l’esperimento profano della pianificazione e della regolazione statale e il tentativo di collaborazione tra business, labour, and government già iniziato nella Prima guerra mondiale. Malpassi rileva come tra queste diverse imprese non ne emerga una vincitrice, piuttosto emergono problematiche che avranno un lungo impatto, tra cui il fatto che alla fine del laissez faire nella sua antica forma non corrispondeva una radicale riforma del capitalismo che anzi, proprio sul piano giuridico, trovava la sua impalcatura più resistente (p. 231).

Nel terzo capitolo l’autore mostra come nella congerie di discorsi corporativi che nascono e si diffondono a seguito della crisi del ’29, si sviluppa «un versante transnazionale di ripensamento delle coordinate dell’ordine giuspolitico novecentesco» (p. 236). La Grande Depressione si presenta secondo Malpassi come una frattura che unisce, ovvero uno spazio in cui le riflessioni dei giuristi, provenienti da tradizioni giuridiche differenti, entrano in dialogo. A unire era la domanda comune circa la riforma del capitalismo e quindi il tentativo, specialmente sulle due sponde dell’Atlantico, di ripensare le forme dell’economia di mercato e quindi il rapporto tra Stato e società. C’è qui un’analisi originale e una sintesi articolata delle più importanti tendenze interne al dibattito corporativista italiano, ma anche degli enti e delle istituzioni che ne scaturiscono, delle leggi e delle diverse figure, come quella imprenditoriale, che si muovono al suo interno e incidono sulla revisione della produzione industriale, spesso distorcendone gli scopi iniziali. La via corporativa del governo dell’economia si scontrava con il regime che nei fatti governava al di fuori dei suoi dettami teorici. Un dibattito sulla denominazione degli enti pubblici, semipubblici, parastatali, o di società commerciali pubbliche nasceva mostrando una battaglia interna sulla ri-concettualizzazione dello Stato in economia. Anche la riforma del credito sarebbe diventata il terreno di innovazioni della dottrina giuridica circa il rapporto tra Stato, banca e industria.

Il libro di Malpassi ricostruisce quindi la storia, giuridica e teorica, di trasformazioni che investono il terreno economico, giuridico e politico e che non erano ancora state analizzate in un quadro così dettagliato e al tempo stesso inserite nel quadro complessivo di un dibattito, non solo italiano, sulla riforma dei rapporti tra economia e Stato. Questo approccio permette all’autore di arrivare alla “democrazia economica americana” come la storia di un processo, di un insieme di risposte più o meno efficaci o durature, a cambiamenti globali. Il New Deal, anche quando non era riuscito a imporre un unico modello di riforma, aveva sradicato l’individualismo competitivo come unico indirizzo della costituzione economica americana. Secondo Malpassi l’apporto teorico del corporativismo aveva contribuito a questo esito, avendo posto l’attenzione sulla «dimensione collettiva della società e dell’economia» (p. 412). Il fermento giuridico-culturale di quegli anni era responsabile della legittimazione anche costituzionale dei gruppi organizzati, con un impatto di lungo corso sull’indirizzo economico e politico degli Stati Uniti. Si può aggiungere, alla complessa analisi di Malpassi, che questa dimensione collettiva aveva però anche altre fonti sia interne, legate cioè ai movimenti sociali e agli scioperi industriali, sia esterne, derivanti dall’impatto che l’ideologia sovietica aveva avuto al livello transnazionale e in particolare negli Stati Uniti, dove l’anticomunismo era diventato il terreno per misurare gli aggiustamenti necessari che il liberalismo doveva assumersi per far fronte alla minaccia comunista.