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Dibattiti

L'eredità di Gerda Taro

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L’iniziativa di pubblicare in italiano la biografia di Gerda Taro (al secolo Gerta Pohorylle) va collocata in un più ampio riconoscimento internazionale e istituzionale di questo approfondito studio di Irme Schaber, dal quale è scaturita ad esempio l’iniziativa della recente mostra all’International Center of Photography di New York, curata dalla stessa Schaber assieme a Richard Whelan (biografo di Robert Capa e curatore del Capa Archive dello ICP, nonché storico della fotografia). In questa occasione è stato edito un catalogo che riproduce per la prima volta le circa 200 fotografie e negativi scattati da Taro e custoditi nel fondo Capa presso l’ICP[1].
L’interesse verso questa figura e la sua opera è senza dubbio trasversale, come ha sottolineato nella prefazione Elisabetta Bini: la biografia di Gerda Taro si intreccia con uno dei periodi più intensi della storia del Novecento in Europa. Inoltre è una storia al femminile (nella tradizione quindi della storia di genere) che affronta l’identità  ebraica (un’ulteriore peculiarità e qualità, nel confronto con l’antisemitismo, tra destini collettivi e scelte individuali), la militanza antifascista e, infine, il mondo del nascente fotogiornalismo a Parigi, che si confronterà con la Guerra civile spagnola, la prima guerra a forte impatto mediatico.
Il ricco apparato di note conferma l’impegnativa ricerca dell’autrice nel restituire, per quanto possibile, un racconto plausibile della vita di Gerda Taro, sottraendola all’oblio o alla strumentalizzazione subita come donna/moglie di Capa da un lato, o martire del Partito comunista francese dall’altro (saranno in 100.000 al suo funerale, attratti da una comune forte commozione). Guidata dalle poche tracce rimaste e armata di una forte riflessione metodologica, la Schaber ha condotto una vera e propria indagine, scoprendo e utilizzando in modo articolato fonti differenti e spesso inedite, comprese quelle orali. A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 sono stati rintracciati in varie parti del mondo quanti, ancora viventi, avevano effettivamente conosciuto la Taro. Le loro testimonianze (rese ancora più preziose dal fatto che molti degli intervistati sono nel frattempo morti per raggiunti limiti d’età) sono state valutate scrupolosamente:

«Ho chiesto loro di avvenimenti, di amici e conoscenti, della vita quotidiana di oltre mezzo secolo fa. Abbiamo portato alla luce frammenti, porzioni di sentimenti, speranze e paure. Ho fatto domande irritanti e ricevuto risposte che mi irritavano – ci sono risposte? La memoria è modellata e deformata dalla vita che si è continuato a vivere, dalla sopravvivenza. Cinquant’anni dopo ha anche questo a che fare con Taro. Non è dato avere certezze».

Pur delimitando “il caso Taro” nell’ambito della fotografia, gli argomenti stimolati dalla sua biografia sono tanti e di grande interesse. Cercherò di circostanziarne alcuni, secondo una prospettiva “professionale”, legata al mio mestiere di giornalista photo-editor e conoscitrice della fotografia e della sua storia.
Parigi, ad esempio, dove Taro imposta la sua professione di fotografa, nel primo Novecento e in particolare degli anni ’20-30 vede la presenza di diverse figure femminili impegnate nella fotografia. Tra queste la fotogiornalista Germaine Krull, di tredici anni più vecchia di Taro, polacca di nascita e tedesca di formazione (in Germania eserciterà il mestiere di ritrattista dal 1919). La sua militanza comunista la porterà prima a Berlino, poi in Olanda e quindi a Parigi, dove lavorerà come fotografa fino al 1937. In seguito, via Rio de Janeiro (riconosciuta meta dell’emigrazione antinazista), si sposterà a Brazzaville, nell’Africa equatoriale, dove sarà responsabile del servizio fotografico della Francia Libera, e nel dopoguerra lavorerà in Asia fin quasi alla fine della sua vita. A differenza di Taro le sue tracce non sono andate perdute, sia per la sua longevità (morirà nel 1985) e produttività quindi, sia per aver scritto un’autobiografia, tradotta in Italia da Giunti nel 1992[2].
Se guardiamo alle donne presenti nelle varie storie della fotografia, notiamo quanto l’attenzione si sposti maggiormente sull’elemento biografico (spesso preda di mitizzazioni) che sulla produzione fotografica, quasi non fossero in grado loro stesse di sostenere la loro spesso originale esistenza. A questo proposito, intrecci e similitudini rintracciabili nel confronto tra le biografie di Gerda Taro e della più nota Tina Modotti (emigrazione, bellezza, il fotografo/amante che le introduce al mezzo, passione politica e amori militanti, presenza nella Guerra civile spagnola, morte improvvisa) potrebbero rinforzare ovvii stereotipi, ma la Schaber, nell’ipotesi non verificabile ma plausibile che si siano incontrate in Spagna, non dà per scontato che avrebbero simpatizzato, se non altro in considerazione della scelta maturata dalla Modotti di abbandonare la fotografia a favore di un impegno più diretto (in Spagna sarà assistente sanitaria nelle retrovie). Secondo l’autrice, Tina Modotti, in quanto artista, non sentiva la macchina fotografica come mezzo militante e io credo che questo possa essere sostenuto: le fotografie della Modotti dei contadini messicani, delle donne e dei bambini, come pure gli still-life più “militanti” (la falce e la cartucciera, la macchina da scrivere), sono innanzitutto esempi straordinari di grazia formale, sensibilità umana e qualità fotografica, all’interno di un processo artistico, prima ancora che di comunicazione.
Non parlerei invece di opera artistica guardando l’insieme delle immagini prodotte da Gerda Taro. Artistico è piuttosto il percorso della sua esistenza, nella ricerca della propria identità e  dell’espressione della propria visione politica. Se la frequentazione dei circoli del Quartiere Latino e le discussioni politiche sembrano costituire la sua nuova “famiglia”, in cui matura ulteriormente la propria consapevolezza politica, sarà l’incontro con Andrè Friedmann (il futuro Robert Capa) a permetterle di esprimere, attraverso la fotografia, quelle qualità che le consentiranno di emergere in un ambito fortemente maschile, contribuendo in modo determinante e conseguente a far emergere anche il suo compagno.
Questa biografia ci restituisce, con luci e ombre, una personalità femminile complessa, alimentata da una forte voglia di riscatto e senza dubbio dotata di un’immagine di sé moderna, consapevole delle proprie capacità seduttive. Stando alla ricostruzione della Schaber, la Taro riuscì ad esercitare una sorta di potere nei confronti del mondo circostante, sia nella realtà senza dubbio poco favorevole degli anni della sua adolescenza, sia in quella decisamente molto competitiva della Parigi che l’accoglie in fuga dalla Germania nazista. Utilizzerà armi femminili come la bellezza e l’estroversione (viene ricordata da più testimoni come una donna estremamente divertente) certo, ma saranno la sua capacità di muoversi nel nuovo mondo della stampa francese affidandosi al proprio intuito, accanto a una rapidità di comprensione accompagnata da una fortissima determinazione e volontà di testimoniare (come vedremo in occasione della Guerra civile in Spagna), a farla emergere tra gli altri. Qualità importanti ancora oggi nell’esercitare il mestiere di fotogiornalista.
Infatti la sensibilità di Gerda Taro è principalmente giornalistica, anzi con una particolare attitudine verso gli strumenti della comunicazione. Basti pensare all’espediente – di grande successo – dei nomi d’arte “Robert Capa” e “Gerda Taro” da lei inventati, e al fatto che la sua produzione fotografica, dove potrà esprimere la sua militanza tanto quanto se stessa, sarà appunto al servizio della propaganda politica. Il capitolo su di loro non indulge sul rapporto amoroso, piuttosto verifica attraverso numerose e diversificate fonti quanto Taro sia stata l’artefice del personaggio Capa e quale influenza abbia avuto sul futuro grande reporter, che la ricorderà sempre come il grande amore della sua vita. E ancora come lei lo abbia utilizzato per affermarsi in quel mondo dell’informazione in parte a lei già noto: promuovere i reportages fotografici del compagno, farne l’editing, e imparare al tempo stesso a stare dietro la macchina fotografica è senza dubbio prova di grande carattere. In modo fertile utilizzerà le informazioni ricavate dal lavoro di assistente svolto nell’agenzia Alliance Photo (procuratogli da Capa) per capire il mercato, cercando con molti sforzi di mantenere una propria autonomia. È anche questo un aspetto creativo della sua personalità.
Il primo tesserino da giornalista Gerda Taro lo ottiene nel febbraio 1936 e il 18 luglio il golpe militare in Spagna darà inizio alla guerra civile: si licenzierà immediatamente da AlliancePhoto per partire con Capa, presumibilmente avendo già un’esperienza di scatti fotografici alle spalle e accordi presi con la stampa francese. Ma non saranno gli unici reporters: la Guerra civile spagnola è stata la prima guerra moderna “coperta”, ossia documentata, dai giornalisti della stampa internazionale e da numerosi fotografi professionisti inviati in prima linea e nelle città bombardate, i cui scatti verranno pubblicati su quotidiani e periodici sia in Spagna che all’estero. Gerda Taro è una corrispondente donna, tra le prime in prima linea.
È questo delle donne corrispondenti di guerra un altro interessantissimo argomento di studio. Guardando agli Stati Uniti ad esempio, a cavallo del secolo il movimento delle suffragette aveva aperto la strada anche alla presenza femminile nell’informazione: troviamo donne fotografe americane in relazione alla guerra civile spagnola (come Anna Benjamin) e precedentemente sul fronte europeo della prima guerra mondiale. È interessante il dato rilevato dalla Library of Congress in occasione della mostra Women come to the Front: «Per le donne giornaliste la seconda guerra mondiale offrì nuove opportunità professionali: almeno 127 donne americane vennero accreditate come corrispondenti di guerra, se non addirittura per assignments sul fronte».
Tra le fotoreporter vengono citate tra le altre Dorothea Lange (nota per il lavoro svolto per conto della FSA) e Mary Craig (della quale si riporta con enfasi tutta americana: «The war has given women a chance to show what they can do in the news world, and they have done it well»)[3]. La fotografa più conosciuta in relazione alla seconda guerra mondiale è senza dubbio Lee Miller. Entrata nel mondo della fotografia a New York come modella di Edward Steichen e di altri, è anche lei a Parigi nel 1929 come assistente di Man Ray dove matura nell’ambiente surrealista (sposerà in seguito Roland Penrose) suggestioni che riporterà nella fotografia di moda e nel ritratto, collaborando con la prestigiosa rivista «Vogue» una volta rientrata negli USA. Ciò nondimeno nel 1944 verrà accreditata dalla US Army, tra le pochissime donne sui campi di battaglia europei. Ricordiamo, tra le altre, le sue fotografie dell’assedio di Saint Malò, la liberazione di Parigi, la liberazione dei campi di Buchenwald e Dachau, accanto a quelle realizzate sui traumi dei civili alla fine della guerra.
Spostandoci sul contemporaneo, la presenza femminile nel particolare settore del fotogiornalismo di guerra è andata confermandosi. Basti ricordare tra le altre: Susan Meiselas, che una volta entrata nell’agenzia Magnum Photos ha dedicato un anno di lavoro alla rivoluzione nicaraguese nel 1978-79; Carol Guzy, corrispondente del «Washington Post» e vincitrice di alcuni prestigiosi premi, come il World Press Photo per sue foto della crisi di Haiti del 1995; Alexandra Boulat, co-fondatrice della motivata agenzia indipendente “VII”per i suoi approfondimenti nella ex-Yugoslavia, in Iraq e soprattutto in Palestina, dove è stata colpita da un fatale aneurisma cerebrale nel 2007. La Boulat faceva anche parte del gruppo War Photo Limited, nato per sensibilizzare il pubblico (soprattutto i giovani delle scuole e delle università) sul tema della guerra, attraverso il dibattito provocato dalle loro proposte di mostre, tra le quali Women War Photographers, appunto. Le numerose interviste disponibili in reteinducono a riflettere su quanto decidere di fare questo particolare mestiere sia per le donne anzitutto una scelta di vita, spesso in conflitto con la maternità e la famiglia ad esempio, anche se Dyana Smith (vincitrice del WPP 1999-Foto dell’anno: funerale in Kosovo) ritiene che i suoi lavori migliori siano successivi alla nascita dei figli «per una maggiore sensibilità e pietà, anche se questo mi ha resa meno temeraria». Allo stesso tempo emerge, nel particolare ambito della fotografia di guerra, l’interesse per l’aspetto umanitario e le ricadute dei conflitti sulla popolazione civile e viene spesso sottolineato dalle intervistate quanto la propria sensibilità ed emotività sia al servizio della professione. È da segnalare infine come ancor oggi, nel 2008, la gran parte delle domande a loro rivolte riguardino il rapporto con questo “mestiere da uomini”, segno inequivocabile della differenza!
Altro argomento affrontato nel libro di Schaber riguarda le questioni, ben descritte e interessantissime per la storia del fotogiornalismo, relative alla gestione dei copyrights delle fotografie prodotte dalla coppia e alla loro distribuzione internazionale, nonché alla loro utilizzazione da parte della stampa e i problemi del loro utilizzo e didascalizzazione, e il più generale tema dell’uso strumentale dell’informazione visiva ai fini della propaganda. A questo proposito, il tema sempre aperto della veridicità del documento fotografico messo in discussione dalle discutibili pratiche di “regia” nei teatri di guerra, ha coinvolto lo stesso Capa con la sua foto più celebre – quella del miliziano caduto realizzata in Spagna in questo stesso periodo – che non è stato risparmiato dai sospetti. Solo la recentissima restituzione della valigia, scomparsa ai tempi e ritrovata in Messico, contenente materiali di Capa (e anche in minima parte di Taro) sembrerebbe definitivamente fugarli. E questo darà un nuovo e importante impulso agli studi della Schaber, già coinvolta nell’expertise dei materiali.
«Se le foto non sono abbastanza buone è perché non si è abbastanza vicini». La celebre frase di Robert Capa viene citata nel libro per sottolineare come l’andare in Spagna sia per entrambi una scelta di solidarietà, di vicinanza morale, politica oltre che fisica, declinata anche in scelta formale: questa è la vera eredità che Gerda Taro, attraverso Capa, lascia a noi della sua breve esperienza di fotoreporter. Irme Schaber descrive in modo approfondito l’evolversi dello stile fotografico di Gerda Taro nelle varie fasi della guerra, quando all’entusiasmo si sostituisce il sentimento della sconfitta: le sue inquadrature (e questo è presente anche in Robert Capa) si stringono sui protagonisti/vittime, privilegiando nel racconto l’individuo. Guardando con attenzione le fotografie pubblicate nel libro, la mia impressione è che effettivamente sia riscontrabile una crescita della Taro fotografa sul campo della guerra civile spagnola. Il primo gruppo di fotografie realizzate nell’estate del 1936 sono molto semplici, dilettantesche direi. Si nota come una mancanza di dominio delle situazioni e dei soggetti, che si presentano ammiccanti e rinvigoriti dalla presenza della giovane fotografa. Molto rapidamente però le immagini si fanno più attente sul piano formale e la forte connotazione propagandistica sembra più consapevolmente costruita e controllata. Un esempio è la fotografia scelta per la copertina del catalogo della mostra dell’ICP: una giovane repubblicana, che si esercita sulla spiaggia di Barcellona nell’agosto del 1936, viene ripresa di profilo, inginocchiata con la pistola in pugno e protesa in avanti. Unica nota femminile, assolutamente seducente: le sue scarpe con il tacco. Di certo Gerda si è riconosciuta in quella donna combattiva eppur femminile e per questo l’ha fotografata, forse mettendola in posa, intuendone la forte valenza comunicativa.
Quando la guerra entra nella sua fase più drammatica Gerda cambia sguardo e abbandona la Rolleiflex per la più agile Leica, con la quale realizza, nel corso del 1937, le fotografie senza dubbio più inquietanti e che ebbero maggiore spazio nella stampa dell’epoca: le città distrutte, i rifugiati,  il fronte, i combattimenti, le vittime e la loro resistenza. Parallelamente crescono il suo antifascismo e l’urgenza di essere presente nel ruolo di testimone solidale, accanto alla pressione di rispondere alle richieste della stampa di sinistra con la quale collabora e forse, aggiungo io, per continuare a garantirsi una propria visibilità. Cresce senza dubbio il suo coraggio a sprezzo del pericolo, forse il suo esibizionismo, fino a mettere in gioco la propria vita sul fronte di Brunete. E la perderà, per un banale incidente durante una drammatica ritirata.
L’esperienza della fotoreporter Taro è stata quindi molto breve e si è svolta in un unico teatro di guerra. Ma, accanto al suo esempio di donna, che certo rappresenta l’aspetto per la quale è stata dimenticata e oggi viene ricordata, vorrei segnalare quanto esemplare e pionieristica sia stata la sua esperienza nella fotografia di guerra. Possiamo delineare, attraverso il libro della Schaber una sorta di eredità lasciata a Robert Capa, e da lui elaborata fino al 1954, quando sarà ucciso in guerra, anche lui, in Indocina. Emergono circostanze significative del ruolo di Gerda Taro nella coppia: la sua decisione di tornare in Spagna da sola per continuare a documentare e testimoniare, il distacco anche amoroso per poter assumere in prima persona questa urgenza, esprimono la necessità di essere nel momento estremo del conflitto accanto ai protagonisti, condividendone l’assurdità e restituendo attraverso le fotografie - specialmente le ultime si fanno più scomposte e coinvolgenti - l’individuo, dalle aspirazioni ideali alla vulnerabilità più carnale. Robert Capa, segnato dalla perdita della Taro, diventerà il più grande fotografo di guerra della sua epoca. Il titolo della sua autobiografia uscita nel 1947, Slightly out of focus, propone una chiave di lettura della sua personalità, ma è anche una dichiarazione di stile fondata su un limite tecnico, il fuori fuoco, che aggiunge un forte valore emotivo all’immagine fotografica, provocando in chi guarda una maggiore partecipazione. Uno stile di ripresa quanto mai attuale, che lo conferma  punto di riferimento imprescindibile della storia del fotogiornalismo nei luoghi di crisi[4].
Per concludere sul contemporaneo, di fronte a una platea sempre meno empatica e partecipe - si dice anestetizzata nei confronti del «dolore degli altri» (citando così il bel libro di Susan Sontag del 2003 sulla rappresentazione pittorica e fotografica della guerra Davanti al dolore degli altri, uscito successivamente alla stesura della biografia di Taro) – possiamo riconoscere nel fotogiornalismo attuale le tracce, spesso purtroppo solo formali, dell’insegnamento di Robert Capa e quindi di Gerda Taro: per amplificare la drammaticità del momento si ricorre al mosso, all’esposizione non corretta, all’out of focus,alle deformazioni grandangolari (un obiettivo, questo, che non esisteva nel 1936). A volte sono solo espedienti, per contrastare formalmente l’invadenza dell’immagine televisiva[5].
Nel migliore dei casi invece, è un segno di questo nostro tempo di crisi della Politica che la comunicazione della sofferenza nelle zone di conflitto avvenga attraverso una visione individualistica, esaltante delle proprie sensazioni, rispondendo così ad una necessità essenzialmente espressiva del fotografo-testimone. As I was dying è l’eloquente titolo dell’ultimo libro-progetto di Paolo Pellegrin, tra gli esempi viventi più autorevoli del fotogiornalismo estremo, protagonista di numerosi  riconoscimenti e premi internazionali. Il libro raccoglie le immagini realizzate in più di dieci anni nei teatri di guerra, dal Kosovo al Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq. Proveniente da una formazione improntata su una forte attenzione ai valori estetici e formali della visione e alla loro resa in fotografia, Pellegrin esprime un approccio vincente del fotogiornalismo contemporaneo di guerra. La qualità della sua fotografia infatti, fortemente emozionale e sbilanciata nel suo controllatissimo disequilibrio, in un b/n dai forti contrasti costruito dai fuori fuoco, da ombre e colpi di luce oppure adottando un punto di vista estremamente ravvicinato fino quasi a sostituirsi ai suoi stessi soggetti o proponendo visioni laterali alla scena (quasi uno sguardo in fuga), pur sollevando obiezioni riguardanti appunto la strumentalizzazione del dolore degli altri, riesce “a dare voce” e ottiene quindi ascolto da noi tutti. L’esito è una fotografia sapiente, con un valore aggiunto: “l’odore” del momento di crisi direttamente vissuto e condiviso con le vittime, As I was dying appunto. Ed è proprio questo essere in prima linea che Gerda, in modo pionieristico e quindi in parte anche ingenuo, ha sperimentato nel 1937, settanta anni fa[6].

[[figure caption=">Gerda Taro, [Republican militiawoman training on the beach, outside Barcelona], August 1936, Gelatin silver print © International Center of Photography."]]figures/2008/fugenzi/fugenzi_2008_01.jpg[[/figure]]

Note

[1] R. Whelan, I. Schaber, K. Lubben (eds.), Gerda Taro, New York, ICP/Steidl, 2007.

[2] G. Krull, La vita conduce la danza, Firenze, Giunti, 1992.

[4] R. Capa, Slightly Out of Focus, New York, Henry Holt, 1947.

[5] S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Milano, Mondadori, 2003.

[6] P. Pellegrin, As I was dying, Milano, Peliti Associati, 2007.