Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Il terremoto di Messina e la ricostruzione del palazzo dell’Università: intervento statale, poteri locali, processi identitari

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Abstract

The essay relates the events of the long and complex reconstruction of the city of Messina after the catastrophic 1908 earthquake which destroyed its urban and social structure, by following the different phases and emphasizing both the contribution of the State and of private individuals. The reconstruction of the University building, in the general context of fascist Italy, is emblematic both of that long reconstruction and new political balances within the city.

Messina post-terremoto, una ricostruzione “difficile”.
Qualche considerazione introduttiva

La ricostruzione edilizia post-terremoto, che è possibile scandire in almeno tre diversi periodi storici [1], avviava per la città di Messina una nuova fase del suo sviluppo economico e sociale, non più centrata, come era stato per il passato, sulle attività del grande commercio e, in parte, su quelle di trasformazione dei prodotti dell’agricoltura specializzata [2], ma sull’impiego dei fondi pubblici e sui redditi prodotti nei diversi settori del terziario (commercio al dettaglio, servizi, impiego pubblico e privato, attività da professioni liberali) [3]. Deve qui evidenziarsi tuttavia come, su tali esiti, abbiano influito pure sia il progressivo mutare, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo, della congiuntura economica internazionale, sia le stesse condizioni strutturali del sistema produttivo locale.

Certo è che il terremoto, sotto il versante dell’intervento statale, che qui ci interessa più da vicino, ha dato luogo a una lunga fase di ricostruzione a cui i governi nazionali hanno destinato una parte consistente di risorse finanziarie – orientandole quasi esclusivamente a vantaggio dei lavori edilizi – senza un’adeguata programmazione degli interventi a favore del sistema produttivo nel suo complesso.

Tale scelta, largamente condizionata dalle esigenze del consenso e dagli interessi dei gruppi finanziari e speculativi legati alle imprese di costruzione e/o affini al settore, sembra aver prodotto almeno due conseguenze, negative, importanti: da un lato, i finanziamenti statali hanno finito per scoraggiare le iniziative e la capacità d’intrapresa autonoma della società locale nei settori produttivi diversi da quelli collegati al settore edilizio, e/o a quelli affini, incidendo, peraltro, significativamente sull’autonomia politica degli individui (Bavetta et al. 2008); dall’altro, l’impostazione di tipo emergenziale dei provvedimenti e degli interventi adottati si è tradotta in una sorta di assistenzialismo che, con sempre maggior pregnanza nel corso degli anni, ha incoraggiato le politiche di tipo clientelare, le quali hanno preso via via il sopravvento, spingendo gli amministratori locali a utilizzare le provvidenze statali in una logica che è assomigliata più a quella dell’emergenza che non a quella dello sviluppo [4].

Gli strumenti normativi e gli enti preposti alla ricostruzione

Le tappe del processo qui appena descritto in estrema sintesi possono leggersi nello sviluppo problematico degli strumenti normativi predisposti per l’intervento a favore della ricostruzione sin dal suo inizio e nel successivo tentativo del locale ceto dirigente di controllarne gli esiti. Dopo le prime incertezze e i progetti radicali di non riedificare più la città nello stesso sito naturale [5], il Parlamento, nella seduta del 12 gennaio 1909, emanava la legge n. 12, «Portante una serie di provvedimenti e di disposizioni in seguito al terremoto del 28 dicembre 1908», con la quale dava seguito finalmente alla ricostruzione della città. Si assegnava uno stanziamento di 30 milioni di lire per la realizzazione delle prime opere d’urgenza (Longo 1933, 24-5; Mori 1917, 4) e, cosa più importante, si stabiliva di concedere ai proprietari danneggiati dal terremoto (privati, istituti di beneficenza, di istruzione e di educazione) speciali diritti a mutuo ipotecario, prevedendone l’erogazione «da parte delle casse di risparmio, degli istituti di credito fondiario e degli istituiti ordinari e cooperativi di credito […] al saggio d’interesse non superiore al 4%, ammortizzabili in trent’anni e rimborsabili col sistema delle semestralità costanti, comprendenti l’interesse e l’ammortamento, col concorso dello Stato» che avrebbe pagato la metà delle quote semestrali, aumentate di un decimo così da poter attenuare le eventuali perdite degli istituti mutuanti (Calogero 2008). Si dava corso dunque a una legislazione attraverso cui lo Stato avrebbe sostenuto la metà dei costi a carico dei proprietari nei comuni danneggiati. Così come era già accaduto nel passato, dopo il terremoto del 1783 (Placanica 1982; 1985), i superstiti trovavano in questa prima fase sistemazione nelle baracche di legno [6].

Come prevedeva la legge, a maggio l’amministrazione comunale affidava il compito di redigere il nuovo piano regolatore della città all’ingegnere Luigi Borzì, direttore dell’Ufficio tecnico comunale, per approvarlo quasi due anni dopo il 31 dicembre del 1911 (Borzì 1912) [7]. In estrema sintesi, al netto delle difficoltà di ordine tecnico dovute per esempio alla perdita di tutte le planimetrie precedenti e alla mancanza dei dati sulla consistenza della popolazione (Longo 1933, 138), quello redatto dall’ing. Borzì era un piano regolatore che non introduceva nel nuovo progetto urbano di Messina alcun particolare elemento di novità, rispondendo quasi esclusivamente a un’esigenza “igienista” (rispetto rigoroso delle leggi antisismiche e strutturazione della rete dei servizi igienici); nel mentre, prevedeva l’ampliamento dei confini della città “vecchia” verso nord e verso sud [8] (Ioli Gigante 1986, 145), trascurando quasi del tutto le previsioni legate all’insediamento dei nuovi fatti produttivi, di modo che i richiami «alle industrie ai commerci, agli scambi nello Stretto, alle comunicazioni ferroviarie», pur presenti nelle intenzioni dei proponenti, sembravano sbiadire di fronte alle urgenze del costruire (Campione 1988, 62-4).

Una volta chiusa la partita del piano regolatore, era il nuovo provvedimento normativo del 13 luglio 1910 n. 466 (la cosiddetta legge Fulci) a disciplinare l’imponente opera di riedificazione della città. Si trattava di una serie di misure che integravano e modificavano la normativa precedente, ma che erano destinate a loro volta a essere cambiate, quando non assolutamente trasformate rispetto alla ratio originale, soprattutto nella parte relativa all’ente preposto alle operazioni di ricostruzione [9]. L’idea, semplificando di molto, era quella di istituire un unico soggetto, l’Unione messinese dei danneggiati del terremoto, che si sarebbe sostituito ai singoli proprietari nel caso in cui questi ultimi fossero stati inadempienti.

All’Unione sarebbero stati dunque assegnati in proprietà gli immobili danneggiati o le aree edificabili, con il relativo diritto ad accendere i mutui di favore nel caso in cui i proprietari non avessero deciso di edificare o procedere alle riparazioni in proprio entro un certo lasso di tempo.

Al contempo, ai proprietari veniva concessa la possibilità di esercitare più liberamente alcune facoltà, cioè di disporre in certa misura del proprio diritto al mutuo di favore; di vendere le aree con annesso il diritto a mutuo; di ricostruire, a certe condizioni, i nuovi edifici su aree diverse da quelle originarie, purché nell’ambito del territorio dello stesso Comune [10].

Nel giugno del 1914, tuttavia, all’Unione veniva affiancata una speciale azienda municipalizzata, che avrebbe dovuto occuparsi della gestione delle aree comunali soggette a sbaraccamento, dei terreni destinati alla creazione di una zona industriale e della costruzione delle abitazioni popolari a uso degli impiegati comunali. Subito dopo, le attività dei due enti furono unificate nell’Unione Edilizia Messinese, che manteneva al suo interno due sezioni: un’Azienda propria (ex Unione dei danneggiati) e un’Azienda separata (aree comunali, baracche e zona industriale) [11] (Barone 1981, 52).

Dopo il terremoto della Marsica del 1915, con decreto legge 4 febbraio 1917, n. 151, l’ente messinese era infine trasformato in un istituto pubblico speciale, l’Unione Edilizia Nazionale, diventando il maggiore organismo di pianificazione del territorio a livello nazionale. Le sue attività furono estese a tutti i territori danneggiati da terremoti e, successivamente, alla costruzione di case popolari a Roma e Napoli. Svincolato da qualunque forma di controllo parlamentare – secondo criteri tipici del produttivismo nittiano – e dotato di larghi poteri decisionali, il nuovo ente, dal compito originario di ricostruzione di edifici privati, assumeva quelli di esecuzione di opere per conto dello Stato e di altri enti pubblici e di costruzione degli alloggi popolari, aumentava il proprio capitale sociale (attraverso la graduale devoluzione dei diritti a mutuo da parte di privati e i contributi del Ministero del Tesoro per le opere pubbliche), e aveva la possibilità di scontare i titoli nel proprio portafogli presso la Cassa Depositi e Prestiti.

L’esigenza di decentramento territoriale delle competenze spinse però ben presto il governo a istituire, presso ogni sede principale, un consiglio speciale composto da un direttore e quattro componenti. In tale ambito, l’importanza attribuita alla sede messinese (che era tra le prime a partire nel 1919) giustificava una composizione diversa dei vertici, rafforzata anche con l’aggiunta, al membro nominato dal Comune, di un rappresentante della Provincia e della Camera di Commercio (ivi, 54-5; Noto 2008, 230-4). Nel corso degli anni la tendenza ad ampliare, attraverso il varo di una legislazione d’emergenza [12], le competenze e le disponibilità finanziarie dell’ente preposto alla ricostruzione ne aveva rilanciato il ruolo; a questo punto l’Azienda propria e l’Azienda separata della sede messinese dell’Unione Edilizia Nazionale avevano, infatti, il monopolio quasi assoluto degli appalti edilizi e delle abitazioni popolari, divenendo lo strumento prediletto di confronto del blocco sociale di potere.

La “ricostruzione” del blocco di potere urbano

La volontà dei notabili locali di controllare le leve della ricostruzione appare l’elemento più visibile della politica cittadina ma anche quello di maggior debolezza, condizionato com’era dai vari gruppi d’interesse secondo una strategia che portava gli esponenti politici, espressione del collegio, e gli amministratori locali ora a dividersi, ora a ricomporsi, cercando sostegni od opponendosi, a seconda delle circostanze e delle convenienze, al governo centrale.

La sola richiesta comune a tutto il ceto dirigente messinese sembrava essere la ferma opposizione (con motivazioni diverse) ai tentativi di ingerenza dei tecnocrati settentrionali negli affari del terremoto. In ciò può leggersi, prevalentemente, lo sfaldamento progressivo, subito dopo le elezioni politiche del 1909, del blocco fulciano che aveva egemonizzato sino allora la scena politica cittadina [13] (D’Angelo 2007, 222) e l’affermazione, alla successiva tornata di elezioni politiche del 1913, del social riformista Giuseppe Toscano il quale riusciva ad aggregare attorno a sé, anche nella competizione amministrativa, il maggior numero di consensi e di politici disposti a farsi avanti per sostituire il gruppo radical democratico messo in piedi dai Fulci nel controllo degli istituti preposti alla ricostruzione.

Il tentativo di Toscano di egemonizzare la vita politica locale e scalare i vertici dell’Azienda separata dell’Unione edilizia aveva però vita breve a fronte dei nuovi processi di riaggregazione politica dei notabili messinesi attorno alla Democrazia sociale di Colonna di Cesarò, cioè di uno schieramento ben più articolato e dotato di reti di relazioni estese e diffuse con il centro del sistema politico più di quanto non potesse disporre la coalizione liberalriformista messa in piedi da Toscano, che pure poteva contare sul sostegno di una parte degli interessi locali. Il disegno di Fulci di sostituire i vertici dell’Azienda separata poteva così concretizzarsi mentre, appena entrato nel gabinetto Facta, al dicastero delle Poste, il fratello Luigi imponeva lo scioglimento del Consiglio Centrale dell’Unione Edilizia e di entrambi i consigli locali di Messina.

Si era già negli anni di transizione dal regime liberale italiano al fascismo, e in tale quadro il ruolo di leadership svolto dai demosociali a Messina aveva modo di emergere grazie anche alla qualità e alla consistenza di un gruppo dirigente capace di perseguire una strategia che, pure condizionata quanto si vuole dagli interessi messi in moto dalla ricostruzione della città, era in grado, comunque, di sviluppare una linea di condotta autonoma, se non indipendente, dai propositi di fascistizzazione e di controllo delle “periferie” come era nelle intenzioni di Mussolini.

Nel I governo fascista era, infatti, il catanese Gabriello Carnazza, come ministro dei Lavori Pubblici, assieme al Di Cesarò, al dicastero delle Poste, a rappresentare gli interessi della Democrazia sociale. La deputazione demosociale messinese (Di Cesarò, Fulci, Faranda, Gentile, Stancanelli, Crisafulli Mondio) poteva così riappropriarsi degli strumenti di controllo delle attività edilizie, e trovava una sponda favorevole in un primo momento in Carnazza.

A questo punto sembrava che il neoricostituito blocco di potere urbano avesse tutti gli strumenti per controllare le leve del potere locale e “guidare” il processo di ricostruzione edilizia della città, anche se a breve i fatti avrebbero dimostrato che il fascismo non era disposto così facilmente a cedere o a demandare ad altri il controllo del consenso. Per di più lo schieramento demosociale sarebbe rimasto privo dell’appoggio di Gabriello Carnazza, la cui decisione di aderire al fascismo rispondeva a una logica diversa da quella dei colleghi messinesi; vi era da una parte l’idea di sottrarre ai demosociali uno strumento essenziale di controllo ed egemonia locale (l’Unione edilizia), dall’altra, la possibilità di favorire i gruppi del capitalismo industriale e bancario nazionale interessati agli affari della ricostruzione (Barone 1979; 1981, 61; 1986).

Ad ogni modo, i propositi di affidare la ricostruzione edilizia alle imprese settentrionali rispondevano a un criterio e a una logica meno localistica, che teneva nel giusto conto le soluzioni e i canoni edilizi più moderni. E, d’altra parte, l’intervento del capitale finanziario settentrionale, se pure avrebbe scardinato «la rete di rapporti delegati dal centro alla periferia su cui il blocco delle classi dominanti aveva costruito la propria egemonia» (Barone 1986, 81), non era tuttavia immune dal difetto di creare opportunità d’investimento assistite dallo Stato in una logica dell’emergenza e attraverso l’attivazione di un circuito entro cui il confine tra l’interesse privato e quello pubblico finiva inevitabilmente per divenire molto “mobile”.

Che occorresse intervenire per ridare vigore all’opera di ricostruzione in città era del resto un dato incontrovertibile, così come altrettanto evidenti erano i rallentamenti nei lavori che potevano addebitarsi alle inefficienze dell’Ente di ricostruzione e alla sua difficile situazione di indebitamento finanziario. La contestazione del “soldino” tra il maggio e il giugno del ’23, che era stata appoggiata da tutte le forze politiche cittadine (liberali, radicali, riformisti, demosociali, socialisti), era in fondo anche il risultato della cattiva gestione dell’emergenza abitativa a cui il governo non aveva dato risposta, lasciando ancora migliaia di persone nelle baracche e che i demosociali avevano cavalcato attraverso un’abile campagna di stampa nella quale erano riusciti a mettere in relazione le difficoltà dei lavori di ricostruzione all’intenzione di Carnazza «di liquidare l’Unione edilizia a vantaggio dei gruppi finanziari settentrionali» (Barone, 1982, 70).

Lo scontro tra i notabili demosociali e il fascismo sullo specifico terreno del consenso e dei rapporti di potere era ormai esplicito, così come d’altra parte sarebbe stata presto chiara l’inconciliabilità delle posizioni sostenute da Carnazza sul futuro dell’Unione edilizia e la ricostruzione della città non solo con i demosociali, ma anche con le diverse fazioni del notabilato locale. Subito dopo, la visita di Mussolini a Messina nel giugno del 1923 offriva al duce l’opportunità di rilanciare l’azione del fascismo in favore della ricostruzione edilizia, ma rispondeva anche a un’esigenza politica di recupero del consenso, che in Sicilia era messo in discussione dai notabili liberali e, nello specifico contesto messinese, dal blocco radical massonico. La strategia consigliata al prefetto Frigerio da Mussolini era dunque quella di cooptare nel Pnf qualcuno degli esponenti di primo piano dei notabili locali, in modo da spaccare il fronte avversario e procedere a un’integrazione morbida dei gruppi di potere del territorio.

La scelta cadde su Michele Crisafulli Mondio (ritenuto il delfino di Di Cesarò), che alla fine del 1923 veniva nominato alla testa della Federazione Fascista di Messina con l’impegno di adoperarsi in un ambizioso programma di fascistizzazione della provincia. La nomina di Crisafulli Mondio, «proprietario di vasti agrumeti, massone e grande elettore del duca Colonna di Cesarò» (Saija 1977, 337; 1997), non sottraeva tuttavia agli interessi locali il controllo della ricostruzione edilizia di Messina, che, anzi, passava sotto la “direzione” dei notabili rappresentati dal nuovo federale sotto le bandiere del fascismo, con l’intenzione di sostituirsi tanto ai radical massoni, quanto al controllo dello stesso regime.

Nel settembre 1923, con il regio decreto legge n. 2022, l’Unione Edilizia Nazionale veniva infine sciolta e la sua liquidazione affidata all’avvocato Vincenzo Arcuri. I 500 milioni destinati alla ricostruzione delle abitazioni private venivano resi disponibili solo un anno dopo con il regio decreto legge 4 settembre 1924, n. 1356, mentre, con due successive disposizioni ministeriali del 27 settembre 1924 e del 30 luglio 1925, le aziende “propria” e “separata” di Messina venivano sostituite da un ufficio del genio civile che continuava le opere di ricostruzione utilizzando i mezzi tecnici e i nuovi consistenti finanziamenti messi a disposizione dallo Stato.

L’auspicata penetrazione, da parte di Carnazza, dei capitali e degli interessi settentrionali nella ricostruzione di Messina non aveva invece alcun seguito per la ferma opposizione del notabilato locale, tanto della parte entrata nel partito fascista, tanto di quella in “concorrenza” con esso, rispondendo entrambe le parti a una logica di controllo del potere e della gestione degli affari in ambito locale. Tutto ciò era eredità della stessa struttura sociale cittadina imperniata sulle grandi famiglie, ora alleate, ora contrapposte, in base a principi ideali ma anche a interessi divergenti, che di volta in volta potevano essere ricomposti, ma che richiedevano ad ogni modo il mantenimento di una condizione di “autonomia” dal centro del sistema politico, la sola che potesse assicurarne l’egemonia sociale, garantendone le funzioni di “filtro” tra gli interessi nazionali e quelli locali.

Dopo il terremoto del 1908, per di più, il trasferimento di una mole ingente di provvidenze statali avrebbe incentivato tale ruolo. Al contempo, la soverchia presenza degli interessi edilizi e la crescita a dismisura di un’economia sempre più dipendente dai trasferimenti di spesa pubblica avrebbe trasformato le richieste di speciali esenzioni e privilegi, che nel passato avevano incentivato le attività commerciali e imprenditoriali, in un circuito nel quale la pretesa richiesta di autonomia delle periferie dal centro si sarebbe trasformata in una dipendenza sempre più marcata della società locale dalle mediazioni del ceto politico e di quest’ultimo dai flussi di spesa pubblica. Il ricambio dei vertici della federazione provinciale consentiva al fascismo solo una parziale ricomposizione del proprio elettorato, stante anche lo scontro che la candidatura di Crisafulli Mondio alla guida della medesima aveva aperto con gli intransigenti sostenitori di Villelli.

Nelle elezioni del ’24 il listone fascista, sostenuto, oltre che dal meccanismo elettorale, dall’Associazione monarchico liberale, otteneva 5 seggi eleggendo Augusto Bette, Michele Crisafulli Mondio, Antonio di Giorgio, Giuseppe Gentile e Giuseppe Paratore; i demosociali ottenevano 3 seggi, eleggendo Colonna di Cesarò (dimessosi dal governo nel febbraio del ’24), Giuseppe Faranda e Luigi Fulci; un seggio andava a Lombardo Pellegrino. Il Ppi otteneva risultati modestissimi non riportando alcun seggio, così come i social riformisti di Toscano, mentre socialisti e comunisti, con una lista di Alleanza per l’unità proletaria, che aveva l’appoggio del Psu, conquistavano un seggio eleggendo Francesco Lo Sardo (Cicala 2000, 98-101, 129-31, 158, 185; Grisolia, Pontieri e Scalercio 2007, 258-9). Immediatamente dopo, l’attentato Matteotti e la nuova svolta impressa da Mussolini dopo la secessione aventiniana, cui partecipavano tutti i deputati messinesi, avrebbe cancellato ogni residua svolta democratica nel Paese, mentre nelle elezioni amministrative del settembre 1925 il “blocco delle libertà”, raggruppamento cui avevano aderito i seguaci di Lombardo Pellegrino, i demosociali, i repubblicani, l’Associazione combattenti indipendenti e i comunisti, veniva soffocato sul nascere (Barone 1981, 98).

I diversi interessi economici che stavano dietro la ricostruzione avrebbero continuato a fronteggiarsi ora aggregandosi, ora contrapponendosi, per l’accaparramento delle aree edificabili, gli appalti e le commesse pubbliche. Quanto al blocco radicalmassonico, non ancora sopite, nonostante la rottura definitiva con il fascismo, le mire egemoniche della democrazia sociale sul terreno della politica cittadina, esso si attivava, nel 1924, nella fondazione del quotidiano La Sera e nella costituzione di una società finanziaria, la Fara (Finanziaria Anonima Ricostruzioni Edilizie), presieduta da Ludovico Fulci, che alla fine del 1925 eseguiva una mole imponente di lavori e di appalti edilizi. Né dopo le dimissioni di Carnazza, nel 1925, la ricostruzione di Messina poteva fare a meno degli interessi finanziari locali, favoriti dai legami con la dirigenza politica. Essa, casomai, riprendeva con nuovo impulso sotto la guida di Crisafulli Mondio, per avviarsi sui binari di un sistema ormai largamente condizionato dalla speculazione finanziaria che andava dall’accaparramento delle aree edificabili al commercio dei diritti a mutuo.

Per il futuro, una parte sempre più consistente della locale borghesia urbana, non più disposta a seguire i Fulci, si sarebbe attivata in una strategia di ricomposizione di «un nuovo blocco di potere urbano allineato con il fascismo in cambio di una maggiore libertà d’azione nella gestione degli affari edilizi della città» (ivi, 72-99).

Momenti della ricostruzione: Stato e poteri locali
nella vicenda della riedificazione del palazzo dell’Università

Nel quadro che si è fin qui delineato nel tentativo di evidenziare le complesse trame e le molteplici dinamiche che accompagnarono il lungo periodo di ricostruzione della città dello Stretto e le sue alterne fasi, legate a motivazioni tanto esogene quanto endogene, la vicenda della riedificazione del palazzo dell’Università degli Studi riassume in sé, emblematicamente e simbolicamente, quella difficile stagione che doveva cambiare per sempre il volto, e non soltanto architettonico, di Messina.

A questo proposito va sottolineato come i molteplici effetti catastrofici [14] (Noto 2010) del sisma, oltre, ovviamente all’enorme numero di vite umane spezzate [15], si sarebbero protratti nel tempo «modificando radicalmente non solo l’assetto urbano, ma l’intero tessuto socio-economico della città» a causa di un «tessuto umano cittadino» in buona parte rimasto sotto le macerie, in parte rifugiatosi presso altri centri siciliani o altrove, talvolta temporaneamente ma, assai spesso, in maniera definitiva (Polto 2010, 563, 569).

La “mutazione demografica” determinata dal terremoto cancellava, senza che si rendesse possibile un ricambio, un’intera generazione che di quell’orizzonte valoriale era portatrice e custode e, al contempo, determinava un consistente afflusso, sulle rive dello Stretto, di manodopera impegnata nelle opere edilizie, ma anche di funzionari e impiegati dei diversi rami della pubblica amministrazione, che ricostituivano i poli funzionali cittadini. Giungevano, dunque, nuovi abitanti, spesso parzialmente o del tutto estranei alle tradizioni, alla lingua, ai valori, alla storia di quella realtà cittadina, circostanza che avrebbe comportato «un mescolamento di microculture locali, ciascuna portatrice di ben determinati modelli, norme, valori a volte estremamente diversificati all’interno dei diversi gruppi che contribuirono a ripopolare Messina» (Todesco 1991).

Tale premessa risulta indispensabile per comprendere appieno le dinamiche della ricostruzione nel suo complesso e il significato che ha assunto, nella città dello Stretto, la rinascita dell’Università degli Studi e della sua sede.

La nuova sede dell’Ateneo, tra progetti di riedificazione
e Grande Guerra

Due rare immagini fotografiche del palazzo dell’Università dopo il sisma evidenziano come il prospetto principale e la contigua chiesa di San Giovanni Battista fossero rimasti sostanzialmente in piedi dopo le scosse, mentre la corte interna mostra il loggiato superiore parzialmente distrutto.

Il terremoto, dunque, danneggiava in parte la sede dell’Ateneo e, tra mille comprensibili difficoltà, si dava avvio alle lezioni dell’a.a. 1909-10 in una precaria struttura in legno con appena 169 studenti (a fronte dei 755 del 1907-08) provenienti da 16 diverse province, 9 delle quali né siciliane né calabresi [16], a riprova dell’inurbamento di nuclei familiari originari di altre realtà e insediatisi a Messina per gli svariati motivi cui si è prima fatto cenno.

Nel corso dell’inaugurazione di quell’anno accademico, il 21 dicembre 1909, il rettore Giuseppe Oliva testimoniava la volontà dell’Ateneo di risorgere dopo la catastrofe (Annuario 1909, 7-8). Al contempo, egli dava anche conto dei maldestri tentativi di chi aveva perorato la chiusura definitiva dell’Università peloritana, insieme con la proposta, prima ricordata, di non ricostruire la città dello Stretto sull’antico insediamento, definendola sterile polemica ormai superata (Novarese 1996; Romano 1997; Pelleriti 2007) [17].

Si è già detto che il lungo e complesso percorso di ricostruzione della Messina post terremoto è legato, sostanzialmente, al Piano Regolatore di Ampliamento, di fatto il progetto di costruzione di una nuova città, redatto dall’ingegnere Luigi Borzì dell’Ufficio tecnico del Comune.

Non è questa la sede per illustrare dettagliatamente il cosiddetto “piano Borzì” che sarebbe stato, nel tempo, oggetto di aspre critiche e ancora oggi, alla luce di una rilettura attenta del contesto nel quale quel progetto trovò attuazione, ora parzialmente rivalutato e altrettanto duramente condannato (Cardullo 1993, 13-4; Chillemi 1994; Aricò 1995, 129).

Ciò che qui preme sottolineare è che nella strategia del disegno urbano di quel Piano si possono rintracciare talune direttrici fondamentali: la ridefinizione degli spazi della città nuova rispettando rigorosamente i parametri previsti dalle recenti norme antisismiche e il ripristino della funzione, pubblica o privata, dei medesimi (La Spada 2008, 697), riconfermando gli originari regimi proprietari.

La tecnica urbanistica del Borzì – è stato osservato – poteva attuarsi mediante l’annichilimento integrale della morfologia storica di ciascun lotto progettato. Borzì è interessato all’area, non all’edilizia superstite, alla futura testata sul Portalegni, e non al tentativo di salvare la struttura masuccesca. Sembra pertanto opportuno interrogarsi ancora intorno alla tecnica urbanistica attraverso cui Borzì ridisegnava tra maggio 1909 e giugno 1910 la nuova morfologia urbana […]. Quando Borzì affronta l’azzonamento dei servizi pubblici – tra cui l’Università – non si pone il problema di una inedita identità di servizi nella nuova morfologia urbana. Non sa immaginare un progetto urbanistico nuovo. Assume appunto a capisaldi, da cui riorganizzare il nuovo disegno urbano, proprio quei terreni che hanno ospitato strutture pubbliche (Aricò, 1995, 129).

La ricostruzione del palazzo universitario non sarebbe sfuggita a questo duplice orientamento (Arena 2009; Calabrò 2018, Novarese 2020).

La volontà di ribadire la permanenza insediativa delle funzioni pubbliche pre-terremoto, al fine di tramandare una seppure labile traccia di “memoria storica funzionale” e di continuità tra la città ottocentesca (e la sua secolare storia) e la Messina ricostruita, induceva a riproporne la sede sull’aerea ove sorgeva l’antico Studium.

Progettato nel primo decennio del Seicento dall’architetto gesuita messinese Natale Masuccio (Portera 2008), secondo uno schema planimetrico a due cortili, il palazzo del Collegio dei Gesuiti, sede dello Studium Messanae, era caratterizzato da un prospetto semplice e lineare, con lesene e fasce marcapiano, in contrasto con l’articolata decorazione del portale d’ingresso.

Dopo l’espulsione della Societas Iesu dalla Sicilia nel 1767 (Renda 1974), il palazzo non aveva, tuttavia, mutato destinazione e aveva ospitato l’Accademia Carolina, elevata a rango di Università nel 1838 da Ferdinando I di Borbone (Novarese 1993), il quale riportava in vita, così, la tradizione dello Studium gesuitico, fondato nel 1548 e chiuso a seguito della rivolta antispagnola della città, nel 1674 [18].

Sembrava dunque importante, quasi naturale, costruire la nuova sede dell’Università peloritana in quegli spazi, da sempre individuati dalla cittadinanza come dedicati alla cultura.

Va sottolineato, tuttavia, come, insieme al principio della “permanenza storica” di edifici o funzioni, il piano Borzì apparisse contestualmente informato a una logica di fatto in contrasto con quello, prevedendo «la demolizione di ogni memoria edilizia» preesistente (Aricò 1995, 129).

Per tale motivazione, seguendo una sorte toccata ad altri luoghi simbolici (e fra tutte la nota Palazzata prospiciente il porto di Messina), che non furono ricostruiti partendo dall’esistente anche quando avevano riportato danni tutto sommato poco significativi, l’imponente edificio masucciano veniva demolito nel 1913 insieme a manufatti della città medievale che vi gravitavano intorno [19], sopravvissuti, come quello, al terremoto, seppure più o meno profondamente danneggiati.

Oggi dell’originaria fabbrica non rimane traccia, a parte il portale d’ingresso [20].

Dalla documentazione pervenuta risulta che il progetto di massima del nuovo palazzo degli studi, redatto dall’ingegnere Giuseppe Botto, ispettore superiore del Genio Civile e autore, nel 1908-09, insieme a Gustavo Giovannoni, di un progetto per una sede unificata dell’Ateneo di Roma (Di Marco 2012, 79 ss.), era già pronto il 30 maggio del 1913; fra il 25 agosto e il 4 dicembre l’ingegnere Giuseppe Colmayer disponeva il progetto esecutivo del plesso centrale dell’Ateneo (Aricò 1995, 129-48, Arena 2009).

Se, nel corso dell’inaugurazione dell’a.a. 1914-15, il rettore Giovan Battista Rizzo confidava che, nella primavera successiva, Messina avrebbe visto «risorgere la sede definitiva dell’università» (Annuario 1909, X), di lì a poco, tuttavia, la prima fase di ricostruzione, appena avviata, conosceva una brusca battuta d’arresto, anche per il profilarsi di un altro drammatico evento: l’inizio della Grande Guerra che doveva assestare, alla città dello Stretto, un ulteriore, durissimo colpo (Novarese 2017a; 2017b).

Gli anni del conflitto, paradossalmente, sarebbero stati, proprio a Messina, e proprio a causa dell’impressione suscitata nel Paese dal catastrofico sisma del 1908 (Dickie 2008), forieri della precoce diffusione di una temperie culturale avanguardista, che proprio dalle rovine messinesi e dal circuito emozionale suscitato nel Paese dall’evento sismico traeva ispirazione.

La circostanza per la quale Filippo Tommaso Marinetti riusciva «nella funambolica impresa di ribaltare il disastro tellurico in un’emblematica possibilità di resurrezione futurista della città peloritana» (Tomasello 2000, 95), faceva sì che, negli anni immediatamente successivi al sisma, sulla città dello Stretto si appuntassero «i sogni futuristi di una realtà architettonica nuova, sorta sulle macerie dei vecchi edifici. L’ottimismo futurista scorge nell’immane tragedia il segnale positivo di una possibile rifondazione della città, basata su criteri moderni di essenzialità e di rigore geometrico» (ivi, 99).

La Messina di quegli anni era, tuttavia, ben lontana dalla “città futurista” vagheggiata dall’ispiratore del movimento, presentandosi, piuttosto, come uno spazio urbano e umano annientato; la sua lenta e problematica ricostruzione, a dispetto di laboratori progettuali di altissimo profilo e di respiro europeo, avrebbe reso quasi un miraggio quell’«avvenire rutilante» immaginato da Marinetti e si sarebbe consumata nel più prosaico appetito delle vecchie e nuove clientele sopra citate, interessate ad approfittare del momento per investire «in ghiotte operazioni immobiliari e di compravendita dei suoli fabbricabili connesse al risanamento edilizio» (Barone 1987, 364).

L’occasione, per l’area dello Stretto, di proporsi quale laboratorio di nuove pratiche costruttive sembrava sfumare, nonostante la presenza di architetti di buon nome. A questo proposito Giuseppe Barone ricorda che, nel 1915

Meuccio Ruini […], nella sua doppia veste di deputato radicale calabrese e di direttore generale del ministero dei lavori pubblici, richiedeva a Charles Edouard Jeanneret (meglio noto come Le Corbusier), di verificare concretamente nell’area calabro sicula l’efficienza della sua maison Dom-Ino […]. Ruini aveva sentito parlare di quel modello abitativo, che prendeva il nome dalle piccole tessere del gioco, che Le Corbusier aveva elaborato l’anno precedente su sollecitazione del governo francese per affrontare il problema della ricostruzione dei paesi distrutti dalla Grande Guerra. Anche se quella proposta non fu mai operativa, non è di poco conto sottolineare che sia stato lo stesso Le Corbusier a richiamarla come il primo passo verso il superamento dell’“architecture régionaliste” e l’accoglimento su scala internazionale del suo paradigma spaziale di “città nuova” (ibid.).

Come nota ancora Barone,

il felice connubio fra burocrazia e politici riformatori, grande industria e urbanisti, ebbe la durata di una breve stagione, spezzato come fu dalle resistenze conservatrici di un’imprenditoria d’assalto e periferica che, fortemente intrecciandosi con le leve del potere politico locale, impedì nella città del faro la realizzazione di moderni standards abitativi e di razionali parametri urbanistici. Dietro il versante “alto” del dibattito teorico e della progettualità architettonica si consumava un profilo “basso” di speculazioni economiche e di rivalità fra i notabili locali che avrebbero a lungo caratterizzato il “sacco edilizio” di Messina (ibid.) [21].

A guerra finita, la parabola del regime liberale e l’avvento del fascismo rappresentavano una ghiotta occasione, sulle rive dello Stretto, per quel nuovo «blocco di potere urbano» che, come si è prima ricordato, avrebbe barattato il proprio appoggio alla causa mussoliniana con l’opportunità di gestire quello che è stato definito «il grande affare della ricostruzione» (Baglio 2005, 152).

«Il vetusto glorioso Ateneo […] persegue, con la rinascita della Città, il suo radioso avvenire».
La ricostruzione del regime

Alle dichiarazioni del Duce – in visita alla città dello Stretto il 22 giugno 1923 – circa l’impegno del governo perché Messina potesse «completamente risorgere» e tornare a essere «bella e grande e prospera com’era una volta» (Longo 1933, 227) seguiva, come si è ricordato, negli anni successivi, la promulgazione di precise disposizioni normative [22] che avrebbero aperto, di fatto, un decennio durante il quale la ricostruzione avrebbe conosciuto una forte accelerazione (Severati 1991, 64).

Nella città dello Stretto il regime avrebbe realizzato un doppio progetto ricostruttivo riguardante l’edilizia pubblica, con evidenti intenti celebrativi (la città di marmo), e l’edilizia privata (la città di pietra). Un momento che avrebbe registrato la presenza, sulle rive dello Stretto, di architetti come Gino Coppedè, Marcello Piacentini, Ernesto Basile, Cesare Bazzani, Giuseppe Samonà, Antonio Zanca.

Va ricordato che per la ricostruzione della città e della sede dell’Università si era mosso un comitato cittadino appositamente creato nel 1924, formato da autorità locali fra le quali l’arcivescovo Angelo Paino. Osannato quale «arcivescovo della ricostruzione» [23], il personaggio risulta, in verità, assai controverso, come recenti studi hanno sottolineato. Certo è che nei primi anni dell’episcopato messinese l’alto prelato, giunto nella città dello Stretto nel 1916 da Lipari «a seguito di manifestazioni di piazza contro le pretese della mensa vescovile» (Baglio 2010, 152ss.; De Blasi 2014), avrebbe profuso un costante impegno

per il reperimento di fondi finalizzati alla ricostruzione degli edifici appartenenti al patrimonio ecclesiastico, distrutto dal terremoto del 28 dicembre 1908. Già nel 1923, a seguito di incontri con il neo primo ministro Mussolini, ottenne i finanziamenti per la cattedrale e una convenzione con lo Stato per la costruzione di chiese e canoniche. Nel 1928 e nel 1931 concordò convenzioni definitive con lo Stato, rimodulando, a favore della diocesi, le percentuali di intervento pubblico per la ricostruzione. Nel 1929, quindi, fu inaugurata e dedicata la cattedrale; entro il 1934 furono edificati nella diocesi cento edifici di culto con annesse canoniche, conventi, monasteri, istituti di educazione, opere caritatevoli, sedi per l’Azione cattolica e seminari (De Blasi 2014).

Paino trascorreva «lunghe settimane a Roma a coltivare i rapporti con le gerarchie fasciste, soprattutto in funzione delle richieste di fondi per iniziative edilizie» (ivi), circostanza che doveva causare non pochi malumori presso il clero, che reclamava più volte un intervento della Santa Sede.

Il consolidarsi in città di un blocco di potere disponibile a sostenere il regime dava i suoi frutti.

La nuova sede dell’Ateneo, secondo un disegno volto a ribadire, in una con l’imponente Palazzo di giustizia, opera di Marcello Piacentini, la definizione, in continuità con il passato, di uno spazio pubblico cittadino, misurava, come quello, circa 150 metri di lunghezza e fra gli 80 e i 100 metri di larghezza. I due edifici, simmetrici «hanno fronti che rimandano in negativo e positivo: lì dove il corpo centrale del palazzo di giustizia è arretrato, quello dell’Università avanza; lì dove i corpi laterali di quello avanzano, quelli di questo arretrano» (Cardullo 1993, 522).

Il palazzo dell’Università, in stile eclettico (forse perché, com’è stato osservato, «nessuno stile era più idoneo di tutti-gli-stili che l’Eclettismo recava nella propria estetica […] sedando l’ansia creata dall’azzeramento», Aricò 1995, 133), risultava disposto ad anfiteatro e articolato in sette edifici, comunicanti fra loro per mezzo di gallerie coperte. Se l’ingresso sul prospetto principale appare modesto, soprattutto se confrontato con quello maestoso del Palazzo di giustizia, sul fronte sud-ovest una scenografica scalinata ne sottolineava la parte centrale, sede del Rettorato, l’unica immaginata su due piani.

Nell’aula magna del rettorato si riproponeva, attraverso tre grandi bassorilievi dello scultore palermitano Giovanni Nicolini [24], che ne occupano l’intera parete est, il ruolo che Ignacio de Loyola aveva immaginato per lo Studium Messanae quale Università dell’area dello Stretto, con la Minerva al centro, risorta dalle macerie del cortile distrutto dell’antico palazzo masucciano, Messina, identificabile per la lanterna del Montorsoli, sulla falce del porto sullo sfondo, a destra, e la Calabria montuosa a sinistra (Romano 1995, 53; 1996, 10-1).

Ancora, ai busti di insigni professori che avevano insegnato nell’Ottocento, e che ornavano l’ampio corridoio di accesso all’Aula Magna del rettorato (ibid.), corrispondevano le lapidi marmoree che nel vestibolo inferiore ricordavano i doctores legentes dell’antico Studium cinque-seicentesco, da Francesco Maurolico a Mario Giurba, da Giovanni Alfonso Borelli a Marcello Malpighi: un tentativo di riannodare passato e presente, che induceva anche a ridisegnare la pergamena di laurea della Studiorum Universitas. Riproponendo la medesima suggestione dei bassorilievi dell’Aula Magna, il diploma messinese, a partire da quel momento, avrebbe presentato in basso, a destra e a sinistra, all’interno di una cornice ornata, due medaglioni raffiguranti Scilla e Cariddi, mitici mostri marini che i poemi omerici avevano collocato in prossimità delle due sponde dello Stretto e, nella parte superiore, altri due medaglioni raffiguranti rispettivamente l’emblema della città di Messina (lo scudo con la croce) e gli scudi delle tre province calabresi (Reggio Calabria, Cosenza e Catanzaro), «per sottolineare il carattere regionale siculo calabro dell’Università che da quasi quattro secoli costituisce il massimo centro di studi per la Sicilia Nord-Orientale e per la Calabria» (Romano 1996, 288).

Il primo esemplare del nuovo diploma veniva consegnato a un laureato eccellente, Michele Bianchi, quadriunviro della Marcia su Roma che riceveva dall’Ateneo peloritano la laurea honoris causa in giurisprudenza il 28 luglio 1929 (ivi, 288-9).

Quando il regime, alla fine della Grande Guerra, riconoscendo il contributo e il ruolo che gli atenei avevano giocato in quella circostanza, avrebbe favorito l’erezione di monumenti ai giovani universitari caduti, anche nella città dello Stretto, con la lapide che ricorda il sacrificio dei 38 studenti “messinesi”, scoperta il 23 maggio 1929 (ivi, 291), il palazzo universitario ricostruito avrebbe assunto, nel rinnovato contesto urbano, il ruolo, al contempo, di sacrario laico e di tempio della cultura e delle memorie cittadine, luogo di “culto perenne”.

La nuova sede degli studi universitari veniva consegnata alla città a partire dal 1927. Il rettore Gaetano Vinci ne dava ampia comunicazione nella relazione letta il 2 dicembre 1928 (Romano 1996b, 9-10), sottolineando, con orgoglio, che il complesso del rettorato e la nuova Aula Magna erano stati inaugurati qualche mese prima, il 28 ottobre, nel sesto anniversario della marcia su Roma (ivi, 59).

Nella prolusione inaugurale ai corsi, significativamente intitolata Malthus e Mussolini, Salvatore Cappellani, ordinario di Clinica Ostetrica e Ginecologica, ricordava come, quell’anno, la cerimonia di apertura dei corsi assumesse «una speciale solennità: l’alba dell’anno accademico che sorge vede la luce nei nuovi locali, constatazione tangibile che il vetusto glorioso Ateneo, travolto per breve ora dalla immane catastrofe del 1908, rivive in una gloria di luce, afferma il suo diritto alla vita, persegue, con la rinascita della Città, il suo radioso avvenire» (Le prolusioni 1997, 281).

Le fotografie scattate il 9 aprile del 1928 ritraggono il rettore Gaetano Vinci, in uniforme, insieme al corpo accademico e studentesco, che accoglieva calorosamente il ministro delle Corporazioni, Giuseppe Bottai, giunto a inaugurare solennemente la struttura (Romano 1995, 119-21).

Simbolo della città risorta e della sua (almeno apparentemente) ritrovata identità, l’Ateneo ne avrebbe seguito e subito, ancora una volta, negli anni a venire, anche nelle vicende delle sue sedi, continui scempi e vandalizzazioni.

In particolare, le soprelevazioni attuate a partire dagli anni Sessanta hanno violentato l’impianto prospettico del progetto originario, che intendeva invece dare risalto alla parte centrale del corpo di fabbrica – ospitante i locali del Rettorato – anche in rapporto all’imponente Palazzo di giustizia del Piacentini, con il quale la sede dell’Università costituisce simbolicamente, come si è prima ricordato, un complesso armonico di attività pubbliche che si affacciano sulla piazza Maurolico.

Lo stesso si dica per la facciata prospiciente su via dei Verdi, caratterizzata da un’imponente e ariosa scalinata, oggi non più visibile da quella via perché chiusa dai plessi costruiti negli anni Cinquanta per ospitare le facoltà di Lettere e di Economia e Commercio, realizzate su progetto dell’architetto messinese Filippo Rovigo [25] utilizzando materiali e geometrie innovative ma incoerenti con il contesto degli edifici esistenti [26].

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  • –– 1997. “L’Università degli Studi di Messina negli anni Venti e Trenta del Novecento.” In Messina negli anni Venti e Trenta. Una città meridionale tra stagnazione e fermenti culturali, a cura di Rosario Battaglia, Michela D’Angelo, Santi Fedele e Massimo Lo Curzio, II, 405-20. Messina: Sicania.
  • Saija, Marcello. 1977. “Note sul sistema politico in Sicilia. Dagli ascari di Giolitti ai gerarchi di Mussolini.” In Potere e società in Sicilia nella crisi dello stato liberale. Per una analisi del blocco agrario, a cura di Giuseppe Barone e Gastone Manacorda, 299-390. Catania: Pellicanolibri.
  • –– 1981. Un “soldino” contro il fascismo. Istituzioni ed élites politiche nella Sicilia del 1923. Catania: CULC.
  • –– 1990. “Cattolici e laici a Messina nella prima fase della ricostruzione.” In Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Atti del Convegno di Studi (Catania, 18-20 maggio 1989), 325-34. Acireale: Galatea.
  • –– 1997. “Messina 1923: la transizione dei poteri.” in Messina negli anni Venti e Trenta. Una città meridionale tra stagnazione e fermenti culturali, a cura di Rosario Battaglia, Michela D’Angelo, Santi Fedele e Massimo Lo Curzio, I, 13-32. Messina: Sicania.
  • Severati, Carlo. 1991. “1923-1932 l’architettura di Regime tra Roma e Messina.” In La trama della ricostruzione. Messina, dalla città dell’Ottocento alla ricostruzione dopo il sisma del 1908, a cura di Giusi Currò, 62-70. Roma: Gangemi.
  • Sica. Paolo. 1977. Storia dell’urbanistica. II. I. L’Ottocento. Roma-Bari: Laterza.
  • Sindoni, Angelo. 2001. “Il terremoto di Messina: continuità e discontinuità.” In Scritti di storia per Gaetano Cingari, 515-28. Milano: Giuffrè.
  • Todesco, Sergio. 1991. “Fine di un mondo, fine del mondo. Le classi subalterne e il terremoto.” Quaderni Italiani di Psichiatria X, no. 1 (febbraio): 15-26.
  • –– 2010, “L’“Apocalisse differita”. Cultura popolare e ricostruzione dell’identità nella Messina del dopo terremoto.” In Messina dalla vigilia del terremoto del 1908 all’avvio della ricostruzione, a cura di Antonio Baglio e Salvatore Bottari, 603 ss. Messina: Istituto di Studi Storici “Gaetano Salvemini”.
  • Tomasello Dario. 2000. Oltre il Futurismo percorsi delle avanguardie in Sicilia. Roma: Bulzoni.
  • –– 2010, “Tra liberty, paroliberismo e fascismo: le Avanguardie a Messina”, in Messina dalla vigilia del terremoto del 1908 all’avvio della ricostruzione, a cura di Antonio Baglio e Salvatore Bottari, 99-116. Messina: Istituto di Studi Storici “Gaetano Salvemini”.
  • Vaina, Michele. 1911. Popolarismo e nasismo in Sicilia. Firenze: La rinascita del libro.

Note

1. La prima fase si colloca dalla gestione dell’emergenza – subito dopo il terremoto – sino al primo governo Mussolini; la seconda fase (1924-32), quella di maggior intensità, si avvia dopo la prima visita di Mussolini e i provvedimenti del 1924; la terza fase è compresa tra il 1932 e l’inizio della Seconda guerra mondiale.

2. Sulle attività economiche e le dinamiche che riguardano la produzione e la distribuzione della ricchezza a Messina nell’Ottocento, anche in termini comparativi con altre città, Battaglia 1992; Chiara 2002; Battaglia 2003.

3. Per tali dinamiche nel corso del XX secolo e sino agli anni più recenti, anche per le considerazioni riportate più avanti in questo saggio, ove non diversamente specificato, Chiara 2011 e le fonti ivi citate.

4. Segnatamente sul tema delle emergenze naturali, anche per il terremoto del 1908, Botta 2013.

5. Sul punto le dichiarazioni dell’onorevole Colajanni o del senatore Paternò, che pensavano non fosse più possibile edificare la città nello stesso sito (Longo 1933, 24). Ma dello stesso avviso anche il generale Mazza o, ancora, il ministro dei Lavori Pubblici Bertolini, che «invece di piangere alla vista di Messina piangente, invece di togliersi i calzari, pria di mettere piede sopra questa terra sacra a Dio ed agli uomini, ebbe l’audacia di proporre solamente a sé stesso il bombardamento della città, la fine completa e assoluta della sfortunata provincia e l’aggregamento dei due versanti di essa, alle province di Catania e di Palermo. E l’avrebbe fatto, se un avventurosa [sic] bicicletta montata dall’onorevole Cutrufelli, non avesse divorato la via Taormina; e di là gli onorevoli Fulci e Faranda non fossero volati ad impedire l’empio disposto. I tre uomini andarono a disturbare il ministro dei LL.PP. verso la mezzanotte, e nel silenzio della sua cabina portarono il grido breve, ma terribile dei figli di Messina. E lo spaventarono! E lo costrinsero al felicissimo aborto di tanto insano quanto malvago [sic] divisamento». Per la citazione, Longo 1911, 27-8; Campione 1988, 39-43; Attanasio 1988, 110.

6. Per un raffronto tra il terremoto del 1783 e quello del 1908, D’Angelo e Sajia 2002; Noto 2008, 17-129.

7. Per alcune valutazioni sul piano Borzì, Miano 1991; Battisti 1991; Giovannoni 1929; Sica 1977, 582-5; Lo Curzio 1985.

8. Il Borzì, nell’estensione del piano, si attenne scrupolosamente alle norme antisismiche dettate dalla commissione Blaserna, per cui Blaserna, Taramelli e Crema 1909. Sulla ricostruzione, oltre naturalmente a Campione 1988, il quale contiene pure in ristampa anastatica il Piano Borzì e diversi altri materiali (il piano Guidini, il piano Samonà, il piano Tekne, ecc.), Di Leo e Lo Curzio 1985; Cardullo 1993; Battaglia et al. 1997.

9. Già tre anni dopo si rendeva, infatti, indispensabile l’emanazione di un testo unico delle leggi che, approvato con r.d. 12 ottobre 1913, n. 1261, si componeva di oltre 500 articoli. Sul punto, si veda Fulci 1916, 124.

10. Successivamente il r.d. n. 1261/1913 avrebbe più esplicitamente stabilito anche la cedibilità del diritto al mutuo nel caso in cui il mutuatario non avesse più potuto edificare nelle relative aree di proprietà. Per tutto questo, Calogero 2008. Sulla questione dei diritti a mutuo, che diviene, col trascorrere degli anni, molto delicata e complessa per l’innescarsi di processi speculativi, intervenivano più volte, già nei primi anni di applicazione dei dispositivi normativi in pro della ricostruzione, i Fulci (Fulci 1920; “I diritti a mutuo dei proprietari danneggiati dal terremoto. Discorso tenuto in Messina il 29 aprile 1920”, Messina, estratto dal giornale L’Imparziale).

11. Sugli strumenti da utilizzare e il dibattito coevo sulla ricostruzione nei primi anni successivi al terremoto, centrato in particolare sulla tutela degli interessi dei danneggiati e le norme relative alla legislazione del 1910, Giunta 1911; Papa 1911a; 1911b; 1912, 1915; Cutrufelli 1909; Cagli 1917.

12. Dal 1914 al 1922 furono emanati ben 36 decreti legge di funzionamento.

13. Il fenomeno del “fulcismo” a Messina presenta i tratti tipici del “popolarismo” sviluppatosi in Sicilia nei primi anni del ’900 come movimento che tende ad aggregare elementi della piccola borghesia urbana e ceti medi legati all’espansione della burocrazia e del settore terziario, per cui si vedano le osservazioni di Vaina 1911; Procacci 1961, 159-214; Lupo e Mangiameli 1983; Degl’Innocenti 1983, 108-13; Sajia 1977, 301-9; Barone 1987. Su Fulci e il “fulcismo”, le osservazioni di Barone 1981, 56; Saija, 1990; Cicala 2000, 18; D’Angelo e Saija, 2002, 123-40 (sebbene la ricostruzione di Saija si polarizzi in maniera eccessiva attorno allo scontro tra un gruppo massonico e uno clerico-moderato).

14. Sul quale, con riferimento alla letteratura più recente: Iannelli 2008; La Spada 2008; Disastro 2010; Baglio e Bottari 2010, cui si rinvia per ulteriori riferimenti bibliografici.

15. ISTAT 1903-1904, ad ind.; ISTAT 1914, ad ind.

16. A parte i 100 studenti messinesi e i 41 di Reggio Calabria, si registravano giovani provenienti da l’Aquila (1), Bari (1), Benevento (1), Caltanissetta (3), Catania (3), Catanzaro (6), Girgenti (3), Lecce (2), Palermo (3), Perugia (1) Potenza (1), Siracusa (1), Trapani (1), Treviso (1) (Annuario1909, 141).

17. Annuario 1909, 9. L’intervento si chiudeva con il ricordo di quanti, professori e personale amministrativo avevano perso la vita nel disastro (sarebbero morti 29 fra professori, liberi docenti e aiuti e assistenti, 4 fra segretari e bibliotecari, 3 tecnici e 5 inservienti. Non si conosce il numero degli studenti periti nel terremoto, ivi, 10-2).

18. Romano 1991; Novarese 1994; 1996; 2007; 2015.

19. Ci si riferisce, in particolare, alla chiesetta romanica di Santa Domenica, a quella di Santa Maria dell’Idria e alla chiesa di San Giovanni Battista.

20. Collocato all’interno del cortile del plesso centrale dell’Ateneo, è stato oggetto, nel gennaio 2018, di un progetto del Senato accademico e del CdA volto alla sua ricollocazione davanti all’ingresso dell’Università, in un’ideale continuità tra passato e presente: https://www.tempostretto.it/news/5-x-1000-unime-raccoglie-fondi-recupero-antico-portale.html.

21. Checco 1989, 161 ss.; Sindoni 2001; Battaglia 2015.

22. Si ricordino il r.d. del 24 settembre1923, n. 2022, con il quale si delegava al Ministero dei Lavori Pubblici sia la progettazione che l’esecuzione delle opere per la ricostruzione; il r.d. 4 settembre 1924, n. 1356, che stanziava ingenti fondi per la realizzazione di case economiche e di alloggi per gli impiegati; il r.d. del 3 aprile 1930, n. 682, con cui si raccoglievano e aggiornavano le disposizioni relative alle norme tecniche di costruzione antisismica.

23. “L’Arcivescovo a Roma per sostenere la causa dell’Università.” Gazzetta di Messina e delle Calabrie (18 gennaio 1924): 3; “L’Arcivescovo Paino interessa l’on. Mussolini alle sorti dell’Università di Messina.” Gazzetta di Messina e delle Calabrie (27 gennaio 1924).

24. Palermo 1872-Roma 1956, allievo di Giulio Monteverde.

25. Filippo Rovigo, Relazione del progetto di variante per i “Lavori di costruzione di un edificio destinato alla Facoltà di Economia e Commercio, Lettere e Filosofia”, dattiloscritto, Messina, 10-19 aprile 1963 (Archivio del Genio Civile di Messina, 117).

26. I primi tre paragrafi sono di Luigi Chiara, gli ultimi tre di Daniela Novarese, che ha ripreso, rielaborandolo, il saggio Novarese 2020.