Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Francesco Datini e Hildebrand Veckinchusen: il commercio internazionale dopo la peste del Trecento

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Abstract

In Europe the century following the demographic collapse caused by the Black Death epidemics was characterised by profound economic changes. This article approaches the subject from a particular perspective: the organisation of long-distance trade. It considers mainly two merchant communities that may seem very different in terms of technical and legal culture and commercial practices: the Florentines and the Hanseatic merchants. The article aims to show that actually these two communities adopted surprisingly similar organisational solutions to respond to the challenges and risks of the new economic context as it emerged in the second half of the fourteenth century. In particular, both of them moved towards a 'light' network organisation, based on reputation, trust and reciprocity. For the Florentines this was a major change, since in the first half of the fourteenth century, in a completely different economic context, the large, hierarchically organised company had prevailed.

La Peste nera del Trecento
e la trasformazione del commercio

Il secolo successivo agli sconvolgimenti demografici determinati dalle epidemie di peste fu caratterizzato in Europa da profonde trasformazioni economiche. Questo articolo affronta il tema da un’ottica specifica, che è quella dell’organizzazione del commercio a lunga distanza. Esso prenderà in considerazione principalmente due comunità mercantili che possono sembrare molto distanti per cultura tecnica e giuridica e per pratiche commerciali: quella fiorentina e quella dei mercanti anseatici. Le pagine che seguono cercheranno di dimostrare che in realtà queste due comunità adottarono soluzioni organizzative sorprendentemente simili per rispondere alle sfide e ai rischi del nuovo contesto economico come si venne delineando a partire dalla seconda metà del Trecento. Il carattere di queste soluzioni, peraltro, fornisce informazioni interessanti sulla natura dei cambiamenti economici che segnarono il tardo medioevo.

Il commercio anseatico a cavallo tra Tre e Quattrocento

Negli ultimi vent’anni le forme organizzative del commercio anseatico nel tardo medioevo sono state al centro di un’appassionante stagione di studi che ha portato a un forte rinnovamento dei modelli interpretativi (Fouquet e Gilomen 2010; Ewert e Selzer 2016; Hammel-Kiesow 2016). Tale rinnovamento è stato stimolato da una decisa reazione nei confronti della visione tradizionale secondo la quale i mercanti anseatici avrebbero mostrato caratteri di evidente arretratezza rispetto ad altre comunità mercantili europee [1]. Sintomi e allo stesso tempo cause di tale arretratezza sarebbero stati, fino al pieno Quattrocento, pratiche contabili approssimative, impermeabili alle regole auree della partita doppia, un uso scarso e piuttosto maldestro delle lettere di cambio e di altri raffinati strumenti finanziari, e soprattutto l’assenza di grandi compagnie dotate di consistenti capitali, di un’organizzazione complessa articolata in numerose filiali, di una vera e propria rete manageriale in grado di coordinare una folla di dipendenti salariati. Queste infatti sarebbero le caratteristiche distintive dei contesti economici tardomedievali più evoluti, in particolare l’Italia – ma per la verità per Italia si intende soprattutto Firenze – ma anche la Germania meridionale, dove i Fugger rappresentano solo l’esempio più celebre di grande azienda “all’italiana”.

Gli studiosi che scrivevano di commercio medievale nel Novecento, fino almeno alla fine degli anni ’70, vivevano in un contesto – reale e teorico – nel quale le grandi corporations verticalmente integrate erano considerate la forma più innovativa, moderna ed efficiente di organizzazione economica. È piuttosto comprensibile che i Bardi e i Peruzzi – con i loro enormi capitali, le loro filiali sparse per tutta Europa e il complesso sistema di bonus e incentivi con i quali si assicuravano la collaborazione dei manager più quotati – apparissero molto più all’avanguardia dei mercanti di Lubecca o di Danzica che operavano per lo più in proprio o attraverso società bilaterali assai semplici, per le quali era sufficiente una contabilità piuttosto rudimentale. A partire dagli anni ’80, tuttavia, questo assunto è stato messo pesantemente in discussione dalla scienza economica. Un numero ormai imponente di studi empirici e riflessioni teoriche ha offuscato la narrazione chandleriana del trionfo della grande azienda organizzata gerarchicamente, e messo in luce la crescente importanza, nel mondo contemporaneo, di forme organizzative di natura totalmente diversa [2]. L’interesse degli studiosi si è concentrato in particolare sui network di aziende di piccole dimensioni, nei quali, per la soluzione dei problemi di coordinamento, la reputazione, la fiducia e la reciprocità hanno un rilievo maggiore rispetto alle strutture gerarchiche o alle rigide definizioni contrattuali [3].

È in questo quadro teorico che si colloca esplicitamente la nuova storiografia sul commercio anseatico. Del resto, si fa notare, i mercanti anseatici, dipinti come rozzi e arretrati, dominarono quasi incontrastati uno spazio economico enorme, con un diametro di circa ٣.٥٠٠ chilometri, per almeno un secolo e mezzo, dalla metà del Trecento alla fine del Quattrocento (Ewert e Selzer 2016, 77). Le loro strutture organizzative, per quanto lontane dal “big business” che affascinava gli studiosi novecenteschi, dovevano offrire soluzioni piuttosto efficienti ai problemi specifici posti dai contesti nei quali essi si trovavano a operare.

Ma quali caratteristiche avevano queste strutture organizzative? Si ritiene che i mercanti anseatici abbiano continuato a praticare un commercio prevalentemente itinerante per buona parte del Duecento, approdando dunque alla “rivoluzione” del mercante sedentario più tardi rispetto ai mercanti mediterranei. In seguito, più o meno fino alla metà del Trecento, la forma societaria prevalente era la cosiddetta wedderlegginge (Widerlegung in tedesco moderno), in genere chiamata vera societas nei documenti in latino, che assomigliava molto da vicino alla società di mare genovese e pisana e alla colleganza veneziana (Hammel-Kiesow 2014, 89-90; Kypta 2017). Essa prevedeva un accordo tra un investitore sedentario e un socio attivo che si incaricava di far fruttare il capitale. Normalmente il socio sedentario forniva una quota maggioritaria del capitale, spesso i 2/3, ma non si tratta di una regola rigida: ci sono numerose attestazioni di un apporto paritario di capitale da parte dei due soci. I profitti erano divisi a metà. Questa società bilaterale rimase molto diffusa anche in seguito, ma almeno dall’inizio del Quattrocento si moltiplicano anche nel mondo anseatico gli esempi di compagnie “all’italiana”, che prevedevano cioè che tutti i soci, normalmente attivi su diverse piazze commerciali, contribuissero al capitale e allo stesso tempo operassero in prima persona, dividendosi gli utili in proporzione all’investimento (Hammel-Kiesow 2000, 91-3; Kypta 2017). Si trattava comunque per lo più, almeno fino alla fine del secolo, di società di ridotte dimensioni, con tre o quattro soci al massimo. Una caratteristica peculiare delle società anseatiche è che esse non comportavano l’obbligo di esclusività: un mercante cioè poteva partecipare non solo a più Widerlegungen, ma anche a più compagnie contemporaneamente.

La storiografia più recente ha tuttavia messo in rilievo l’importanza centrale di una particolare forma di relazione che gli studiosi definiscono “commercio reciproco”, o “commercio sulla base della reciprocità” (Selzer e Ewert 2010; Ewert e Selzer 2016, 31-2; Graichen e Hammel-Kiesow 2015, cap. 10). Un mercante A spediva a un mercante B attivo su un’altra piazza merci da vendere, e B gli rispediva merci locali acquistate con i proventi della vendita. A e B non erano soci, non mettevano in comune il capitale e B non partecipava ai profitti; si trattava in pratica di una forma di commercio su commissione, in cui tuttavia B non riceveva alcuna provvigione per il suo impegno. La ricompensa per i suoi servizi risiedeva appunto nella reciprocità, ovvero nel fatto che A svolgesse per lui esattamente la stessa funzione nel suo luogo di residenza. Questo tipo peculiare di partnership era del tutto informale, non era cioè sancito da un contratto o da un accordo che definisse con precisione il ruolo delle due parti, ed era sostenuto solo dallo scambio di lettere.

Un numero crescente di studi sta dimostrando che ogni mercante anseatico di un certo rilievo era inserito in una fitta rete di relazioni commerciali con numerosi altri operatori anseatici attivi a Bergen, Londra, Bruges, Amburgo, Lubecca, Danzica, Riga, Dorpat (Tartu), Reval (Tallin), Novgorod e in tante altre città della costa baltica [4]. A essi lo legavano sia rapporti societari formalizzati attraverso Widerlegungen e compagnie vere e proprie sia, soprattutto, i rapporti informali improntati alla reciprocità descritti nel paragrafo precedente. Dalla seconda metà del Trecento dunque la prevalenza di strutture societarie piuttosto semplici e l’assenza di grandi compagnie anche solo lontanamente paragonabili ai Bardi o ai Fugger non impedivano in alcun modo agli anseatici di operare con successo su molteplici piazze commerciali sparse su uno spazio geografico estremamente ampio.

La storiografia più recente ha chiarito il funzionamento di queste reti utilizzando, a mio parere in modo proficuo, le acquisizioni della letteratura economica sui network [5]. La grande azienda organizzata gerarchicamente e il network differiscono soprattutto in relazione alle soluzioni adottate per i problemi di agenzia. I problemi d’agenzia, come è noto, sono determinati dal potenziale comportamento opportunistico dell’agente, a cui il principale, come lo definisce la letteratura, è costretto a delegare importanti poteri decisionali nell’ambito della propria attività economica (Greif 2006). In altre parole ogni mercante, anseatico, fiorentino, genovese o veneziano che fosse, non essendo dotato del dono dell’ubiquità, doveva necessariamente usufruire dei servizi di qualcun altro per operare su una piazza diversa dalla sua. Si esponeva così al rischio concreto che questo qualcun altro fosse un incompetente, e gestisse gli affari del principale in maniera maldestra provocandogli delle perdite, che fosse poco motivato, e rifiutasse quindi di profondere troppi sforzi a vantaggio del principale, o, cosa più grave, che fosse in malafede, e mettesse il proprio tornaconto davanti a quello del principale frodandolo o intascando parte dei suoi profitti.

Le grandi compagnie medievali, come i più volte citati Bardi e Peruzzi, per prevenire, scoraggiare o punire i comportamenti opportunistici degli agenti, ovvero i tanti fattori salariati impiegati nelle filiali come manager o in varie altre mansioni, ricorrevano a strumenti per molti versi simili a quelli utilizzati dalle grandi aziende moderne (Sapori 1955). L’assunzione del fattore era regolata da un contratto che ne definiva in maniera stringente, sulla base delle norme contenute negli statuti cittadini e delle corporazioni, gli obblighi nei confronti della compagnia. Al fattore, che era tenuto a rendere conto con la massima accuratezza di ogni moneta o merce che passavano per le sue mani, era tra le altre cose rigidamente proibito concludere affari in proprio o per altri senza esplicita licenza della compagnia; era inoltre costretto a consegnare alla compagnia qualsiasi “dono”, ricompensa o emolumento ricevesse da estranei. Le compagnie ruotavano il personale con una certa frequenza [6]; i fattori soggiornavano in un luogo abbastanza a lungo da prendere confidenza con l’ambiente locale, ma non tanto a lungo da mettere radici troppo profonde e maturare interessi personali potenzialmente in contrasto con quelli dell’azienda. La rotazione del personale facilitava inoltre la sorveglianza, poiché c’erano buone possibilità che il nuovo arrivato, non connivente con gli altri dipendenti, si accorgesse di eventuali problemi nella gestione della filiale. Armando Sapori (1955) ha poi messo in luce come i Bardi e i Peruzzi ricorressero a un complesso sistema di gradazione salariale, al quale aggiungevano generosi “doni”, ovvero incentivi anche consistenti per incoraggiare i fattori più promettenti e veri e propri bonus, in alcuni casi pari ad anni di salario, per premiare i meritevoli. In questo modo legavano a sé i fattori più abili e alzavano, per il dipendente, il costo di un eventuale comportamento opportunistico, che avrebbe comportato la perdita di un posto di lavoro ben remunerato e con ottime opportunità di “carriera”. In caso di comportamenti scorretti o fraudolenti, che non erano rari nonostante le contromisure adottate, le compagnie fiorentine potevano ricorrere a un sistema giudiziario che, a causa dell’intreccio strettissimo tra politica ed economia che caratterizzava la Firenze del primo Trecento, tendeva a favorire i loro interessi. In particolare, la soluzione delle controversie tra i datori di lavoro e i fattori era di competenza del tribunale della mercanzia, che in questa fase praticava una giustizia francamente di classe che lasciava ben pochi margini d’azione ai dipendenti (Astorri 1998).

I fattori salariati non erano affatto sconosciuti ai mercanti anseatici, ma, come si è visto, per operare sulle tante piazze commerciali in cui erano attivi essi ricorrevano soprattutto a collaborazioni informali con altri operatori del tutto indipendenti. È evidente quindi che non avevano accesso agli strumenti a disposizione delle grandi compagnie organizzate gerarchicamente – contratti rigidamente definiti, rotazione del personale, articolato sistema di bonus e incentivi – per risolvere i problemi di agenzia. Certo il ricorso alle istituzioni giudiziarie, sia di ambito cittadino che nei kontor – le organizzazioni dei mercanti anseatici all’estero (Burkhardt 2015) – era possibile e frequente. Tuttavia, in mancanza di qualsiasi definizione contrattuale, di istruzioni precise, di responsabilità ben individuabili non era affatto facile dimostrare che la controparte si era comportata in maniera scorretta. A ben vedere il principale, costretto a trasmettere all’agente un mandato assai ampio e indefinito, era vittima di una serie di irrimediabili asimmetrie informative che lo ponevano di fatto in sua balìa. L’agente, infatti, era radicato da anni o decenni nel luogo dove operava, conosceva in maniera approfondita i meccanismi del mercato locale, le fluttuazioni dei prezzi, sapeva soppesare con occhio esperto le merci che vi si trattavano, valutare la convenienza del prezzo di vendita, aveva buone relazioni con gli altri operatori commerciali e con le autorità locali, si muoveva con agilità nel sistema di dazi e pedaggi e riusciva probabilmente, con la connivenza di ufficiali compiacenti che “oliava” da anni, a evaderli almeno in parte. Tutte queste conoscenze non erano alla portata del principale. Come poteva funzionare un sistema apparentemente così sbilanciato? Perché l’agente non approfittava della sua posizione di forza per frodare il principale, dal momento che le sanzioni legali rappresentavano una minaccia tutto sommato debole?

I network, allora come oggi, funzionano più sulla base della fiducia e della reputazione che sulla base delle definizioni contrattuali e delle sanzioni legali (Powell 1990; Smith-Doerr e Powell 2005). Innanzitutto, per il principio di reciprocità, ciascuna delle due parti ricopriva in realtà contemporaneamente il ruolo di agente e di principale nei confronti dell’altra. Tradendo la fiducia del suo partner, il mercante avrebbe perso la sua collaborazione. Ciò non avrebbe di per sé comportato una grave perdita, poiché egli avrebbe facilmente trovato un altro operatore con cui sostituirlo. È qui però che subentra la questione centrale della reputazione. Il network era anche, se non prima di tutto, una rete informativa, e dunque la notizia del comportamento scorretto circolava velocemente attraverso la fitta corrispondenza mercantile, e nei tanti momenti di socialità che scandivano la vita dei mercanti in patria e all’estero. Il mercante fedifrago era quindi a grave rischio di perdere la propria reputazione. A quel punto anche gli altri mercanti della rete non erano più disposti ad avere a che fare con lui e, dal momento che il suo successo dipendeva dalle collaborazioni informali, la perdita della reputazione poteva condurlo alla rovina. Questa minaccia, che spiega la vera e propria ossessione dei mercanti per la reputazione e l’onore, doveva essere molto più efficace del timore di improbabili sanzioni legali (Selzer e Ewert 2010; Ewert e Selzer 2016, 39-53). È di fatto quello che viene definito “meccanismo multilaterale di reputazione”, reso familiare agli studiosi del commercio medievale dagli studi di Avner Greif, che hanno costituito un punto di riferimento importante anche per la recente storiografia sui mercanti dell’Hansa (Greif 2006).

Tale storiografia sottolinea dunque che l’organizzazione a network era una risposta piuttosto efficiente ai peculiari problemi posti dal commercio nel Mar Baltico e nel Mare del Nord. I mercanti anseatici, come si è detto, operavano in uno spazio geografico molto ampio, composto da aree caratterizzate da strutture economiche e organizzative assai disomogenee – è evidente che era ben diverso lavorare a Bruges o a Novgorod – collegate da comunicazioni molto lente. All’interno di questo spazio circolava un’ampia varietà di merci: panni, in particolare fiamminghi, inglesi e dall’inizio del Quattrocento anche olandesi, drappi di seta, pellicce, cera, grano, legname, birra, aringhe, stoccafisso, spezie, frutta secca e molto altro. Ciascuna di queste merci aveva una propria catena di distribuzione, che faceva capo a una o più piazze commerciali specializzate, e richiedeva al mercante competenze specifiche (Jahnke 2010; 2015). Le condizioni del commercio variavano continuamente e con rapidità; sulle singole piazze i prezzi conoscevano ampie fluttuazioni a causa dei mutevoli rapporti tra domanda e offerta e di molti altri fattori, come le variazioni climatiche e le vicende politiche e militari.

In un contesto di questo genere, il network era una soluzione molto più flessibile e assai meno costosa della grande azienda organizzata gerarchicamente [7]. Mantenere filiali o anche solo fattori salariati su tutte le piazze commerciali in cui venivano redistribuite le merci del commercio anseatico avrebbe comportato enormi costi fissi – sostenibili solo da compagnie con enormi capitali – in termini non solo di salari ma anche e soprattutto di spese per vitto e alloggio, per la familiarizzazione con l’ambiente imprenditoriale e politico e l’acquisizione delle competenze specifiche necessarie per trattare le merci locali. Peraltro la variabilità delle condizioni e le fluttuazioni dei prezzi avrebbero comportato lunghi periodi di sostanziale inattività o di scarsa produttività per molte di queste filiali. Il ricorso alla collaborazione con mercanti indipendenti già fortemente radicati nei principali mercati risolveva buona parte di questi problemi e consentiva di attivare e disattivare i singoli nodi della rete a seconda delle variazioni della domanda e dell’offerta e delle oscillazioni dei prezzi. La fiducia, che si consolidava con il tempo, attraverso la progressiva costruzione di un rapporto basato sulla reciprocità, ed era rafforzata dal meccanismo multilaterale di reputazione, permetteva al mercante di delegare ai propri partner commerciali gran parte delle decisioni operative, superando almeno in parte il problema della lentezza delle comunicazioni, che impediva la pronta trasmissione di istruzioni e direttive.

Il commercio fiorentino tra Tre e Quattrocento
e il ruolo di Francesco Datini e Hildebrand Veckinchusen

In un recente contributo Ulla Kypta (2017) ha messo in dubbio la contrapposizione tra le forme organizzative dei mercanti anseatici – indicati spesso nella storiografia come basso tedeschi, dal gruppo linguistico di appartenenza – e quelle dei mercanti alto tedeschi, compresi nell’area linguistica che includeva la Germania centrale e meridionale, l’Austria, la Svizzera, l’Alsazia e la Lorena. La studiosa ha sottolineato come in realtà nella seconda metà del Trecento e ancora per buona parte del Quattrocento anche i mercanti alto tedeschi portassero avanti i loro affari per lo più attraverso forme di collaborazione del tutto analoghe a quelle descritte per i mercanti anseatici. A un’artificiale distinzione geografica, Kypta contrappone piuttosto un’evoluzione cronologica. Nel corso del XV secolo si diffuse progressivamente sia tra i mercanti alto tedeschi che tra quelli basso tedeschi la compagnia “all’italiana”; entro gli ultimi decenni del secolo alcune di queste società acquisirono dimensioni importanti, e tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento si delinearono anche grandi e grandissime compagnie articolate gerarchicamente e verticalmente integrate, come i Fugger e i Welser (Häberlein 2016). L’organizzazione a network, in ogni caso, rimase prevalente in entrambe le aree almeno per tutto il XV secolo.

Nelle pagine che seguono mi propongo di dimostrare che gli studiosi tedeschi hanno sovrastimato le differenze tra le forme organizzative dei mercanti anseatici, o “germanici” in genere, e quelle dei mercanti italiani, o più precisamente fiorentini. Questa sopravvalutazione nasce probabilmente da un errore di prospettiva, poiché questi studiosi hanno paragonato il sistema a network che si delinea nell’area anseatica nella seconda metà del Trecento con compagnie fiorentine, in particolar modo le super-companies dei Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli, attive nella prima metà del secolo [8]. Se il termine di paragone è invece, più correttamente, il commercio fiorentino dei decenni a cavallo tra Tre e Quattrocento, a mio parere queste differenze appaiono assai più deboli. Emergono al contrario somiglianze molto interessanti, che suggeriscono, come si vedrà, alcune riflessioni sulle trasformazioni del commercio internazionale nei decenni successivi alla peste.

Il mercante più famoso del Medioevo è il pratese – ma pienamente fiorentino per relazioni commerciali, e dal 1394 anche per cittadinanza – Francesco Datini, grazie all’incredibile patrimonio documentario rappresentato dal Fondo Datini conservato nell’Archivio di Stato di Prato. Datini, nato intorno al 1335 e morto nel 1410, alla fine del Trecento era attivo su uno spazio molto ampio, che andava da Palermo a Londra, da Valenza a Bruges, e comprendeva tutte le principali piazze commerciali europee (Nigro 2010). Come è noto, grazie soprattutto agli studi di Federigo Melis, Datini non operava attraverso filiali, come le aziende fiorentine del primo Trecento, ma attraverso compagnie indipendenti collegate in un “sistema di aziende” creato a partire dal 1382 (Melis 1962; 1989). Si trattava di piccole compagnie che avevano al massimo tre o quattro soci; in molti casi tuttavia il principale investitore non era Datini in proprio ma la compagnia di Firenze, prefigurando, di fatto, una struttura a holding, nella quale una società capogruppo controlla altre imprese giuridicamente autonome attraverso la partecipazione al capitale. Il sistema di aziende, tuttavia, non esaurisce in alcun modo l’ampiezza degli orizzonti datiniani. Nel momento della sua massima estensione, l’agglomerato datiniano comprendeva – oltre naturalmente a Firenze e Prato – Pisa, Genova, Avignone, Barcellona, Valenza e Maiorca. Esso ebbe tuttavia effettivamente questa dimensione per un periodo di tempo molto breve, negli ultimi cinque o sei anni del Trecento. L’azienda genovese fu infatti attiva soltanto dal 1392 al 1401. Dal 1400 Datini non poté più contare su una compagnia collegata a Pisa. In Catalogna, un’area cruciale per i suoi affari, Francesco si servì esclusivamente di corrispondenti fino al 1393, quando i suoi collaboratori avviarono le esplorazioni che nel 1396 avrebbero portato alla fondazione della compagnia divisa di Catalogna, articolata nelle filiali di Barcellona, Valenza e Maiorca. Ma, soprattutto, sono numerosissimi i mercati di primaria importanza con i quali Datini ebbe rapporti intensi e continuativi senza esservi rappresentato direttamente: Montpellier, Londra, Parigi, Bruges, Venezia, Roma, Napoli, Palermo, per fare solo gli esempi principali.

Su tutte queste piazze, e in realtà per tutti gli anni ’80 anche a Genova, Barcellona, Valenza e Maiorca, nonostante la centralità di questi snodi nelle sue strategie commerciali, Datini operava attraverso forme di relazione che sarebbe forse riduttivo definire semplicemente commercio su commissione. Egli si serviva infatti della collaborazione con compagnie – soprattutto, anche se non esclusivamente, fiorentine o toscane – già radicate in quelle piazze (Houssaye Michienzi 2013, 239-73; Tognetti 2020; Palermo 2020) [9]. È interessante notare che anche nei luoghi in cui il sistema datiniano era presente con una compagnia collegata, esso si rivolgeva comunque anche ad altri corrispondenti indipendenti. Queste collaborazioni prevedevano in effetti una commissione, in genere compresa tra l’1 e il 2 % del costo di acquisto o del ricavo della vendita delle merci. Ma la lettura della corrispondenza datiniana mostra chiaramente che non era la provvigione la ragione per cui le compagnie accettavano di accollarsi un impegno che spesso comportava un enorme dispendio di energie e di tempo, oltre a consistenti anticipi di denaro per il pagamento delle merci, delle tasse e di qualsiasi altra spesa (Fiorentino 2007). Il perno di queste relazioni, in genere di lunga durata, era, esattamente come per i rapporti tra i mercanti anseatici, la reciprocità [10]. Ciascuna delle due parti, infatti, agiva contemporaneamente da committente e commissionaria nei confronti dell’altra. In pratica cioè, anche in questo caso, la vera ricompensa per i servizi svolti era poter contare su un’analoga disponibilità da parte dell’altra compagnia, attiva su un’altra piazza. Anche nel caso dei fiorentini queste collaborazioni non erano sancite da contratti che ne definissero e circoscrivessero i termini, ma erano sostenute solo dallo scambio epistolare.

Proprio come nel mondo anseatico, il perno del sistema era rappresentato dalla fiducia e dalla reputazione. Nelle lettere i partner commerciali sono definiti “amici”, e il linguaggio dell’amicizia, della fratellanza e dell’amore permea profondamente tutta la corrispondenza [11]. Così scriveva nel 1405 il mercante pisano Lorenzo Ciampolini, già in stretti rapporti con Francesco Datini, ai datiniani di Maiorca (Poloni 2017, 2019a):

E la ragione di questa è che per la grande fratellansa e amicisia che noi abbiamo con li vostri maggiori aremmo a voi ricorso di quello che al prezente e per l’avenire costì ci acaderà avere a fare, e in voi commetteremo ogni nostra faccienda e commissione, e così potete voi a noi commettere di quello che vedete che per voi qui possiamo fare, a noi potete commettere, commetterolo richamente, che per voi faremmo come per fratelli e per noi propri, e farello volentieri [12].

Con questa profferta formale Ciampolini intendeva avviare una collaborazione stabile con la filiale di Maiorca della compagnia datiniana di Catalogna; da queste righe emergono con chiarezza sia la colorazione intensamente emotiva tipica della corrispondenza commerciale di quest’epoca, sia la forte insistenza sulla reciprocità, sia l’impegno a gestire gli affari degli amici come se fossero i propri, che era alla base della fiducia reciproca. Analogo è il tenore delle rivendicazioni espresse dal fiorentino Bernardo Portinari in una lettera scritta da Roma a Manno d’Albizo, socio e direttore della compagnia datiniana di Pisa, nel 1395:

Ora, Manno, io t’ò detto molto sopra questo fatto, e ciò ch’io ti dicho dicho con fede e con amore, perché ti voglo bene, e anche mi fa un pocho piu allarghare il fare noi le vostre faccende, le quali facciamo con quello amore e fede che le nostre proprie, e ingegnanci di vantagiarvi in tutto chome se per noi propri fosse [13].

Qui “fede” significa propriamente lealtà, affidabilità, i comportamenti che rendono un partner commerciale degno di fiducia.

Si tratta di due esempi casuali, scelti proprio per la loro ordinarietà, perché riecheggiano l’infinito numero di dichiarazioni d’amore, di proclami di amicizia e fiducia reciproca che riempiono le 150.000 lettere datiniane. Il linguaggio dell’amicizia è così pervasivo che tracima dalla corrispondenza e “contamina” le aride fonti contabili (Poloni 2019a). Questa è l’intestazione di un libro delle mercanzie dell’azienda datiniana di Pisa: «Questo libro si chiama i’ libro b delle merchatantie, ove iscriveremo tutte le merchatantie chompreremo e venderemo di nostre e di nostri amici, ed è di Francescho di Marcho da Prato e chompagni da Firenze abitanti in Pisa» [14]. “Amici” diventa dunque vero e proprio termine tecnico, a indicare i corrispondenti datiniani, le compagnie con le quali la società pisana collaborava, e per le quali svolgeva funzioni di agente commissionario su una delle piazze commerciali più importanti del Mediterraneo occidentale. Amicizia è dunque, di fatto, il termine utilizzato dai protagonisti per designare la peculiare forma di collaborazione tra compagnie che caratterizza il commercio fiorentino alla fine del Trecento. Accettando l’amicizia e adottando nella corrispondenza i suoi specifici codici linguistici, i mercanti stipulano di fatto un contratto implicito, assumendosi una serie di obblighi reciproci che non sono definiti formalmente ma si basano su aspettative largamente condivise all’interno del mondo mercantile, e sono comunque altrettanto e forse più stringenti di impegni maggiormente formalizzati (Trivellato 2012, 177-93).

I fiorentini avevano a disposizione un sofisticato sistema legale. Gli statuti della mercanzia, che regolavano l’azione del tribunale mercantile, non contengono norme specifiche relative ai rapporti di commissione. Da sondaggi da me condotti nei registri della mercanzia è emersa comunque con chiarezza l’enorme espansione del commercio su commissione nella seconda metà del Trecento [15]. L’agente commissionario doveva tenere accurata contabilità in relazione alle merci che gli venivano spedite per la vendita o degli acquisti che gli venivano ordinati. È evidente quindi che era possibile intentare una causa nel caso i conti non tornassero, per esempio nel caso l’agente non rendesse conto scrupolosamente di tutto ciò che gli era stato mandato, o non trasmettesse al principale i proventi delle vendite. La notizia di una eventuale condanna costituiva un danno grave o addirittura irreparabile alla reputazione del mercante; in molti casi infatti la denuncia era una strategia per costringere l’altra parte a un accomodamento arbitrale. Il caso fiorentino mostra dunque chiaramente che, come sottolineato dalla letteratura più recente sul contract enforcement, i meccanismi di reputazione e le istituzioni giudiziarie non sono da considerarsi come strumenti alternativi, ma come componenti integrate, che si rafforzano a vicenda, di un unico sistema di controllo e sanzione dei comportamenti opportunistici, fondamentale per risolvere i problemi d’agenzia (Trivellato 2012, 153-76; Goldberg 2012).

Il termine amico, onnipresente nelle lettere e utilizzato persino nei libri contabili, non compare nelle petizioni dei mercanti all’ufficiale della mercanzia. L’agente commissionario è definito “fattore”, esattamente come i dipendenti salariati [16]. Dal punto di vista della strategia legale, ciò ha perfettamente senso, poiché consentiva al querelante di richiedere l’attivazione delle numerose norme, contenute tanto negli statuti cittadini quanto in quelli della mercanzia, relative ai rapporti tra fattori e datori di lavoro, che erano fortemente favorevoli ai datori di lavoro (Astorri 1998, 204). Tuttavia questo significava escludere aspetti fondamentali del rapporto di “amicizia”. Era di fatto impossibile, in effetti, dimostrare in tribunale che un partner commerciale non si era comportato da “amico”, ovvero che aveva infranto il contratto implicito, che non aveva risposto alle aspettative: che aveva acquistato a un prezzo troppo alto, magari merci di scarsa qualità, o venduto a un prezzo troppo basso, che non aveva curato gli interessi del partner con lo stesso impegno dei propri, che si era lasciato sfuggire affari redditizi, che aveva favorito altri mercanti con cui collaborava, ecc. Per tutti questi aspetti i fiorentini non potevano contare sull’aiuto del loro pur ben organizzato sistema legale. Non restava, per loro proprio come per gli anseatici, che la fiducia, che nasceva dalle raccomandazioni di altri amici che si erano già dimostrati affidabili, si consolidava faticosamente nelle interazioni di lunga durata e negli scambi epistolari quasi quotidiani, ed era rafforzata dal timore per la perdita di una reputazione che era qualcosa di molto più complesso e sfaccettato di quanto qualsiasi giudice potesse appurare. Anche in questo modo, la corrispondenza mercantile è piena di lamentele e proteste dei mercanti nei confronti dei loro commissionari. Ma, nonostante la perenne insoddisfazione che trapela dalle lettere, alla fine il sistema, nel suo complesso, funzionava.

Certo i mercanti fiorentini utilizzavano tecniche contabili assai più sofisticate di quelle degli anseatici e padroneggiavano con grande destrezza strumenti finanziari complessi come la lettera di cambio. Ma, tutto sommato, il mondo in cui si muoveva Francesco Datini non mi sembra radicalmente diverso da quello in cui si muoveva Hildebrand Veckinchusen, anch’egli attivo tra la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento, forse il più conosciuto mercante anseatico grazie alla conservazione di una parte della sua corrispondenza e della sua contabilità [17]. Veckinchusen, come Datini, agiva su uno spazio molto ampio, che comprendeva le piazze di Bruges, Anversa, Londra, Colonia, Dortmund, Lubecca, Amburgo, Danzica, Riga, Dorpat (Tartu), Reval (Tallin) e anche Venezia, prendendo in considerazione solo gli snodi principali. Egli fu impegnato in alcune società con altri mercanti anseatici – nella sfortunata compagnia veneziana, fondata nel 1407, investirono ben 12 azionisti –, ma gran parte dei suoi affari passava attraverso quei rapporti improntati alla reciprocità ai quali si è fatto accenno, che lo legavano a un gran numero di operatori sparsi per tutta l’area anseatica. Quella di Hildebrand, certo, non è una storia a lieto fine. Pressato da crescenti difficoltà finanziarie, venne incarcerato per debiti a Bruges nel 1422; rilasciato dopo tre anni, morì in disgrazia a Lubecca, probabilmente nel 1426. Le ragioni del suo fallimento, tuttavia, non hanno nulla a che fare con l’arretratezza o l’inadeguatezza dell’organizzazione dei mercanti anseatici, ma con una serie di scelte avventate e di investimenti poco accorti, oltre che con una personalità difficile che lo mise in contrasto con parenti e collaboratori: quello che definiremmo, insomma, il “fattore umano”. Molti altri mercanti anseatici meno documentati conclusero la loro vita nell’agiatezza, proprio come Francesco Datini.

È vero che il commercio fiorentino della prima metà del Trecento, che è spesso utilizzato come pietra di paragone dagli studiosi dell’Hansa, funzionava in effetti secondo logiche diverse. Le super-companies dei Bardi, Peruzzi e Acciaiuoli, benché in grado, grazie al loro peso straordinario, di influenzare l’intera economia cittadina, sono casi eccezionali, e non possono essere considerate rappresentative della compagnia fiorentina “media”. A Firenze – e se è per questo anche in altre città toscane, come Pisa e Lucca (Del Punta 2005; Poloni 2006; 2009; 2019b) – esistevano tuttavia varie altre aziende di dimensioni importanti, con numerosi soci e capitali ragguardevoli, organizzate gerarchicamente in una rete di filiali (Goldthwaite 2008, 68-78). Anche le compagnie di dimensioni minori, in ogni caso, operavano sulle piazze commerciali estere principalmente insediandovi soci e fattori salariati. Tutto lascia pensare che il commercio su commissione fosse molto meno centrale che nella seconda metà del secolo – del resto, è solo dopo il 1350 che esso compare con prepotenza anche nella documentazione della mercanzia –, e le forme di collaborazione interaziendale, che si sono sommariamente delineate nelle pagine precedenti, assai meno sviluppate (Tognetti 2020).

Ciò che intendo dire è che, a mio parere, la preferenza per la struttura a network rispetto all’azienda organizzata gerarchicamente dipende in gran parte dalle condizioni specifiche che si delinearono nel commercio internazionale nella seconda metà del Trecento, dopo le trasformazioni innescate principalmente dalle epidemie di peste. Tali trasformazioni interessarono l’intera Europa, e questo spiega perché, pur nelle specificità locali, si riscontrano molti punti di contatto tra le forme organizzative del commercio anseatico e quelle del commercio mediterraneo.

Dalla gerarchia al network: la riorganizzazione
del commercio dopo la peste nera

Se osserviamo da vicino le attività commerciali delle grandi compagnie fiorentine dell’inizio del Trecento ci accorgiamo che esse si concentravano principalmente su un numero tutto sommato limitato di merci: per le tre super-companies queste erano in particolare panni fiamminghi, lana inglese e grano dell’Italia meridionale (Hunt 1994); in misura minore panni fiorentini, che non erano ancora quel prodotto di lusso, ricercato su tutti i mercati europei, che sarebbero divenuti nella seconda metà del secolo (Hoshino 1980). Questa relativa specializzazione riguardava anche le altre compagnie fiorentine di un certo rilievo: i della Scala, per esempio, commerciavano principalmente in panni fiamminghi e lana inglese (Borsari 1994), gli Alberti in panni fiamminghi e brabantini (de Roover 1958), ecc. Lo stesso vale anche per le altre maggiori compagnie toscane attive nella prima metà del XIV secolo: le più importanti società pisane trattavano soprattutto lana del Nord Africa e grano sardo (Poloni 2019b), quelle lucchesi, come è noto, erano specializzate nella produzione e commercializzazione dei tessuti di seta (Poloni 2009). Si tratta sempre di una specializzazione molto relativa, poiché tutte le compagnie non disdegnavano di investire più o meno occasionalmente in qualsiasi affare potesse apparire remunerativo: per le super-companies bisogna citare almeno le esportazioni di olio e vino del Sud (Abulafia 1981). Tali affari avevano tuttavia un’importanza secondaria nel quadro complessivo del loro impegno commerciale.

In stretta relazione con questa caratteristica, anche le direttrici principali degli scambi a lunga distanza erano ben definite e piuttosto stabili. La lana inglese veniva esportata principalmente nelle Fiandre, e solo a partire dagli anni ’20 del Trecento anche Firenze si avviò a diventare un mercato promettente per questa materia prima pregiata (Hoshino 1981). I panni acquistati dalle grandi compagnie nelle Fiandre venivano in gran parte assorbiti dall’Italia meridionale, ma anche la piazza avignonese vide progressivamente crescere la propria importanza grazie alla presenza della curia papale. Il grano dell’Italia meridionale prendeva la via delle più popolose (e affamate) metropoli del Mediterraneo (Hunt 1994). I tessuti serici lucchesi erano venduti quasi interamente alle fiere della Champagne fino al 1310-15; in seguito Parigi e Nîmes divennero le principali piazze di redistribuzione nel Nord Europa, sostituite da Bruges dai decenni centrali del secolo (Poloni 2009).

La grande azienda organizzata gerarchicamente è compatibile con questo contesto commerciale. Le compagnie dovevano assicurarsi una presenza costante sulle piazze di redistribuzione delle merci che costituivano il loro core business. Ciò che colpisce immediatamente sono inoltre i grandi – a volte, per le super-companies, enormi – volumi di merci trattate [18]. Nel caso della lana inglese e del grano meridionale, questi grandi volumi dipendevano in gran parte da una situazione di sostanziale oligopolio sostenuta dagli stretti rapporti finanziari con le monarchie (Tognetti 2017; Poloni 2018b). Si tratta ovviamente di un aspetto fondamentale, che non è qui possibile affrontare. Tuttavia, anche nel caso dei panni fiamminghi, il cui commercio si svolgeva in un regime di “libero mercato” – non era cioè allo stesso modo subordinato ai servizi finanziari ai sovrani – le esportazioni delle grandi compagnie sembrano caratterizzate da quantità davvero ragguardevoli. Per fare solo un esempio, un libro contabile della compagnia di Francesco Del Bene e soci ci informa indirettamente che in una sola “recata”, all’inizio del 1319, i Bardi importarono a Firenze qualcosa come 90 torselli – dei quali 19 appunto per conto di Del Bene e soci –, ovvero, considerato che ogni torsello conteneva di solito 11-12 panni, circa 1.000 panni fiamminghi, più o meno 850 se sottraiamo quelli acquistati per la piccola azienda (Sapori 1932, 66). Per avere un termine di paragone, la società di Francesco Del Bene – «un’azienda di tipo medio» nelle parole di Sapori, appartenente all’arte di Calimala e specializzata nel commercio dei panni fiamminghi – in tutto il periodo della sua esistenza, dal 1318 al 1322, acquistò 1.043 panni.

Questi grandi volumi consentivano alle compagnie maggiori di realizzare importanti economie di scala. Esse trattavano da una posizione di forza sia con i produttori – gran parte dei panni importati dai Bardi furono infatti acquistati direttamente nei luoghi di produzione – che con i trasportatori e i patroni delle navi. I grandi volumi permettevano anche di diminuire considerevolmente l’incidenza unitaria dei rilevanti costi fissi esistenti in questo tipo di commercio, come per esempio i costi per l’indispensabile sorveglianza delle merci nelle diverse tappe del loro trasporto e per i “doni” – come vengono definiti nelle fonti –, ovvero le generose elargizioni e “bustarelle” che era obbligatorio distribuire a dazieri, funzionari e ufficiali lungo tutto il percorso (Sapori 1932, 58-101). Per molti versi anche i costi della complessa organizzazione delle aziende maggiori, ovvero dei manager e dei dipendenti di vario livello impiegati per assicurare il corretto svolgimento delle tante operazioni necessarie tra l’acquisto della merce e la sua consegna a centinaia di chilometri di distanza, possono essere considerati costi fissi, e la loro incidenza diminuiva allo stesso modo con l’aumentare del volume. D’altra parte, il coordinamento garantito da una struttura efficiente, impiegata a tempo pieno al servizio della compagnia e organizzata gerarchicamente, era indispensabile per sostenere flussi di merci di questa portata.

Il mondo in cui operavano Francesco Datini e Hildebrand Veckinchusen appare significativamente diverso. Mercanti internazionali del loro livello trattavano un’impressionante varietà di merci, in volumi di gran lunga minori. Si è già detto dell’ampia gamma di prodotti che circolavano nelle reti anseatiche. Il sistema datiniano trattava panni di lana di diversa provenienza – della Linguadoca, della Catalogna, dell’Inghilterra, della Normandia, delle Fiandre, dell’Italia settentrionale, ovvero principalmente milanesi, comaschi, pratesi, senesi, pisani, oltre che, ovviamente, fiorentini (Melis 1989) – fustagni lombardi (Frangioni 1994), tessuti di lino, drappi di seta, lana inglese, lana iberica (Poloni 2019a), cuoia e pelli di varia tipologia e origine (Fiorentino 2007), carta, coloranti, cera, stagno, prodotti alimentari come formaggi, tonnina siciliana, zucchero siciliano, riso, frutta secca, e altro ancora. Ciò aveva conseguenze importanti sull’organizzazione del commercio. Come si è detto, ognuna di queste merci aveva la sua catena di distribuzione che faceva capo a piazze specifiche, e dunque era necessario per i mercanti essere presenti su tutte queste piazze. Peraltro, in un contesto produttivo caratterizzato da scarsa standardizzazione, la valutazione della qualità di ciascuna merce richiedeva competenze specialistiche che si potevano maturare solo con una lunga esperienza.

Le singole piazze, poi, avevano caratteristiche uniche non solo riguardo all’offerta di merci, ma anche riguardo alla domanda (Palermo 2020, 131-47, 156-66). Ciò emerge con molta evidenza dal carteggio datiniano. Per esempio, per quanto riguarda i panni di lana, i corrispondenti datiniani riportano continuamente nelle loro lettere informazioni dettagliate sulle tipologie, le provenienze e i colori dei tessuti che andavano per la maggiore nella città dove operavano (Poloni 2019c; Palermo 2020, 140-7). Sui singoli mercati inoltre, e per le singole merci, il rapporto tra domanda e offerta subiva oscillazioni anche molto rapide, dovute a una molteplicità di fattori poco prevedibili, vicende politiche e militari, andamenti stagionali, accidenti climatici, ma anche semplicemente l’arrivo in porto di navi che sbarcavano grosse quantità di una merce, o al contrario la disponibilità di navi pronte a salpare, che scatenava corse all’acquisto. Tutto ciò provocava fluttuazioni notevoli dei prezzi. Per fare solo un esempio, Giovanni Franceschi, scrivendo da Montpellier per conto della società di cui era titolare insieme a Deo Ambrogi all’azienda datiniana di Pisa, avvisava i suoi corrispondenti che quando le navi stavano per partire il prezzo dei panni della Linguadoca si alzava di mezzo fiorino alla pezza [19]. Dal momento che questi panni costavano tra gli 8 e i 14 fiorini alla pezza, si tratta di un aumento compreso tra il 3,5 e il 6% a seconda della tipologia, capace di incidere in maniera non irrilevante sul margine di profitto.

In questo contesto l’organizzazione “leggera” a network, con la sua flessibilità e agilità, era molto più funzionale della “pesante” azienda organizzata gerarchicamente [20]. Essa consentiva di operare su molteplici piazze commerciali con costi fissi minimi. I guadagni dei mercanti di fine Trecento non derivavano dall’ampliamento dei margini di profitto grazie alle economie di scala legate ai grandi volumi, in alcuni casi possibili grazie a posizioni di oligopolio (o quasi). Essi derivavano piuttosto dalla capacità di sfruttare l’estrema variabilità delle condizioni del commercio, ovvero le continue oscillazioni della domanda e dell’offerta delle singole merci sulle singole piazze commerciali, comprando dove e quando i prezzi erano convenienti e vendendo dove e quando i prezzi erano elevati (Palermo 2020, 137-47). Il network era prima di tutto una vasta rete informativa, che consentiva di avere notizie aggiornate da tutti gli angoli d’Europa. Ma, in un contesto di comunicazioni lente, non c’era reale alternativa alla fiducia, ovvero alla scelta di collaborare con aziende affidabili, che conoscevano approfonditamente le merci trattate sulla piazza e le condizioni del mercato, e di concedere loro un mandato ampio e poco definito, nella speranza che la reciprocità e il meccanismo di reputazione fossero sufficienti a garantire un impegno indefesso e onesto. Il sistema era ben lontano dalla perfezione, i rischi molto alti e i fallimenti all’ordine del giorno. Ma che esso garantisse una vita assai agiata a un gran numero di mercanti, a Firenze come a Lubecca o in tante altre città anseatiche, è indubbio.

Firenze è indubbiamente una realtà privilegiata, sia per quanto riguarda l’abbondanza delle fonti che per quanto riguarda la ricchezza del quadro storiografico. Molto meno sappiamo, a causa di carenze documentarie probabilmente insuperabili, sulle altre due grandi comunità mercantili italiane, quella genovese e quella veneziana. È dunque oggettivamente difficile valutare fino a che punto la lettura qui proposta sia generalizzabile al di fuori del caso fiorentino. Ritengo però probabile che, a problemi comuni, fiorentini, genovesi e veneziani abbiano risposto in modo tutto sommato analogo. Questa ipotesi sembra confermata almeno per Venezia dagli studi tuttora insuperati di Frederic Lane, che dipingono un quadro del tutto simile a quello qui delineato per fiorentini e anseatici. Notando «il largo impiego, da parte dei veneziani, degli agenti commissionari», Lane osserva che «gran parte degli affari di Andrea Barbarigo all’estero furono condotti affidando le merci ad agenti. […] Andrea stesso agì per conto di altri, riscuotendo provvigioni, anche se non si fece pagare per molti affari condotti per conto di parenti e amici» (Lane 1982, 81-2). Le riflessioni di Lane – che scriveva decenni prima che temi come i problemi d’agenzia e i network conquistassero largo spazio nella letteratura economica – sulle logiche di funzionamento del sistema sono anzi un’ottima conclusione per l’analisi condotta nelle pagine precedenti:

La paura del tribunale poteva indurre un agente ad attenersi alle istruzioni ricevute, ma la fedele esecuzione di compiti definiti con precisione non era la caratteristica di cui Andrea aveva maggior bisogno nella condotta dei suoi agenti. Se Andrea voleva ottenere profitti, i suoi agenti dovevano essere in grado di offrirgli la possibilità di approfittare delle situazioni di mercato, se e quando si creavano e l’agente sul posto ne veniva a conoscenza. […] Era più facile ad Andrea Barbarigo inviare esortazioni in merito a questi quattro desiderata – rapidità del giro d’affari, prezzi vantaggiosi, alta qualità e trasporti adeguati – che non istruzioni dettagliate. Molte decisioni dovevano essere lasciate all’uomo del posto, al “fato”, come diceva spesso Andrea. Il massimo che lui potesse fare era di scegliere un agente dotato del giudizio e dei contatti necessari ad organizzare le cose in modo vantaggioso, e poi scovare il modo per indurre l’agente a far uso del giudizio e dei contatti a favore di Andrea. Di conseguenza il rapporto con gli agenti, pur non implicando complessità legali, nella realtà pratica era tutt’altro che semplice (Lane 1982, 86).

Domanda e offerta dopo la peste

La riorganizzazione del commercio a lunga distanza nella seconda metà del Trecento potrebbe essere interpretata in senso “difensivo” come una risposta dei mercanti alla crisi, ovvero alle condizioni avverse del contesto internazionale, segnato dalla contrazione della domanda aggregata causata dal collasso demografico e dalla crescente incertezza determinata dalle ricorrenti ondate epidemiche, dal moltiplicarsi delle tensioni politiche e dei conflitti militari (Munro 1991; 2001) e persino, come una storiografia sempre più ampia sta dimostrando, dai cambiamenti climatici (Campbell 2016). La scelta della diversificazione, ovvero di investire nella commercializzazione di un’ampia gamma di merci, potrebbe quindi essere letta come una strategia volta a minimizzare o comunque controllare il rischio legato all’imprevedibilità e alla variabilità dell’andamento dei mercati internazionali. In un quadro caratterizzato da costi di transazione crescenti, il network era la soluzione più funzionale ed economica per assicurare la presenza su diverse piazze commerciali, e dunque consentire la diversificazione, senza affrontare i costi di una struttura organizzativa complessa e articolata.

Questo aspetto difensivo è senza dubbio presente, ma da solo è insufficiente per giustificare la portata delle trasformazioni tardotrecentesche. Esse necessitano di un modello di spiegazione complesso e multicausale, che tenga conto dei cambiamenti avvenuti parallelamente negli ambiti dell’offerta (ovvero della produzione) e della domanda (ovvero dei consumi), oltre che dell’intermediazione commerciale che le metteva in comunicazione (l’attività dei mercanti), nonché delle connessioni, interazioni e interferenze tra tali ambiti. Dal lato dell’offerta, il periodo compreso tra il 1350 e il 1450 è indubbiamente caratterizzato in tutta Europa da una vera e propria esplosione di specializzazioni produttive, sia in campo agricolo che in campo manifatturiero (Epstein 2006). Si tratta di un aspetto ben conosciuto, solidamente dimostrato e approfondito in un numero assai elevato di ricerche, anche se per lo più di carattere disperso e focalizzate su singole realtà locali o al limite regionali. Molte di queste specializzazioni sembrano avere una prima origine negli anni ’20-’40 del Trecento, ma la fase di reale espansione si colloca per tutte dopo la peste, probabilmente in seguito a importanti processi di riallocazione dei capitali e della forza lavoro legati all’abbandono delle terre marginali e della “ossessione cerealicola”, a una maggiore integrazione dei mercati regionali dovuta ai percorsi di ricomposizione politica che interessarono molte aree europee, e anche o forse soprattutto ai cambiamenti nella domanda (Epstein 2000; 2006).

È infatti ormai un’acquisizione storiografica sostanzialmente con­di­visa che importanti mutamenti nella domanda e nei consumi abbiano in effetti caratterizzato la seconda metà del Trecento. D’altra parte, la circolazione nel commercio internazionale di una gamma così ampia di merci significa di per sé che in varie aree d’Europa – almeno dell’Europa urbana – esisteva una domanda sufficientemente consistente per prodotti di importazione di ogni genere, alimentari e industriali, che non erano disponibili sul mercato locale. Proprio dalla corrispondenza commerciale emerge inoltre che tale domanda era molto più diversificata, segmentata ed esigente rispetto all’inizio del secolo. Per tornare al solito esempio dei panni, chi si poteva permettere panni di importazione, e sembra proprio che non fossero in pochi, non si accontentava più dei buoni vecchi panni fiamminghi, che pure, come la storiografia ha dimostrato da tempo (Chorley 1987), già spaziavano ampiamente dai tessuti di lusso a quelli di prezzo tutto sommato abbordabile. Ora il consumatore voleva poter scegliere tra una notevole varietà di panni di caratteristiche, pesantezza, lavorazione, colore diverso, prodotti in decine di città piccole e grandi o addirittura villaggi in varie aree europee, sulla base delle proprie esigenze, delle proprie tasche, del proprio gusto (Palermo 2020, 140-47). Chi ne aveva le possibilità – e, a giudicare dalla densità delle reti mercantili, non sembra affatto una ristretta élite – voleva una dieta variata e stuzzicante e la disponibilità di prodotti “esotici” come lo zucchero o la frutta secca.

Mi pare quindi che un cambiamento anche rilevante nella struttura dei consumi appaia difficilmente contestabile, anche se le cause rimangono ancora poco afferrabili (Dyer 1998; 2005). I dibattiti sui salari, sulle oscillazioni del reddito pro-capite, sulle variazioni del tasso di disuguaglianza sono accesi e, al momento, si stenta a intravedere una linea interpretativa almeno parzialmente condivisa. Il forte affidamento sulla quantificazione – dei salari e dei redditi, per esempio – non ha in realtà aiutato a portare chiarezza, dal momento che, anche a causa delle difficoltà specifiche poste dalle fonti medievali, il trattamento quantitativo dei dati si basa spesso su presupposti in buona parte arbitrari e facilmente contestabili (Hatcher 2018). Non è ancora del tutto chiaro, per esempio, se davvero i salari reali abbiano subito il forte rialzo che alcuni studiosi hanno ipotizzato, se questo sia avvenuto ovunque, e in quale arco cronologico. Un miglioramento complessivo delle condizioni economiche di fasce abbastanza ampie della popolazione sembra plausibile, unito però forse a mutamenti importanti, di natura anche culturale, nella propensione al consumo [21]. Si tratta di un tema affascinante, che tuttavia rimane ancora quasi interamente da indagare.

La necessità di diversificare il rischio da parte degli operatori internazionali, quindi, si combinava e interagiva con cambiamenti significativi nella struttura della domanda, divenuta più segmentata, fluida e mutevole, e dell’offerta, divenuta assai più ricca e articolata. Tutti questi fenomeni spinsero i mercanti verso una riorganizzazione complessiva delle loro attività commerciali, che a sua volta, contribuendo a contenere i costi di transazione, favorì probabilmente l’incontro tra domanda e offerta stimolando la specializzazione e incoraggiando i consumi. Molti elementi di questo quadro ancora sfuggono totalmente; in ogni caso, dal momento che le condizioni del commercio a lunga distanza come si andarono delineando a partire dalla seconda metà del Trecento non erano radicalmente differenti nelle diverse aree economiche nelle quali si articolava lo spazio europeo, le soluzioni organizzative adottate dalle diverse comunità mercantili sembrano avere molti più punti in comune di quanto la storiografia abbia a lungo ritenuto.

Bisogna anche dire, a mo’ di conclusione, che per quanto la riorganizzazione del commercio internazionale fosse il frutto anche delle difficoltà oggettive alle quali andarono incontro i mercanti in una fase certo di radicale ristrutturazione economica, ma anche di grande incertezza, il network fondato sulla reputazione, la fiducia e la reciprocità aveva eccezionali potenzialità espansive: in effetti, come sta mettendo in luce una storiografia sempre più ampia, esso fu la forma organizzativa prevalente nell’espansione commerciale dell’età moderna [22].


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Note

1. Ewert e Selzer 2016, 29-31, 149-152 riassumono in breve queste posizioni storiografiche. Lo studioso che affermò con più forza l’arretratezza del commercio anseatico, in particolare in confronto alle pratiche dei mercanti della Germania meridionale, è von Stromer 1976.

2. Il riferimento è ovviamente agli studi di Alfred Chandler: Chandler 1977; Chandler e Hikino 1990.

3. Powell 1990; Thompson et al. 1991; Podolny e Page 1998; Lamoreaux, Raff e Temin 2003; Thompson 2003; Smith-Doerr e Powell 2005.

4. Si vedano gli esempi presentati in Selzer e Ewert 2010 e Jahnke 2010.

5. Selzer e Ewert 2010; Jahnke 2010; Schulte Beerbühl 2011; Jenks 2013; Graichen e Hammel-Kiesow 2015, capp. 9-10; Ewert e Selzer 2016, 31-2.

6. Ciò emerge con chiarezza dalle brevi notizie biografiche su ben 346 fattori dei Bardi pubblicate in appendice a Sapori 1955.

7. Selzer e Ewert 2010; Jahnke 2010; Jenks 2013; Graichen e Hammel-Kiesow 2015, capp. 9-10; Jahnke 2015; Ewert e Selzer 2016, 31-2.

8. L’efficace definizione di super-companies è di Hunt 1994.

9. Sono quelli che Federigo Melis chiama «elementi derivati», la cui importanza fondamentale, per le attività datiniane, appare chiaramente dall’efficace rappresentazione grafica elaborata in Melis 1962 e visibile on line all’indirizzo http://www.istitutodatini.it/schede/datini/htm/sistema3.htm.

10. Houssaye Michienzi 2013; Poloni 2017; 2018a; 2019a; 2019b.

11. Padgett e McLean 2011; Poloni 2017; 2018a; 2019a; 2020.

12. Archivio di Stato di Prato (d’ora in poi ASPo), Fondo Datini (d’ora in poi Datini), 1076.16, 25/05/1405, Pisa-Maiorca. Il carteggio datiniano è quasi interamente digitalizzato e disponibile online all’indirizzo http://datini.archiviodistato.prato.it/.

13. ASPo, Datini, 545.44, 31/10/1395, Roma-Pisa; sui Portinari e le loro compagnie si veda Palermo 2020, ad indicem.

14. ASPo, Datini, 377, c. 1.

15. Per fare solo qualche esempio di cause relative a conflitti sorti nell’ambito di rapporti di commissione: Archivio di Stato di Firenze, Mercanzia, 1135, c. 76 r e v (1361); 1136, cc. 37v-38r (1361); 1159, cc. 42v-45r (1371); 1185, cc. 293r-295r (1383); 1190, cc. 76v-79v (1385); 1194, cc. 138r-139v (1386)

16. Si vedano le cause citate alla nota precedente.

17. Graichen e Hammel-Kiesow 2015, cap. 9 e Lorenz-Ridderbecks 2015 sono buone sintesi dell’ampia storiografia precedente.

18. Yver 1903, 123-26; Lloyd 1977, 138-40; Abulafia 1981; Hunt 1994, 38-75.

19. ASPo, Datini, 532.7, 17/08/1395, Montpellier-Pisa.

20. Il rapporto tra aumento e diversificazione dei consumi, ampia gamma di merci in circolazione e organizzazione a network del commercio è stato messo in luce molto bene dagli studi sull’età moderna, in particolare da quelli sull’economia atlantica nel XVIII secolo: si vedano per esempio Hancock 1995; Zahedieh 1998; Gervais 2008; 2012; 2014.

21. D’altra parte, per epoche successive è già stato dimostrato che un effettivo aumento dei salari e del reddito pro-capite non è di per sé una condizione indispensabile per una “rivoluzione dei consumi” (De Vries 2008).

22. Hancock 1995; Lamikiz 2010; Vanneste 2011; Trivellato 2012.