Per la sua posizione di crocevia negli scambi mediterranei e punto di passaggio di importanti flussi migratori ebraici nel corso di oltre duemila anni, l’Italia costituisce un modello paradigmatico di quanto David Ruderman (2010, cap. 5) in un suo recente studio ha definito le “mingled identities”, ovvero le identità ibride e intrecciate che caratterizzano l’ebraismo europeo in età moderna [1]. Questo si riflette nella grande varietà di termini con i quali sono stati designati i vari gruppi ebraici presenti nella penisola italiana, tanto in ebraico che in altre lingue della diaspora. Tale varietà contribuisce a smantellare la perdurante e semplicistica categorizzazione binaria del mondo ebraico, che si vorrebbe diviso prevalentemente tra ebrei sefarditi, di origine iberica, e ashkenaziti, provenienti dall’Europa centro-orientale [2], portando invece alla luce un’ampia gamma di ulteriori raggruppamenti, come quelli rappresentati dalle comunità ebraiche romaniote, siciliane, pugliesi o franco-provenzali. Lo studio di queste diverse denominazioni presenta un interesse particolare utile a capire meglio le modalità con cui gli ebrei percepivano la propria differenza rispetto alle società circostanti ma anche come venivano classificate le diversità culturali e religiose in seno alle comunità ebraiche.
In quanto segue si esamina il processo di consolidamento tra Cinque e Settecento – in quell’arco di tempo conosciuto anche come l’“età dei ghetti” [3] – di una terminologia specifica per definire la singolarità di alcuni gruppi ebraici residenti nella penisola, la cui condizione di “italiani” si rispecchia prevalentemente nell’uso di tre parole: ʾItalqi, ʾItaliano e Lo‘azi. Si tratterà quindi di determinare se vi sia una qualche differenza semantica tra questi termini nei testi ebraici, da chi e in quali contesti alcune classi di ebrei sono definite “italiane” e infine di verificare se l’etichetta di “italiano” indichi un’identità geografica, linguistica, etnica e/o rituale.
La storiografia moderna ha spesso sorvolato su questi differenti termini identitari, riferendosi a essi indiscriminatamente e trascurandone le diverse connotazioni e la loro evoluzione nel corso dell’età moderna. Nessuno studio sistematico ha finora affrontato la questione dal punto di vista di coloro che effettivamente impiegarono tali espressioni, prestando attenzione alle diverse realtà regionali, ai differenti registri linguistici e alle fluttuazioni semantiche del loro uso, dando per scontata la tradizionale tripartizione, già proposta dal rabbino veneziano Leone Modena (1571-1648) nella sua Historia de’ Riti Hebraici (Modena, 1637, 36), della popolazione ebraica in Italia in tre gruppi principali: ashkenaziti, italiani e sefarditi, o nelle sue parole “thedeschi, italiani e levantini”. Ma fu tale categorizzazione sempre e dovunque accettata dagli ebrei come fondamento della propria autoidentificazione?
In questa sede ci si propone quindi, in via preliminare, di affrontare questa domanda attraverso l’analisi di un vasto corpus testuale costituto da fonti legali, liturgiche e letterarie prodotte in ebraico dagli ebrei in Italia durante l’età moderna. A tal fine, si è fatto ricorso agli strumenti digitali messi a disposizione degli studiosi dalla Bibliography of the Hebrew Book (1470-1960) della Biblioteca Nazionale d’Israele con i suoi 115.000 dati bibliografici sul libro ebraico (https://uli.nli.org.il/discovery/search?vid=972NNL_ULI_C:BHB&lang=en), dal sito HebrewBooks.org con i suoi 61.000 titoli accessibili tramite parole chiave, da sefaria.org, una biblioteca digitale ad accesso libero di testi canonici dell’ebraismo, e dal progetto responsa della Bar-Ilan University di Ramat Gan, uno dei più vasti database elettronici al mondo di testi giuridici in ebraico (https://www.responsa.co.il/home.en-us.aspx/). Poiché il materiale italiano risulta talvolta sottorappresentato in questi motori di ricerca, si è spesso integrata l’indagine con l’esame diretto e sistematico di numerosi testi a stampa e manoscritti.
Questo studio deve molto alle ricerche di Miriam Bodian (1994), Matthias Lehman (2008), David Bunis (2008) e, più recentemente, di Jonathan Ray (2020), che hanno studiato le trasformazioni semantiche del termine “sefardita” attribuito a determinate comunità in diversi contesti geografici e storici. Tuttavia, per quanto concerne l’Italia, sussiste ancora una sostanziale confusione riguardante il significato di “italiano” riferito ad alcuni nuclei ebraici, peraltro, non tutti necessariamente stanziati nella penisola o parlanti la stessa lingua. L’ebraismo italiano è spesso trattato come una realtà che non occorre problematizzare, come un gruppo chiaramente definito, considerandosi la componente ebraica italiana derivata senza soluzione di continuità e in blocco da un comune nucleo di famiglie originarie risalenti all’epoca romana, piuttosto che come una costruzione sociale dai contorni labili e dai confini porosi [4].
Non solo fenomeni differenti e un ampio spettro di aggregati ebraici eterocliti sono infatti stati designati con il termine di “italiano”, ma il significato stesso di questa etichetta ha subito considerevoli variazioni nel corso dei secoli. Tale situazione ha indotto una parte della storiografia più recente a usare con maggiore cautela categorie troppo nette, nel tentativo di districare il complesso intreccio delle identità ebraiche italiane costituitesi in età moderna. Anna Foa, riassumendo un lungo dibattito storiografico intorno alla natura dei conflitti e delle divisioni all’interno delle comunità ebraiche della penisola [5], scrive che:
È difficile definire i confini e gli intrecci tra conflittualità politica, sociale ed etnica… l’appartenenza alle diverse sinagoghe non era rigida come potrebbe far pensare la loro denominazione per provenienza, ma era sufficientemente elastica da far ritenere che si trattasse di una scelta e non di un obbligo (Foa 2001, 71-72).
Sebbene non rientri negli obiettivi di questo saggio esaminare l’intensità e la durata dei conflitti che lacerarono i diversi gruppi che costituivano le comunità ebraiche separati per censo o per origine, è tuttavia fondamentale comprendere in che termini furono formulate le diversità che li provocarono, con quali scopi furono utilizzati e quale significato abbiano assunto nel tempo e nei diversi contesti geografici.
“Italiano” come termine di identità geografica e linguistica
In ebraico esistono tre aggettivi che possono essere tradotti genericamente come “italiano”. Il primo, nonché il più antico, è אִיטַלְקִי (ʾItalqi), attestato almeno a partire dal II secolo dell’era volgare. Nella Mishnah, testo legale fondamentale dell’ebraismo rabbinico redatto all’inizio del III secolo, esso compare in due contesti: nel primo per designare una particolare qualità di vino, Ha-Yayin Ha-ʾItalqi (il vino italiano) [6], nel secondo come unità di misura, Ha-ʾIssar Ha-ʾItalqi (l’issar o asso italiano – una piccola unità monetaria) [7]. Si tratta di un aggettivo qualificativo indicante provenienza geografica che deriva dal latino Italicus o, più verosimilmente, dal greco ἰταλικός (Levy 1924). Questa derivazione spiegherebbe la presenza della lettera Qof nella grafia ebraica, invece della forma più regolare che ci si potrebbe aspettare sulla base del sostantivo Italia, ʾItali o ʾItaliani (come nell’ebraico moderno da Russia si forma Russi, da Anglia Angli, da Polania Polani, e così via).
Originariamente, con il termine “Italia”, i greci designavano le regioni meridionali della penisola, la cosiddetta Magna Grecia. Solo negli ultimi due secoli della Repubblica romana il nome “Italia” fu esteso a tutti i territori fino alle Alpi. La definizione istituzionale dell’Italia come regione chiaramente delimitata e geograficamente coerente fu completata in età augustea (Carlà-Uhink 2017). Tuttavia, non è certo se il termine ʾItalqi nella letteratura rabbinica faccia riferimento alla penisola italiana o, piuttosto, all’Impero romano inteso come entità politica più che geografica [8]. Nel Talmud, infatti, l’espressione ʾItalya Shel Yavan (איטליה של יוון) [l’Italia della Grecia] potrebbe riferirsi alla parte orientale dell’Impero, la cui capitale, Costantinopoli, era anch’essa nota con il nome di Roma [9].
Anche in epoca tarda, nel sedicesimo secolo, Rabbi Yoseph Caro (1488-1575), nel suo Kessef Mishneh – commento al Mishneh Torah di Maimonide (1138-1204) – considera che l’aggettivo “italiano” nella Mishnah e nel Talmud non sia necessariamente un indicatore topografico, ma piuttosto un’etichetta generica attribuita a qualunque vino forte, indipendentemente dalla sua origine [10].
Nella lingua che oggi chiamiamo “italiano”, questo glottonimo appare solo nel tardo medioevo. Bruno Migliorini, nella sua classica Storia della lingua italiana, osserva:
Nella latinità medievale accanto a Italia si avevano Italus e Italicus, in volgare mancava ancora un termine. Specialmente oltre le Alpi si tendeva ad usare Lombardo come termine complessivo (Migliorini 1960, 115).
L’etnonimo “Italiano” o “Italiani”, inteso come designazione di un gruppo umano specifico residente in un determinato territorio, compare solo alla fine del XIII secolo, come traduzione del termine francese antico lombart, in una versione toscana del Li Livres dou Trésor (I libri del tesoro, in lingua d’oïl), l’opera enciclopedica del filosofo fiorentino Brunetto Latini (ca. 1220-1294). Tuttavia, come indicatore della lingua, la prima occorrenza della locuzione loquela italiana si trova nel Dittamondo di Fazio degli Uberti (ca. 1301-1367), nella seconda metà del XIV secolo (Beltrami 2007, 182).
Ciononostante, l’uso dell’espressione “la lingua italiana”, difeso nel XVI secolo dagli umanisti veneti Giovan Giorgio Trissino (1479-1550) (Trissino 1524) e Gerolamo Muzio (1496-1576) (Muzio 1582), rimase a lungo controverso tra gli eruditi e pressoché ignorato dal popolo. Per esempio, nel dialogo Il Cesano di Claudio Tolomei (1555), si inscena un dibattito immaginario, tenutosi nel 1525, sull’attribuzione di un nome alla lingua letteraria in Italia, senza che ne emerga un vincitore né una soluzione condivisa. Migliorini (1960, 311-318, 328) osserva che, fino alla fine del XVII secolo, era consuetudine riferirsi alla lingua letteraria italiana come “lingua volgare” o “lingua toscana”, piuttosto che come “lingua italiana”. E, in effetti, Pietro Bembo (1470-1547), nelle sue influenti Prose della volgar lingua, pubblicate nel 1525 e considerate l’atto di nascita ufficiale della lingua italiana, non definisce mai la propria lingua come “italiana”; né nel primo dizionario italiano, il Vocabolario degli Accademici della Crusca, stampato a Firenze nel 1612, si trova un’altra denominazione se non quello di lingua nostra (Paccagnella 1984).
Quando iniziarono gli ebrei in Italia a chiamare “italiano” il o i volgari parlati nella penisola? Sembra che ciò sia avvenuto proprio nello stesso periodo in cui Trissino avviava la sua battaglia per sussumere sotto un’unica etichetta generica tutte le varianti locali della lingua, nel tentativo di “spogliare l’antica Toscana del nome della sua lingua” [11]. È interessante notare che quella che può essere considerata la prima attestazione in ebraico della locuzione לשון איטליאנו (Lashon ʾItalyano, “lingua italiana”) proviene dalla stessa regione di Trissino, il Veneto. Nel Talmud stampato a Venezia tra il 1520 e il 1523 da Daniel Bomberg, gli indici posti alla fine di ciascun trattato sono chiamati in ebraico “registri be-lashon ʾItalyano” (registri in lingua italiana). Tuttavia, ancora nel XVIII secolo, il rabbino cabalista e medico padovano Moshe David Valli (1697-1777), nella sua difesa in ebraico delle virtù della lingua italiana – da lui chiamata Lashon ʾItalyano – avverte la necessità di aggiungere una precisazione esplicativa: Kelomar Tosqano (“cioè: toscano”), forse per distinguere la lingua letteraria da quella parlata (Valli 1996, 370).
L’aggettivo ebraico ʾItalqi, in luogo di ʾItaliano per indicare la lingua, fa la sua prima apparizione nell’opera di Azariah de’ Rossi (1511-1578), Meʾor ʿEnayim (Mantova, 1573-1575) (de’ Rossi 2001). Fino a quel momento, il termine abitualmente utilizzato per designare i volgari italiani era semplicemente Laʿaz o Lashon Laʿaz, come nel Sefer Meturgeman (Il libro del traduttore), il primo dizionario dei Targumim, ovvero delle traduzioni aramaiche della Bibbia ebraica, redatto da Elia Levita (1469-1549), studioso e poeta di origine tedesca residente a Venezia (Levita 1541). “Italqi”, come aggettivo riferito a una lingua, compare sei volte nell’opera di de’ Rossi: tre volte come Laʿaz ʾItalqi, due come Lashon ʾItalqi, e una come lashon laʿaz Italqi, a fronte di una sola occorrenza ciascuna per Lashon Tosqano, Laʿaz ʾItalya e Laʿaz.
Occorre a questo proposito segnalare che il termine laʿaz (לַעַז), tratto da un hapax legomenon biblico (Salmo 114: 1), ha assunto nella letteratura rabbinica, ripreso poi nell’ebraico moderno, il significato generico di “lingua straniera”, spesso scritto con virgolette (לע''ז), a indicare la sua possibile lettura come acronimo di Lashon ‘Am Zar (lingua di un popolo straniero) oppure di Lashon ‘Avoda Zarah (lingua dell’idolatria) (Kessler-Mesguich 2006). Nel Meʾor ʿEnayim, tuttavia, quando esso appare da solo sembra che serva a tradurre il termine italiano “volgare”, inteso come lingua parlata dal popolo, in contrapposizione alle lingue letterarie come il latino o il greco, che Azariah definisce invariabilmente come Lashon (lingua). Questa interpretazione pare confermata dalla lettura che de’ Rossi propone dell’espressione Laʿaz La-Zemer (il Laʿaz per la poesia) nel Talmud di Gerusalemme (Sotah 7b), dove la locuzione è riferita specificamente all’idoneità del greco parlato per la poesia, in contrasto con il greco letterario, destinato alla filosofia, che viene denominato Lashon Yavan (lingua della Grecia) [12].
Un decennio più tardi, nel lessico trilingue, ebraico, latino e italiano, intitolato Dittionario Novo Hebraico - צמח דוד (Tzemach David, ovvero “Il Germoglio di Davide”) (Venezia, 1587), David de Pomis (1525-1588), medico ebreo originario di Spoleto, fornisce un’ulteriore testimonianza del significato di Laʿaz e ‘Italqi, entrambi riferiti alla lingua italiana [13]. Nel frontespizio de Pomis descrive il contenuto della sua opera che presenta “i significati de tutte le voci che si trovano nel presente dittionario con li caratteri hebraici che corrispondeno all’Italiano volgare”. Sebbene il termine “Italiano” possa ancora essere interpretato come aggettivo qualificativo di “volgare”, e pertanto alla stregua di una traduzione della locuzione Lashon Laʿaz (lingua Laʿaz ovvero lingua volgare come in de’ Rossi) che appare nella parte ebraica del frontespizio, l’uso della lettera maiuscola sembrerebbe confermare l’ipotesi di Luisa Cuomo (1982, 17-18) secondo cui “Italiano” avrebbe qui funzione di sostantivo e non di aggettivo. Se così fosse, consapevoli della difficolta di determinarlo in modo inequivocabile, de Pomis anticiperebbe di quasi un secolo la prima occorrenza documentata del termine “Italiano” come sostantivo, tradizionalmente attribuita a Marcello Malpighi (1628-1694) in un testo medico della fine del XVII secolo (Malpighi 1697). Vale inoltre la pena osservare che, nell’introduzione in ebraico al proprio dizionario, de Pomis utilizza le espressioni Lashon Italiano e Lashon Latino, invece di Lashon ʾItalqi e Lashon Romi che Azariah de’ Rossi impiegava in conformità con l’uso della letteratura rabbinica, dimostrando così di preferire le denominazioni correnti nell’italiano del suo tempo alla tradizione letteraria ebraica.
Tuttavia, l’uso di Italqi da solo per indicare l’italiano e quindi indiscutibilmente come sostantivo compare mezzo secolo più tardi nel trattato di grammatica ebraica e dizionario ebraico-italiano Galut Yehudah di Leone Modena (1571-1648), accanto all’espressione Lashon ʾItaliano, che Modena stesso traduce in italiano con tre diverse locuzioni: “volgar lingua italiana”, “lingua tosca” e “italiano” [14]. È importante sottolineare che “italiano”, in quanto nome generico, poteva riferirsi a diversi dialetti. Così, per esempio, quando Yosef ben Yaʿaqov Hay ha-Cohen, nell’introduzione al Sefer Leqet Ha-ʿOmer (Libro della spigolatura dell’Omer) (Venezia: Bragadin, 1717-1718), menziona il Lashon ʾItalyano impiegato dal capo della comunità ebraica di Corfù, Abraham Di Mordo, si riferisce alla variante appulo-italiana parlata dagli ebrei di Corfù nel XVIII secolo, il pugghisu chiamato anche nelle fonti ebraiche ʾApulyanit o Lashon Pulyia (Sermoneta 1988, 144; Belleli 1901-1906; Lelli 2013). Solo a partire dall’Ottocento l’uso sostantivale di “Italiano” si afferma definitivamente, accompagnandosi in modo sempre più frequente dalla forma femminile Italqit, attestata per la prima volta nella traduzione della Bibbia in italiano realizzata da Isaac Samuel Reggio (1784-1855) (Reggio 1818).
In ogni caso, nell’ebraico rinascimentale e in quello dei due secoli successivi, il termine più comune per indicare la lingua italiana tra gli scrittori ebrei in Italia resta Lashon Laʿaz. La Haggadah trilingue pubblicata a Venezia nel 1601 presenta questa dicitura in parallelo a Lashon ʾAshkenaz per lo Yiddish e Lashon Sefarad per il giudaico-spagnolo e lo stesso avviene nel Sefer Musaf Ha-‘Arukh, stampato ad Amsterdam nel 1655 dal medico sefardita, laureato all’università di Padova, Benjamin Mussafia (c. 1606-1675).
“Italiano” come termine di identità etnica e rituale
L’aggettivo ‘Italqi, riferito a persone e quindi utilizzato come segno di identità etnica, designa nella maggior parte delle fonti ebraiche individui e gruppi cristiani. Per esempio, nel citato Meʿor Enayim, ‘Italqi viene sempre applicato a importanti figure della cultura cristiana italiana, come Dante Alighieri, definito Ha-Meshorer Ha-‘Italqi He-Hakham (il saggio poeta italiano) (De’ Rossi 2001, cap. 11). Lo stesso avviene nel Sefer ʾElim di Yosef Shelomo Delmedigo (1591-1655), dove ʾItalqi si riferisce due volte alla lingua e una volta allo studioso Cornelio Frangipane (1553-1643) di Udine, chiamato Ha-Mesapper Ha-ʾItalqi (lo scrittore italiano) (Delmedigo 1629).
Altrimenti, la popolazione non ebraica dell’Italia viene indicata con il termine generico di ʾItalyani scritto in caratteri ebraici. Lo storico Yoseph Ha-Kohen (Avignone 1496 - Genova 1575), nel riferire dei soldati veneziani caduti durante l’assedio di Negroponte nel 1470, li chiama ʾItalyani. (Ha-Kohen 1554). Il pellegrino Elia di Pesaro, scrivendo nel 1563, racconta di aver visto a Corfù Sekhirim ʾItalyani, cioè mercenari italiani, senza alcuna distinzione circa la loro regione o stato di provenienza (Eisenstein 1926, 167). Moshe Basola (1480-1560), nei suoi viaggi a Gerusalemme tra il 1521 e il 1523, annota che nella città santa:
La comunità ha tutti i tipi di ebrei: ci sono quindici famiglie di ashkenaziti e parecchi sefarditi e mustarab, che sono morischi, gli antichi abitanti della terra, e magrebini che sono arrivati dalla Barberia (David 2003, 72) [15].
Tuttavia, sembra che egli non disponga di alcuna categoria specifica per gli ebrei italiani, e quando menziona le sue visite presso i “Batim ‘Italyanim” durante i suoi viaggi intende che fu ospitato da connazionali non ebrei (David 1999, 60). Solo una volta, durante il viaggio di ritorno in Italia, incontra un gruppo di “ebrei italiani”, ma è evidente che tale denominazione indichi ebrei provenienti dallo spazio geografico chiamato Italia, e non un gruppo etnico particolare, dal momento che tra essi figurano siciliani, ashkenaziti e altri ancora.
È degno di nota che questi esempi si trovino in resoconti di viaggio e in lettere inviate da fuori dall’Italia, ovvero in contesti nei quali l’autore è maggiormente incline ad accentuare gli elementi generici piuttosto che quelli particolaristici tanto della propria identità che di quella altrui. Un esempio di questo senso di appartenenza collettiva emerge nell’epistola di Israel da Perugia, che risiedette a Gerusalemme tra il 1517 e il 1523. Il rabbino sottolinea le differenze tra gli ebrei locali da lui incontrati e sé stesso, in quanto rappresentante dei “Benei ‘Italya Ha-Yeqarim” (i cari figli d’Italia), il che giustifica il suo orgoglio per i costumi degli “Italyani” (Yaari 1942, 173).
Secondo il noto fenomeno che Freud (1930) definì “narcisismo delle piccole differenze,” quanto più esigue sono le differenze reali tra due gruppi appartenenti alla medesima collettività, tanto più esse tendono ad assumere proporzioni rilevanti nell’immaginario di ciascuno di essi. Così, allo stesso modo in cui i cristiani tendevano a ingigantire le proprie differenze interne, trascurando invece quelle esistenti tra le varie comunità ebraiche – come appare nella sprezzante affermazione di Gian Gastone de’ Medici (1671-1737), Granduca di Toscana, nel 1715: “non vi sono ebrei nobili e plebei, non vi sono ebrei spagnoli ed ebrei italiani, vi sono solo ebrei” [16] –, allo stesso modo anche gli ebrei tendevano a considerare le società cristiane ospitanti come un gruppo omogeneo, contrariamente alla frammentazione percepita all’interno delle proprie comunità. Ciò contribuirebbe a spiegare perché gli ebrei abbiano sviluppato precocemente una coscienza di identità condivisa da tutti gli abitanti cristiani della penisola e dei tratti comuni della loro lingua – una consapevolezza che in seno alla popolazione cristiana sarà invece ritardata dalle divisioni politiche e dal suo forte radicamento regionale e particolaristico.
L’uso in ebraico di “’Italyani” o “’Italyano” – invece di “’Italqi” – come attributo qualificante degli ebrei compare soltanto alla fine del Cinquecento ed esclusivamente in due contesti: come termine descrittivo di un rito liturgico specifico e come designatore di un particolare sottogruppo all’interno di alcune comunità ebraiche della penisola. Prima della seconda metà del XVI secolo, l’antenato di quello che oggi è conosciuto sotto il nome di “rito italiano” era designato esclusivamente come מנהג בני רומא o מנהג בני רומה (Minhag dei romani) – con alef o con hei – oppure, meno frequentemente, בני רומי (“Benei Romi”) [17]. Il primo manoscritto completo di tale rito risale al tredicesimo secolo (1265) e costituisce la base dell’editio princeps stampata dai Soncino nel 1485-1486, nonché dell’edizione stampata a Bologna da Yohanan Treves nel 1540 con il titolo di Qimḥa de-Avishona, che esercitò un’importante influenza su tutte le successive edizioni [18].
Benché il “Nusakh Benei Roma” (il rito romano) si sia affermato in diverse comunità italiane durante l’epoca dei ghetti, il suo sviluppo e la sua diffusione al di fuori di Roma non furono affatto lineari. Nella sua opera fondamentale sullo Stato mediceo e il ghetto di Firenze, Stephanie Siegmund collega tale trasformazione a una tendenza significativa della storia della prima età moderna, tanto ebraica che cristiana, quella legata alla confessionalizzazione della vita pubblica (Reinhard 1994). Scrive a tale proposito Siegmund (2005, 400-403):
The Italian Jewish identity invoked by the Jews of the ghettos (and referred to by Modena in the same period) may have been facilitated by the printing press: the availability of printed prayer books galvanized loyalty to the Italian rite, not differently from Rabbi Moshe Isserles’ glosses over rabbi Yosef Caro’s Shulhan Arukh contributed to the creation of a standardized and unified “Ashkenazi” rite for the Jews in Germany and Poland.
Tuttavia, assieme alla sua standardizzazione accelerata dalla stampa, il rito romano assimilò anche elementi sefarditi, francesi o ashkenaziti, a seconda del contesto in cui veniva praticato, generando così differenze sostanziali all’interno della stessa famiglia liturgica di origine romana [19].
Quanto è certo è che il primo riferimento al “rito romano” come “italiano” è molto posteriore rispetto alle edizioni di Soncino e Treves, e si colloca verso la fine del XVI secolo. Il primo siddur (libro di preghiera ebraico) in cui è esplicitamente indicato l’essere stato concepito per il “q[ahal] q[adosh] ʾItalyani” (la Santa Congregazione Italiana) risale proprio a questo periodo, stampato a Mantova nel 1571 [20]. Poco dopo, il rabbino di Safed Ḥayim Vital (1543-1620), nel suo Pri ʿEtz Ḥayim (Il frutto dell’albero della vita), basandosi sugli insegnamenti del suo maestro, il cabalista Isaac Luria (1534-1572), enumera quelle che considera le principali suddivisioni liturgiche del mondo ebraico: ashkenazita, sefardita, catalana e italiana, designata quest’ultima con la forma piuttosto insolita di איטאלים (Italiʾim) [21]. Il bibliografo ebreo polacco Shabetai Bass (1641-1718), nella sua classificazione dei maḥzorim (libri di preghiera per le feste), propone una ripartizione delle tradizioni rituali ebraiche leggermente diversa: sefardita, italiana, ashkenazita e polacca (Bass 1680). Ciononostante, nel corso del XVI e XVII secolo, la maggior parte dei siddurim e dei maḥzorim stampati in Italia rimase fedele alla denominazione tradizionale di benei Roma; solo nel Settecento tale denominazione verrà generalmente abbandonata in favore del più inclusivo “’Italyani” [22].
Il consolidamento di una coscienza transregionale del carattere “italiano” del rito romano fu probabilmente ostacolata da tre fattori: la tendenza, tra gli ebrei in Italia, a concepire le pratiche religiose come definite da usanze e minhagim locali; l’assenza di una halakhah (tradizione legale) “italiana” standardizzata, analoga a quella che si affermò nella diaspora sefardita e ashkenazita in seguito alla codificazione giuridica promossa dai rabbini Yosef Caro (1488-1575) e Moses Isserles (1520-1572); e, infine, la notevole eterogeneità etnica delle congregazioni che, sul finire del XVI secolo, iniziarono a essere designate come “italiane” [23].
In effetti, prima della seconda metà del XVI secolo, la suddivisione degli ebrei in differenti sottocategorie era estremamente fluida e molto più diversificata rispetto a quanto avverrà in seguito, nell’epoca dei ghetti. Alcuni gruppi erano identificati in base alla loro origine geografica, come i catalani o i siciliani, altri in quanto percepiti genericamente come stranieri, come nel caso degli “Ultramontani” a Roma, altri infine erano invece distinti per l’uso di un’altra lingua o per la diversa appartenenza rituale, come gli “Ispani” o “Spagnoli”, i “Lusitani” e i “Tedeschi” a Ferrara (Graziani Secchieri 2012). Quando nelle fonti si incontra un gruppo designato come “loʿazim”, vi è un alto grado di incertezza circa il significato di tale termine: può indicare infatti tanto un’entità che parla una determinata lingua, che prega secondo un particolare rito o che condivide un’origine comune. Anche a Roma, il minhag ke-benei Roma non era osservato da tutti gli ebrei che pregavano nelle diverse sinagoghe della città, dove erano praticati almeno dieci riti distinti. Cinque di questi sono sopravvissuti nello stesso edificio fino al XIX secolo: Scola Nova, Tempio, Catalana, Castigliana e Siciliana, sebbene la maggior parte di queste congregazioni finirono con l’adottare il rito romano nelle proprie preghiere (Berliner 1992, 144) [24].
Sembra che l’opposizione tra “Ultramontani” e “Italiani” a Roma abbia istituito una distinzione tra gli ebrei di recente immigrazione e quelli di più antico insediamento, creando categorie tutt’altro che omogenee. Gli “Ultramontani” comprendevano francesi, tedeschi e gli ebrei provenienti dalla penisola iberica, mentre tra gli “Italiani”, oltre ai romani, erano inclusi anche i siciliani, malgrado le notevoli differenze linguistiche e rituali dovute anche al loro precedente status di sudditi della corona aragonese. Per quanto acute le tensioni tra i due gruppi esse non durarono a lungo a tal punto che l’identificazione con l’uno o con l’altro in capo a poche generazioni a causa dei numerosi matrimoni misti era diventata una questione di libera scelta (Lattes 2021, 88).
A Ferrara, la documentazione studiata da Aron di Leone Leoni (1986, 411, 413,442) distingue tra “Vecchi Ebrei”, categoria piuttosto vaga che comprendeva ebrei italiani e tedeschi stabilitisi da lungo tempo nella città, e gli ebrei di “Nazione forestiera”, prevalentemente spagnoli e portoghesi arrivati da poco. Aron Leoni sottolinea inoltre che i matrimoni misti tra i diversi gruppi contribuirono rapidamente a sfumare le loro caratteristiche distintive, non diversamente da quanto accadde a Roma.
Per quanto riguarda Venezia, Benjamin Arbel ha osservato che le congregazioni ebraiche designate dalle fonti italiane come “Ponentini” e “Levantini” erano gruppi altamente eterogenei, costituiti da cristiani nuovi iberici, mercanti che agivano sotto la protezione dell’Impero ottomano e persino sudditi delle colonie veneziane. E ancorché gli ebrei italiani disponessero di una loro sinagoga, “risultavano apparentemente inclusi nei ranghi della comunità tedesca ai fini della rappresentanza politica” nell’assemblea ristretta, l’organo esecutivo della comunità (Arbel 2001, 83, 87). Secondo David Malkiel (1991, 93, 111), gli ebrei italiani e tedeschi a Venezia, nonostante occasionali tensioni, “vivevano anche gli uni accanto agli altri, condividendo case, strade e cortili del ghetto nuovo. Inoltre, l’onomastica indica che contrassero matrimoni misti partecipando insieme a diverse confraternite”.
A Livorno, nel XVII secolo, Luisa Frattarelli Fischer (2009, 182) rileva la medesima tendenza: “le alleanze commerciali [tra sefarditi e italiani] si concretizzarono in alleanze matrimoniali tra i due gruppi” e, ancora più significativamente, a Firenze “l’iscrizione alla Nazione era una scelta e un ebreo italiano poteva entrare a far parte della Nazione sefardita se frequentava per un anno con la moglie e i figli la sinagoga spagnola”. Come a Livorno anche a Pisa i privilegi concessi ai sefarditi vennero progressivamente fin dai primi anni del Seicento estesi a ebrei lombardi, modenesi o dello Stato pontificio, come i Recanati o gli Usiglio che poterono grazie al loro status censitario entrare a far parte dell’oligarchia che governava la comunità, innescando quel processo di ibridazione sefardita italiana che nel Settecento secondo Luzzati è un fait accompli e un tratto caratteristico dell’ebraismo labronico [25].
La maggior parte delle comunità ebraiche in Italia, durante l’epoca dei ghetti, riuscì con successo a istituire organi rappresentativi comuni di fronte alle autorità statali, con l’obiettivo di integrare le diverse componenti etniche in una sola struttura amministrativa, limitando la loro autonomia ai soli ambiti liturgici, culturali e assistenziali.
Ciò avvenne a Roma già nel 1524, con i cosiddetti capitoli di Daniele da Pisa, che stabilivano una partecipazione paritaria al governo della comunità tra gli “Ultramontani” e gli “Italiani” (Milano 1936). A Firenze, nel 1689, gli ebrei levantini e italiani vennero riuniti in un’entità giuridica comune (Viterbo 1997, 146 e Salah 2022, 27), mentre a Livorno, nel 1715, il Granduca concesse agli ebrei privi di ascendenza iberica il diritto di partecipare al consiglio esecutivo della “Nazione” (Toaff 1990, 180-182). Secondo Simonsohn (1977, 499), a Mantova, dopo un breve periodo di conflitti, “le differenze etniche tra italiani e ashkenaziti si attenuarono progressivamente verso la fine del XVI secolo”, anche se “le differenze tra gli ebrei sefarditi e gli altri due gruppi perdurarono fino al XVIII secolo”.
Al di fuori della penisola italiana, nelle comunità ebraiche multietniche dell’Impero ottomano, gli ebrei italiani – quando non disponevano di luoghi di culto dove si praticasse il loro rito, come accadeva a Safed [26] o a Corfù (Carpi 2004) – tendevano invece a fondersi talvolta con il gruppo sefardita, talvolta con le comunità romaniote, ma quasi mai con i piccoli nuclei ashkenaziti (Baron 1983, cap. 86, 55).
“Italiano” come termine di identità politica?
Da quanto precede – e pur tenendo conto che la costruzione di identità complesse come quelle degli ebrei in Italia non può essere ridotta a un unico parametro – sembra che l’auto-percezione di alcuni gruppi ebraici presenti nella penisola in quanto “italiani” si sia consolidata soltanto a partire dalla fine del Cinquecento in concomitanza con la politica segregazionista nei confronti degli ebrei in vari stati italiani e in ambito controriformistico. Sebbene, all’epoca di Leone Modena, nella prima metà del Seicento, la suddivisione degli ebrei residenti in Italia in tre gruppi principali appaia come un dato di fatto, Roberto Bonfil avverte giustamente che occorre “aver cura di non applicare all’intero periodo che stiamo studiando [quello rinascimentale anteriore] l’immagine tracciata da Leone Modena” (Bonfil 1991, 162).
I massicci flussi migratori ebraici del XV secolo, con l’arrivo di numerosi rifugiati iberici e di ebrei dell’Europa centrale, esercitarono infatti un impatto trasformativo sugli ebrei già stabiliti nella penisola, che svilupparono una consapevolezza della propria differenza rispetto ai nuovi arrivati e cominciarono a rappresentarsi come “italiani” a discapito di precedenti categorie locali e regionali, come quella di “romaneschi”, con cui qualificavano sé stessi non solo gli ebrei di Roma, ma anche quelli dell’area campana e della Marca anconetana che parteciparono ai diversi sinodi ebraici del Quattrocento. Con l’affermarsi invece della dicotomia ashkenazita-sefardita a partire del Cinquecento, gli ebrei che non si inquadravano in tali categorie cercarono di stabilire legami più forti con altre comunità presenti in diverse aree della penisola e, nel processo, le etnicità ebraiche minori vennero progressivamente inglobate in categorie più ampie e inclusive, come quella di “italiani”.
Nel trattare il mancato consolidarsi di “comunità francesi” in Italia (fatta eccezione per le comunità di Asti, Fossano e Moncalvo in Piemonte, le cosiddette comunità APAM), Bonfil sottolinea l’estrema debolezza economica di questi esuli espulsi dalla Francia nel 1394 e dalla Provenza nel 1501 che li portarono “ad unirsi agli ‘italiani’, soprattutto quelli insediatisi al centro del paese e sulle coste adriatiche, piuttosto che ai ‘tedeschi’, con i quali avevano maggiori affinità” in quanti i primi erano più agiati dei secondi (Bonfil 1991, 161). Un fenomeno analogo si osserva nel caso degli ebrei siciliani che, essendo numericamente inferiori ai sefarditi nell’Impero ottomano, si assimilarono rapidamente a questi ultimi, più benestanti e influenti, perdendo le proprie usanze distintive [27].
Tuttavia, laddove la forza numerica e censitaria dei diversi gruppi era più equilibrata, le congregazioni ebraiche preesistenti riuscirono a mantenere la propria specificità, pur ridefinendo la propria identità in risposta alle sfide poste dall’integrazione degli ebrei provenienti dall’esterno. A ciò va aggiunto l’impatto della crescita, in epoca moderna, di organizzazioni comunitarie ebraiche relativamente forti in tutta Europa. Come già osservato da David Ruderman (2010, cap. 2), tali istituzioni, complesse e rafforzate, operavano con maggiore efficacia quando riuscivano a centralizzare la rappresentanza delle diverse componenti ebraiche dinanzi alle autorità locali e a fornire servizi religiosi, educativi e assistenziali unificati ai propri membri.
A livello istituzionale, il riconoscimento da parte degli stati peninsulari dell’autonomia giuridica e politica delle collettività ebraiche contribuì a delineare dei contorni più definiti a una società ebraica che, fino al tardo medioevo, era molto più fluida ed elastica. In Italia, tale processo fu accelerato dalla segregazione degli ebrei nei ghetti a partire dal XVI secolo e dalla progressiva istituzionalizzazione ufficiale della comunità ebraica con regole e organi rappresentativi propri. Accanto – e spesso in contrapposizione – alle più antiche denominazioni di Sefarditi e Ashkenaziti, iniziarono così ad apparire comunità e luoghi di culto che per la prima volta venivano designati come “Italiani”.
La formazione di un’identità ebraica “italiana” distinta, alla fine del XVI secolo, rappresenta una svolta nella storia degli ebrei in Italia, ma continua tuttavia a sfuggire a ogni categorizzazione essenzialista. In primo luogo, perché non tutti coloro che da quel momento in poi si definiranno come “italiani” lo erano realmente per discendenza, così come non tutti i sefarditi erano necessariamente originari della penisola iberica, né tutti gli ashkenaziti provenivano dall’Europa centrale o orientale. La scelta di rivendicare un’identità “italiana” – oppure in alternativa “spagnola” o “ashkenazita” – sembra essere dipesa in larga misura da motivazioni politiche, legate alla lotta per ottenere il riconoscimento dalle autorità cristiane e consolidare il proprio potere all’interno della comunità.
Questo si riflette nel fatto che, per quanto alcuni cognomi possano indicare l’origine tedesca o spagnola, ciò non implica automaticamente che i loro portatori appartenessero effettivamente a comunità ashkenazite o sefardite nei luoghi dove risiedevano sul territorio italiano. Così, malgrado il patronimico Luzzatto derivi probabilmente dalla città tedesca di Lausitz nel Brandenburgo [28], e benché a Venezia esistesse una sinagoga ashkenazita che portava il nome di “Luzzatto”, molti membri della famiglia Luzzatto residenti nella città lagunare risultavano però affiliati alla comunità italiana (Carpi 2003). Sul cognome Lampronti ancora si dibatte se esso indichi una provenienza da Heilbronn in Germania o sia invece da legarsi a una trasformazione del patronimico sefardita Ambron o Alperon. In ogni caso, uno dei suoi più insigni portatori, il rabbino Isaac Lampronti (1679-1756), autore dell’opera enciclopedica Pahad Yitzhaq era affiliato alla sinagoga italiana di Ferrara (Perani 2017). Nel 1617, a Roma, alcuni membri della famiglia Di Segni – un patronimico legato alla cittadina di Segni nel Lazio – figurano come rappresentanti delle congregazioni “italiane”, ma numerosi altri sono invece elencati tra gli “ultramontani” (Milano 1962, 23). Fenomeni analoghi sono stati riscontrati riguardo alla presenza, all’interno dell’oligarchia sefardita di Livorno, di famiglie di origine chiaramente italiana, come quella dei Vigevana, proveniente dalla Lombardia e priva di alcun legame storico con la penisola iberica.
In secondo luogo, va tenuto presente che il consolidamento di un rito e di un’identità percepiti come “italiani” avviene in un’epoca in cui i cristiani della penisola non si definivano ancora come “italiani”, ma piuttosto come “fiorentini”, “veneziani”, “milanesi”, ecc. [29]. Dunque, se da un lato, gli ebrei “italianj” fanno la loro comparsa relativamente tardi nella storia dell’ebraismo, posteriormente alla formazione dei gruppi sefarditi e ashkenaziti, d’altro canto, però, la costituzione di un’identità ebraica italiana di carattere transregionale sembra precedere di almeno un secolo la sua affermazione presso le popolazioni cristiane. Lo slittamento semantico del termine “italiano” da indicatore di provenienza geografica a designatore di un’identità culturale ed etnica ci consente di parlare dell’“invenzione” di una comunità “italiana” presso gli ebrei, dotata di proprie istituzioni politiche e religiose, anteriore a quella poi sancita dal Risorgimento a livello nazionale.
Nonostante il termine “italiano”, applicato alla classificazione di alcuni gruppi ebraici presenti nella penisola, possa risultare utile a capire l’autopercezione degli ebrei che vi ricorrono, va però usato con cautela. Esso è stato spesso impiegato dalla storiografia contemporanea in un’accezione assai diversa rispetto a quella attribuitagli dagli ebrei stessi in Italia. Antonio Loprieno (1991, 933) ha giustamente sottolineato che:
vi è una certa tendenza tra gli studiosi non italiani a non tenere pienamente conto della diversificazione della vita ebraica in Italia, trattando l’ebraismo italiano come una semplice variante del mondo sefardita.
Di tale tendenza alla generalizzazione non mancano esempi anche in studi di alto livello dedicati agli ebrei in Italia. Un esempio recente afferma, per esempio, che:
Sephardim are a loose agglomeration of different (ethnic)/national peoples, conventionally divided into two major sub-groups, the Western and the Eastern, the latter comprising the Italian Jews – also referred to as Italkim or Italkian group (Levi 2005, 33).
Ma all’interno dello stesso ebraismo italiano, a partire dal XVIII secolo, si possono rintracciare i primi segnali di una percezione ipostatizzata della propria “italianità”, concepita come una sorta di via di mezzo tra il mondo ashkenazita e quello sefardita, di cui si condividono alcuni tratti comuni. Il rabbino Mosè David Valli (1996), nel suo Sefer Liqutim, scrive infatti:
Se il sefardita ha una mente analitica e l’ashkenazita una mente sintetica, l’ebreo italiano rappresenta una mediazione tra i due, possedendo le caratteristiche tanto dell’uno come dell’altro.
In conclusione, nell’uso del termine “italiano” è necessario evitare due errori. Il primo consiste nell’attribuire retroattivamente a questa etichetta i significati che gli sono associati a partire dalla formazione dello stato nazionale italiano nel corso dell’Ottocento. Il secondo, invece, è quello di sopravvalutare l’importanza delle origini nella costruzione dell’identità, che certamente non giocavano un ruolo paragonabile nel passato rispetto a quanto accade oggi nell’affannosa “ricerca delle radici” caratteristica reazione all’incertezza delle identità, fluide o pulviscolari che dir si voglia, della postmodernità (Appadurai 2001 e Bauman 2011). Difficile e rischioso comunque trarre conclusioni affrettate a proposito di un particolare attaccamento sentimentale a un luogo e ancor meno a una cultura dal semplice fatto di autodefinirsi “italiani” di alcuni gruppi ebraici nella prima età moderna.
Si può invece affermare con una certa sicurezza che, senza la pressione da parte delle autorità cristiane dei vari stati italiani di creare delle istituzioni rappresentative uniformi dell’intera collettività ebraica presente su un determinato territorio da un lato, e dall’altro, il desiderio di alcuni gruppi ebraici di concentrare l’autorità politica interna alla comunità basandosi su specifiche caratteristiche comuni in un processo dialettico di confronto con altri gruppi concorrenti – come i sefarditi e gli ashkenaziti – questa nuova identità “italiana” probabilmente non si sarebbe mai costituita.
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Note
1. Si pubblica in questa sede una versione in italiano, riveduta e con integrazioni, del mio saggio intitolato “On the meaning of ‘Italian’ in early modern Hebrew sources”, già pubblicato in inglese nel 2024.
2. Un classico esempio di questa visione dicotomica della diaspora ebraica attraverso il prisma di due tipi ideali contrapposti appare già nell’importante studio di Zimmels (1958).
3. Anche se non tutti gli ebrei della penisola vissero in ghetti e molti ghetti italiani vennero istituti in tempi e con statuti diversi, si considera tale periodo iniziare con lo stabilimento del ghetto di Venezia nel 1516 e concludersi con lo smantellamento dell’ultimo a Roma nel 1870. Tra la vasta letteratura scientifica dedicata agli ebrei in Italia in questo lungo arco temporale si segnala l’ormai classico progetto einaudiano sulla storia degli ebrei in Italia in due volumi a cura di Corrado Vivanti (1997) e il più recente lavoro di sintesi di Marina Caffiero (2014).
4. Un esempio illustre ma non unico di questo atteggiamento è costituito dalla classica opera di Attilio Milano (1963), più volte ristampata, quando scrive: “l’annosissimo tronco dell’ebraismo italiano… costituisce un unicum nella storia ebraica e in quella italiana perché è non solo il più anziano, ma anche il solo che non abbia mai subito interruzioni nella nuova residenza prescelta… singolare agglomerato di gente che, pur essendo vissuto per oltre duemila anni nella nuova terra a stretto contatto con numerosi altri agglomerati, è riuscito a conservare intatte molte delle proprie caratteristiche originarie” (XXI-XXII).
5. Tra gli storici che più hanno insistito sulla natura etnica dei conflitti intracomunitari Toaff (1984). Per un approccio differente e più sfumato delle divisioni interne alla comunità ebraica romana si rimanda a Kenneth R. Stow (1992).
6. Sanhedrin 8, 2, “Quando è colpevole? Quando mangi un ‘tritamar’ di carne e beva mezzo ‘log’ di vino italiano”. Anche Tosefta, Pesaḥim 2, 9. Le citazioni sono tratte dalla traduzione italiana della Mishnah di Vittorio Castiglioni (1962).
7. Mishnah, Sheviʿit 1, 2-3, “Che cosa si intende per un campo occupato da alberi? Quello nel quale si trovano (almeno) tre alberi in un tratto capace di una Seah di sementa; se (ciascuno di essi) può produrre (tanto) da fare una focaccia di fichi da sessanta mine italiche”; Mishnah, Qidûshin 1, 1, “un ottavo di un asso italiano”; Eduyot, 4, 7; Ḥullin, 3, 2; Mishnah, Kelim 17, 9, “a volte prescrivono una misura più piccola: per i liquidi e le derrate secche, talvolta prescrivono la misura italiana”. Per occorrenze più tardive del termine nel Midrash, Wa-Yiqra Rabba, 37, 3 (composto verso la fine del V secolo secondo Jacob Neusner, o del settimo secondo Leopold Zunz); Yalqut Shim’oni, Remez 938: 30 (XIII secolo circa).
8. Nel suo Sefer ha-Arukh, il lessicografo Nathan ben Yehiel di Roma (1035-1106) nota che le località geografiche menzionate in Ezechiele 27: 7 come le isole di Kittim e Elisha sono identificate nella letteratura rabbinica come parti dell’Italia, da cui si deduce che con questo nome non si intende esclusivamente la penisola stricto sensu.
9. Talmud Bavli, Shabbat 56b dove la creazione dell’“Italia di Grecia” è attribuita all’angelo Gabriele come conseguenza del peccato di Yerovoʿam e che risultò nella divisione nell’VIII secolo A.E.V. nella divisione del regno salomonico in due entità separate, come sarebbe poi successo all’Impero romano tra il III e il IV secolo E.V. Nel trattato talmudico Megillah 6b l’espressione “Italia di Grecia” è esplicitamente legata alla fondazione di Roma, ma bisogna anche tenere conto che Bisanzio ribattezzata Costantinopoli nel 330 E.V. era anche conosciuta con il nome di “nuova Roma”. Trovo meno convincente l’interpretazione di Marcus Jastrow (1886-1903) e seguita da Moshe Arieh Mirkin (1979-1980, 65) nel suo commento al Midrash Rabbah, secondo la quale la regione designata come “Italya shel Yawan” sarebbe invece la Magna Grecia, cioè la parte meridionale dell’Italia. Sulla questione dell’identificazione di Roma nella letteratura rabbinica, si veda Pavoncello (1981), che ritiene che tutte le menzioni di Roma nella letteratura rabbinica si riferiscano esclusivamente a Roma in Italia.
10. Kessef Mishneh su Mishneh Torah, Rebels 7: 2-6.
11. In Trissino (1529), il dialogo si svolge a Roma nel 1521.
12. de’ Rossi (2001), capitolo 56 sull’antichità dell’ebraico e dell’uso dell’aramaico.
13. Su de Pomis si veda Bartolucci (2016).
14. Nella prefazione a Galut Yehudah (Padova: Crivellari, 1640), Leone Modena scrive “lashon darei galil Italia ‘Italqi” (la lingua degli abitanti della regione Italia, l’Italqi). Nella sua autobiografia (Modena 2000, 85), appare l’insolita locuzione di lingua cristiana per indicare o l’italiano o il latino. Nel Sefer Elim (Delmedigo 1629) è incerto se “Italqi” è usato come aggettivo o come sostantivo “be-lashon ʿivriim we-Ashurim we-Kaśdim we-Yawan we-ʿarav we-Italqi we-Sefarad we-Ashkenazi we-Polaqi we-Latin” (nella lingua degli ebrei, dei siriani, dei caldei, della Grecia, dell’Arabia, dell’Italqui, della Spagna, degli ashkenaziti, dei polacchi e del latino).
15. Sui diversi nuclei ebraici a Gerusalemme ai tempi del soggiorno di Basola si veda oltre all’edizione di Abraham David del viaggio di Basola (David 2003) anche Rozen (1980).
16. Citato in Frattarelli Fischer (2009, 184). Tuttavia, Savy (2024, 109-124) propone una visione più articolata secondo la quale i sovrani erano più sensibili alle differenze di provenienza geografica degli ebrei nei loro Stati di quanto si interessassero delle loro diversità religiose e rituali.
17. מחזור כמנהג בני רומה (וונציה: בומברג, 1526), סדר תפלות של כל השנה: כמנהג קהלות בני רומא (וונציה, מארקו אנטוניאו יושטיניאן, 1546), תפילה מכל השנה כמנהג בני רומי (וונציה, אדלקינד, 1519).
18. Si veda l’introduzione di Angelo Piattelli al Seder Tefillot ke-Minhag Benei Roma kefi ha-Nahug bi-Yrushalayim (Sermoneta e Piattelli 2010). Anche Marx (1945, 193-194), e Rivkind (1927-1928, 274-275).
19. Per esempio, Piattelli (Sermoneta e Piattelli 2010, 7), menziona l’influenza ashkenazita e francese nella formazione del Siddur piemontese.
20. Siddur Tefillah Ke-Minhag q”q Italyani (Breviario di preghiere secondo il rito della comunità italiana) (Mantova: defus Meʾir ben Efrayim mi-Padova, 1571).
21. Cfr. Menzi e Padeh (1999, 5). L’opera è stata composta a Safed (c.1572–c.1578 E.V.).
22. Cohen (1966). I libri di preghiera e il materiale liturgico elencati nella Bibliography of the Hebrew Book mostrano la seguente tendenza discendente per la dicitura “benei Roma” (nelle sue diverse grafie): XVI secolo: 15 titoli; XVII secolo: 12 titoli; XVIII secolo: 7 titoli. Per “Italyani” e “Italyano”, non in riferimento alla lingua ma unicamente al rito: XVI secolo: 4 titoli; XVII secolo: 20 titoli; XVIII secolo: 20 titoli, quindi in ascesa.
23. Daniel Carpi (1973, 16) menziona un documento del 1456 che attesterebbe l’esistenza di una “sinagoga italiana”. Se così fosse si tratterebbe della prima testimonianza di questa denominazione. Tuttavia, Carpi non fornisce alcuna fonte diretta, mentre i registri comunitari da lui pubblicati menzionano unicamente la casa di preghiera della “Qehilat ha-Loʿazim”.
24. Sulla storia dell’edificio si veda Migliau (1984). Per quanto riguarda invece l’autonomia di ogni congregazione Di Nepi (2024, 203-220).
25. Luzzati (1998). Anche Cristina Galasso (2002, 19-20) segnala che “nella comunità ebraica di Livorno non si arriverà mai a sanzionare i matrimoni tra sefarditi e italiano-ashkenaziti, ad impedire a quest’ultimi di frequentare le scuole religiose o di usufruire dei sussidi delle confraternite”.
26. A Safed, nel XVI secolo, vi erano dodici comunità ebraiche, tra le quali anche quella degli italiani, che tuttavia erano separati da quelli provenienti dalla Puglia e dalla Calabria. Cfr. Cohen e Lewis (1978, 159).
27. Sermoneta (1988, 134). Gli ebrei siciliani erano essi stessi un conglomerato di persone provenienti da diverse parti del Mediterraneo.
28. Questa la tesi sostenuta, sulla base di una tradizione familiare, da Samuel David Luzzatto (1882). Luzzatto stesso, tuttavia, afferma anche di non essere certo dell’origine del suo lignaggio e di pregare secondo il rito italiano.
29. Sulla formazione della nozione di Italia e di italianità a partire dal tardo Quattrocento sino al Seicento frenata da un lato dal sentimento di appartenenza municipale e dall’universalismo cattolico, ma favorita dal confronto e spesso dalla subordinazione a nazioni straniere, come la Francia e la Spagna, si rimanda al classico studio di Ilardi (1956) e a Prosperi (2007).

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