Storicamente. Laboratorio di storia

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Massimo L. Salvadori, Democrazie senza democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2009, XV-96 pp.

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Attraverso un taglio di alta divulgazione, il volume dello storico torinese ricostruisce la vicenda dell’idea di democrazia, e della relativa prassi, nelle sue due principali articolazioni, la democrazia diretta e quella rappresentativa, nonché nei vari sottotipi in cui esse si dividono.
Partendo dalla caratteristica della democrazia diretta di non comprendere tutti i membri della polis, Salvadori include anche le democrazie popolari in questa categoria pur sottolineandone le differenze con il modello ateniese. Spiace però non trovare alcun riferimento alle possibili degenerazioni oclocratiche di questo modello.
Al fine di studiare le «ragioni per cui l’ideale è entrato in rotta di collisione con la realtà» (p. IX), l’a. fa riferimento a tre tipi di sistemi - quello liberale, quello liberaldemocratico e quello liberaldemocratico di ultima generazione - per poi sottoporli a un’analisi comparativa.
Allontanandosi dalla lezione crociana per cui la democrazia è vista come alternativa al liberalismo, Salvadori vede una continuità tra i due sistemi e, anzi, considera la prima come il compimento del secondo «in conseguenza anzitutto del passaggio dal suffragio ristretto al suffragio allargato o universale», che ha determinato l’avvento dei regimi «liberaldemocratici o tout court democratici» (p. 20).
Il sistema liberale classico ha il merito di avere trasmesso agli altri «le libertà politiche e civili, le costituzioni, le istituzioni parlamentari, la divisione dei poteri», «la partecipazione dei cittadini come individui» (p. 19), ma produce anche un paradosso che lo storico torinese chiama «oligarchia democratica»: le masse popolari ne erano escluse, ma «chi ne era partecipe poteva operare e contare esercitando una reale influenza» (p. 27).
L’allargamento del suffragio dà i natali al primo sistema liberaldemocratico caratterizzato dai partiti di massa che tentano di gestire la rilevanza politica di masse non proprietarie e scarsamente istruite. Questo sistema dura sino agli anni '70 e '80 del XX secolo, quando, nell’analisi dello storico torinese, l’offensiva neolibertista smantellando il welfare state produce il nuovo sistema liberaldemocratico. Spiace notare l’assenza di riferimenti ai cambiamenti strutturali del sistema produttivo, nonché alle ragioni del passaggio dal taylorismo al postfordismo, che sottostanno alle trasformazioni dello Stato sociale spiegando la ratio, non necessariamente ideologica, di alcune di esse.
In ogni caso il sistema liberaldemocratico di ultima generazione è caratterizzato dallo strapotere delle oligarchie politiche e della plutocrazia che lasciano alla legittimazione popolare, necessaria ai governi per sopravvivere, un ruolo esclusivamente passivo. L’a. arriva a dubitare che tali sistemi possano continuare a definirsi propriamente democratici: «sono o no stabilite posizioni di potere inaccessibili al controllo e alle decisioni della maggioranza?» (p. 10); «qual è nelle attuali circostanze la condizione del “cittadino democratico”»? (p. 63). Queste sono alcune delle domande che emergono dal testo e dalle quali scaturisce un affresco inquietante, ma ricco di spunti di riflessione che getta luce sugli elementi critici della situazione attuale: la riduzione del cittadino a passivo consumatore sul mercato della politica, l’erosione delle sovranità statali e la conseguente incapacità degli eletti «di esercitare un potere efficace nei confronti delle oligarchie che guidano l’economia globalizzata» (p. 59).
Traspare però anche un pessimismo di fondo e un certo anacronismo che lasciano in ombra alcune possibili virtualità positive dell’affermarsi di nuovi modelli di cultura e di società, la società della comunicazione e quella della conoscenza, e che ostacolano un giudizio più equilibrato sui fenomeni che vanno sotto il nome di globalizzazione.