Storicamente. Laboratorio di storia
La musica degli anni Sessanta e il movimento giovanile

«Sono musicomani incalliti – si leggeva nel giugno del ’63 su «Vie Nuove» descrivendo i giovani italiani – conoscono ogni mistero del Juke box. […] Il loro bagaglio culturale è ricco di canzoni, di nomi di cantanti, di espressioni di libri beatnik» ( A. Zerbi, La noia dei topi d’oro, «Vie Nuove», 26 (27 giugno 1967)). E infatti, secondo un’indagine Doxa, nell’Italia del 1965, i circa sei milioni di giovani di età compresa tra i 13 e i 19 anni, ciascuno dei quali aveva acquistato nel 1964 almeno un 45 giri a settimana e 22 milioni di dischi, per un totale di 16 miliardi. «Contemporaneamente» - riferiva «Panorama» nell’ottobre del ’66 - «i 20 mila jukebox, funzionanti un po’ dovunque, hanno ingoiato monete da 50 e da 100 lire per complessivi 5 miliardi». Altrettanti soldi erano stati spesi dai giovanissimi per correre in go-kart, bere al bar, andare a ballare e al cinema, abitudini e passatempi vivacemente deplorati dagli adulti. Alle orecchie di questi ultimi, abituati alla melodia e alla forma tradizionale della canzone italiana, la nuova musica suonava rumorosamente assordante. E rumorosamente assordante era il Cantagiro, la manifestazione canora itinerante ideata da Ezio Radaelli nel 1962, che nella seconda metà degli anni Sessanta fu un formidabile strumento di diffusione della musica beat, dei suoi contenuti, dei capelli lunghi e della minigonna.
Secondo Marcello Flores e Alberto De Bernardi, infatti, «gli anni Sessanta non sono solo il decennio dei diritti civili e della guerra del Vietnam, delle rivolte di strada e degli assassinii politici, ma anche dei Beatles e dei Rolling Stones, di Bob Dylan e Janis Joplin, di Jimi Hendrix e Jim Morrison». La musica e il suo linguaggio universale furono gli elementi che “affratellarono” i beat di tutte le nazionalità che iniziarono a viaggiare di paese in paese in autostop e in compagnia di un sacco a pelo dando vita alla generazione dei «giovani che vanno». I Rockes, I Corvi, I Nomadi, Francesco Guccini, L’Equipe 84, I New Dada e tanti altri, inserirono nel contesto musicale italiano oltre ai capelli lunghi, ai jeans e all’abbigliamento stravagante, anche i temi della rivolta sociale. Nei testi, spesso tradotti e riarrangiati dall’inglese, si raccontava il disagio esistenziale della condizione giovanile, la necessità di credere «a un mondo nuovo e a una speranza appena nata», la contrarietà alla guerra e il pacifismo, – Guccini nel 1965 scrivendo Dio è morto immaginò una «rivolta senza armi» - l’insofferenza del mondo giovanile verso i genitori e il mondo degli adulti rivendicando il diritto a vivere una vita diversa. Nelle canzoni beat l’antimilitarismo dava il ben servito alla tematica amorosa, il pacifismo, la protesta contro la guerra del Vietnam e la paura della bomba sostituivano il binomio cuore/amore.