La contestazione della guerra del Vietnam
La guerra del Vietnam ha rappresentato uno spartiacque decisivo che diede la misura dello strappo generazionale avvenuto nella società degli anni Sessanta. Nel corso del biennio 1967 e 1968,
infatti, accanto alle contestazioni relative ai programmi didattici e alla vita privata, molte delle manifestazioni promosse furono organizzate per protestare contro la guerra in Vietnam. Il
Vietnam può essere considerato il vero catalizzatore della rivolta giovanile occidentale: la tenace resistenza del popolo vietnamita al colosso militare americano aveva dimostrato che
l’organizzazione politica poteva sconfiggere la potenza tecnologica. Il 1967 in particolare fu, come ha scritto Aldo Ricci, l’anno del Vietnam.
In Italia come in tutto il mondo si susseguirono moltissime manifestazioni, assemblee studentesche, fiaccolate, raduni nelle fabbriche, veglie di protesta davanti ai consolati USA, roghi di
bandiere americane al grido di “Yankee go home” per protestare contro questa guerra. Mentre Noam Chomsky nella rivista “New York Review of Books” scriveva: «occorre prendere misure illegali per
opporsi ad un governo indecente» anche il premio Nobel per la pace Martin Luther King, nell’aprile di quello stesso anno a New York, si schierò apertamente contro la guerra definendola «il vero
nemico dei poveri». Nella Dichiarazione di Indipendenza dalla guerra del Vietnam egli diceva polemicamente che in quel conflitto vi era il paradosso di un’intera nazione: gli Stati Uniti
dicevano di essere impegnati in una guerra per la libertà del popolo vietnamita quando i neri d’America, ad Harlem così come in Georgia, non godevano di nessun diritto. La guerra del Vietnam,
inoltre, contribuì ad aprire la strada a nuove, e imprevedibili […] prese di coscienza. Prese di coscienza e un «ampio ripensamento collettivo» che stavano maturando e coinvolgendo il mondo
giovanile, intrecciando fermenti nati in “luoghi” culturalmente lontanissimi: dal cattolicesimo post-conciliare ispirato alla Pacem in terris (1963) all’underground americano. In questo
contesto, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Francia al nostro paese, i casi di obiezione di coscienza diventarono sempre più frequenti: sempre più giovani rifiutavano di indossare la
divisa militare.
Negli USA, in particolare, la protesta stava assumendo proporzioni di giorno in giorno più eclatanti: secondo «Mondo Beat» ben 40 mila giovani americani nel ’67 si erano rifugiati in Canada per sottrarsi alla condanna a 5 anni conseguenza del rifiuto a combattere nel Vietnam. Si stava verificando, secondo i capelloni milanesi, una «rivoluzione delle coscienze» che portava le giovani generazioni a condannare qualsiasi tipo di guerra, «con l’implicito rifiuto della giustificazione di giusta o santa, perché la guerra è sempre ingiusta e non è mai santa». A schierarsi fieramente dalla parte degli obiettori di coscienza fu Don Lorenzo Milani, estensore insieme ai suoi ragazzi di Barbiana di un libro destinato a diventare il manifesto del movimento studentesco italiano Lettera ad una professoressa, che nel ‘66 scrisse:
Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ‹I care›. È il motto irriducibile dei giovani americani migliori. ‹Me ne importa, mi sta a cuore›. È il contrario esatto del motto fascista
‹Me ne frego› […].
L’obbedienza non è più una virtù. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi son tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non
credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto.
Da C. Galeotti (a cura di), Don Lorenzo Milani. L’obbedienza non è più una virtù, Roma, Stampa Alternativa, 1995, 25-26; 40.