1. Le discussioni sui libri, soprattutto là dove questi rispondano a una pressante urgenza ma al contempo rifiutino la sminuente etichetta di instant books, dovrebbero sempre svolgersi con salutare ritardo. Il presentismo, che mette la data di scadenza alle idee, è una patologia cronica del nostro tempo, il cui indice è un’industria culturale in cui, assai significativamente, si recensisce un libro il giorno stesso della sua uscita. Diversamente, il rischio è di farlo soffocare dalla mostruosa offerta culturale che affolla scaffali reali e virtuali, e che sforna libri alla stessa velocità con cui li liquida. Si tratta di una tendenza che purtroppo ha contagiato anche il campo accademico, nonostante questo abbia la presunzione di autorappresentarsi l’ultimo avamposto, privilegiato e perciò sospetto agli occhi altrui, di una capacità analitica immune agli schiaffi del qui e ora. Quanto questa immagine di un’accademia fiera di essere una riserva indiana sia una favola è noto a chiunque la bazzichi. Nondimeno, a mio parere è necessario recuperare l’idea, da avanzare con il tono dello sprovveduto, che il banco di prova della teoria sia il tempo, coltivando la distanza come esercizio per una migliore messa a fuoco e un bilancio più consapevole. È per questo che ho accolto con piacere l’invito a intervenire sul libro di Mariano Croce e Andrea Salvatore Che cos’è lo stato d’eccezione, pubblicato nel 2022: nell’accelerazione del mondo della cultura, due anni sono un eone.
Dichiaro sin da subito che il libro mi trova d’accordo nel suo intento generale, che è quello di sottoporre a critica radicale una certa visione dello stato d’eccezione – il cui principale interprete, nonché il più solido, è senz’altro Giorgio Agamben (Agamben 2003) – quale dispositivo capace di riformulare da zero, come in laboratorio, l’ordine sociale e il comportamento dei soggetti; e nel suo intento particolare, che è quello di valutare questa interpretazione energica ed estensiva dello stato d’eccezione misurandola con lo scenario pandemico. Di nuovo, anche in questa considerazione della pandemia come occasione còlta per sprigionare poteri, coazioni ed esperimenti sociali che solamente la radicale messa tra parentesi dell’ordinamento giuridico rende possibile, le riflessioni di Agamben, interventi occasionali ma in seguito raccolti in volume (Agamben 2020), hanno giocato un ruolo decisivo non solo a livello strettamente accademico, ma incredibilmente in un pubblico generalista, quando non direttamente tra gli addetti alla politica istituzionale ai suoi più alti gradi. Basti pensare all’audizione del filosofo in Commissione affari costituzionali del Senato del 7 ottobre 2021. Che un filosofo venga chiamato a fornire la propria versione dei fatti dinnanzi a un simile consesso è, se non un hapax, quantomeno inconsueto.
Messe dunque le mani avanti, anticipo che le mie poche e superficiali critiche sono da ricondurre al gioco dialettico. Più che di critiche, direi che si tratta di una serie di sospetti. Da un lato, credo che Croce e Salvatore siano eccessivamente ottimisti nella capacità della società di essere auto-ordinata e di non cedere alle coazioni ordopoietiche e normopoietiche. Parti della loro proposta sono sorrette da un immanentismo sociale radicale che andrebbe problematizzato. Inoltre, credo che le capacità ordopoietiche dell’eccezione (ma anche dell’emergenza, che se è corretto e doveroso distinguere nei testi di Schmitt, tendono a essere maggiormente confuse nella realtà pratica) richiedano, per un bilancio opportuno, di essere misurate non tanto nell’immediato quanto, mi si perdoni la vaghezza, nel medio e lungo periodo. Una misura emergenziale a cui facciamo ricorso collettivamente in uno scenario eccezionale può non apparire stabilizzata nell’immediato, ma sedimentarsi e rivelarsi come pratica socialmente acquisita a distanza di tempo. Infine, sono meno propenso di Croce e Salvatore a considerare l’eccezionalismo di Schmitt, pensatore con cui gli autori fanno i conti da tempo, una parentesi da ridimensionare fortemente del suo itinerario filosofico lungo e accidentato. Il dato temporale, peraltro innegabile, che Croce e Salvatore richiamano a tal fine, secondo cui Schmitt sarebbe radicalmente eccezionalista solamente in un arco di tempo molto breve della sua riflessione, non mi sembra un argomento conclusivo. Se c’è un pensiero “radicale” di Schmitt, ritengo sia quello dell’eccezione intesa come origine del politico nella sua forma estrema, ossia sovrana. Non credo che Schmitt possa essere considerato un pensatore istituzionalista di vaglia, per quanto la sua opera manifesti senza dubbio tratti istituzionalisti che Croce e Salvatore hanno avuto il merito di introdurre nel dibattito italiano e non solo.
2. Mai partire in medias res. Per comprendere la posta in gioco del volume è necessario inscriverlo in un più ampio progetto filosofico. Come dicevo, gli autori sono noti, a livello nazionale e internazionale, per avere intrapreso nell’ultimo decennio una coraggiosa e originale impresa di integrale rilettura di Carl Schmitt. In questa direzione vanno i loro contributi più apprezzabili e più discussi (Croce e Salvatore 2013; 2020; 2022b). La cifra della loro interpretazione consiste nella valorizzazione di una prospettiva istituzionalistica della riflessione di Schmitt, che prediliga luoghi altri rispetto ai canonici cardini della filosofia schmittiana. Che, per sintetizzare brutalmente, vedono in Schmitt il pensatore dell’eccezione sovrana e, conseguenza diretta di questo filone interpretativo predominante (non solo in Italia), nell’eccezione come luogo originario della politica la cifra fondamentale del suo pensiero (Nicoletti 1990; Galli 1996; Preterossi 1996). La rilettura contropelo dell’opera schmittiana da parte di Croce e Salvatore, preparata da numerosi interpreti, direi che si è cristallizzata nel saggio del 2020 L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione. A ben vedere, per gli autori non si tratterebbe di sovra-interpretare Schmitt per scollegarlo dal problema dell’eccezione. L’operazione è apparentemente più modesta (ma qui siamo nel campo della finta modestia, perché si tratta di fare i conti una volta per tutte con la lettura mainstream e con un canone interpretativo acquisito), limitata a un’analisi attenta e ravvicinata dei testi. In ogni caso, i nuclei fondamentali dei lavori precedenti trapassano in Che cos’è lo stato d’eccezione, che ne fornisce un compendio strategico.
Anzitutto, la strategia interpretativa di Croce e Salvatore procede da una diminutio del significato di Teologia politica sia dal lato della sua effettiva carica teorica, sia da quello del suo rilievo nell’economia del pensiero di Schmitt. Solo rimettendo in discussione il ruolo della Teologia politica, in quanto testo nel quale Schmitt scommette con maggior forza sulla bontà teorica dell’eccezione, è possibile ampliare lo sguardo sull’opera del giurista rivitalizzandone aspetti negletti. La schiettezza non manca. Il concetto di eccezione, per come emerge in Teologia politica, descrive “un paradigma […] del tutto inadeguato” (Croce e Salvatore 2022a, 76). La capacità di Schmitt di distinguere con chiarezza il concetto di eccezione (Ausnahmezustand) da altri affini (soprattutto Ernstfall e Notfall, ma potremmo aggiungere anche il Belagerungszustand su cui si era impegnato in anni appena precedenti) ha come contrappasso una tesi “sostanziata con fumose allusioni anziché argomenti circostanziati” (Croce e Salvatore 2022a, 76). L’eccezione, in quanto sospensione di un ordine non solo giuridico ma anche di normale socialità, sarebbe capace, nella versione mainstream dell’esegesi di Schmitt, di riallocare del tutto gesti, aspettative, comportamenti sociali. L’eccezione o è ordopoietica, e dunque normopoietica – perché un nuovo ordine produce una nuova norma, o quantomeno le sue condizioni materiali e spirituali –, oppure non è. A essere sacrificata dallo stato di eccezione è la normalità contro cui esso violentemente si staglia:
se è vero che a essere sospese sono le regole del sistema giuridico, è difficile pensare a una vita normale senza quegli schemi comportamentali, contenuti nelle leggi, che consentono di pianificare le azioni ed evitare conflitti distruttivi. In sintesi, ciò che, rispetto a una normale emergenza, caratterizza lo stato di eccezione non è l’impossibilità di proseguire il normale corso dell’esistenza di un’intera popolazione, bensì l’instaurazione di un ordine alternativo all’ordine costituzionale (Croce e Salvatore 2022a, 80).
Nondimeno, è proprio questo stravolgimento completo e radicale, per cui nell’analogo teologico-politico imbastito da Schmitt lo stato di eccezione richiama il miracolo, a essere oggetto di critica in Croce e Salvatore. In realtà, non si tratterebbe tanto di ricreare a tavolino un nuovo ordinamento, quanto piuttosto di selezionare nel materiale sociale pre-esistente alcune forme comportamentali rispetto ad altre, senz’altro quelle più adeguate a sorreggere e tollerare i poteri emergenziali:
se è vero che l’azione del sovrano non è autorizzata da nulla, se è vero che la sua attività non può essere regolata dalla Costituzione né giudicata in basa a essa, è altrettanto vero che deve sapersi radicare in un contesto, che è quello della comunità statale in cui (e su cui) interviene (Croce e Salvatore 2022a, 84).
Potremmo riformulare così: l’effettività dell’eccezione, ossia l’abilità del decisore, del “chi” della sovranità, consiste nell’indovinare quale eccezione, quale livello di eccezionalità una data comunità sociale sia disposta ad accettare in condizioni emergenziali. E se questa opzione interpretativa può essere, con qualche sforzo, tirata direttamente dal testo schmittiano (sin dal suo folgorante incipit: “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”: Schmitt 2013, 33), Teologia politica si dimostra un testo particolarmente deludente, che allude senza dimostrare, che procede per trionfali pennellate, la cui assenza di rigore è bilanciata solo dalla spregiudicatezza di ciò che si sentenzia. Insomma, “il testo del 1922 si rivela poco più che un querulo richiamo a una forma di governo risoluta e autoritaria, descritta come capace di tagliar corto con le lungaggini della politica rappresentativa” (Croce e Salvatore 2022a, 86).
3. Non vi è dubbio che il tasso di stridula polemica di Teologia politica sia alto. Non è però, in quegli anni, privo di argomentazione e sforzo teoretico. Si farebbe un torto a Schmitt se non si iscrivesse la teoria dell’eccezione in un progetto politico e polemico più ampio. Il vero nemico di Schmitt, dichiarato a ogni occasione utile e rispetto al quale non ha mai indietreggiato di un solo passo, è il parlamentarismo, che nel saggio del 1923 su La condizione storico-spirituale dell’odierno parlamentarismo – scritto pressoché in contemporanea alla prima redazione della Teologia politica – diventa un bersaglio colpito da ogni parte. Il parlamento è il braccio istituzionale di un liberalismo interpretato “come sistema coerente, completo, metafisico” (Schmitt 2004, 50), che l’opzione decisionistica ha il compito storico di spazzare via: la clasa discutidora (l’espressione è di Donoso Cortés, “eroe” schmittiano e sua controfigura), ossia la borghesia, fa del parlamento il luogo dell’eterna discussione, della commissione d’inchiesta permanente, e rende così impossibile l’unica attività davvero rilevante politicamente, ossia la decisione, che per essere “eminente” abbisogna di una eccezione sulla quale trionfare. Non solo. Il parlamento è altresì il luogo in cui si manifesta, attraverso la concertazione di interessi talvolta contrapposti e incompatibili, la disomogeneità del corpo sociale, segnato da un pluralismo le cui pressioni sullo Stato risultano a lungo andare insopportabili. Questa è anche la diagnosi schmittiana relativa alla “fine” di Weimar, quella improvisierte Demokratie (Eschenburg 1964) che nel 1933 è destinata a crollare definitivamente, ma che sin dal primo vagito ha cominciato a sfibrarsi. Schmitt di questo passaggio epocale è testimone diretto non solo per ragioni temporali, ma perché partecipa in prima persona agli ultimi giorni di Weimar (Beaud 1996) in cerca di un nuovo posizionamento che la caduta in disgrazia del gabinetto von Papen, cui Schmitt era politicamente legato, imponeva (Bendersky 1989, 188-195, 220-226; Ruschi 2012).
La letteratura da prendere in considerazione per approfondire il ruolo di Schmitt nel “suicidio” di Weimar (che è invero assai modesto) sarebbe gargantuesca e non è questa la sede per farlo. Nondimeno, è importante richiamare questo aspetto perché, nell’interpretazione di Croce e Salvatore, proprio nelle opere degli anni Trenta è possibile trovare il compiuto basculamento dall’opzione eccezionalista a quella istituzionalista, dimostrata da un lato dall’interesse verso “il pluralismo delle pratiche sociali e il proliferare di forme non-statali di associazione” (Croce, Salvatore 2020, 11), dall’altro dal ruolo della giurisprudenza e della corrispondente classe dirigente, i giuristi, nel selezionare le opzioni migliori per garantire quell’ordinata continuità che l’eccezione non è in grado di assicurare. Più in generale, si tratta di sostituire al ruolo del potere costituente, che è in grado da solo di compiere quella grande decisione che nella Verfassungslehre (1928) è considerata la forma estrema di costituzionalismo esistenzialista (e quindi l’unico davvero politico: Pomarici 2019), con quello più sobrio e moderato dell’organizzazione:
l’intuizione dell’istituzionalismo giuridico è che il diritto non sia né comando né decisione, bensì anzitutto organizzazione: un rapporto è giuridico non già se viene posto o riconosciuto dallo Stato, ma in quanto esito della spontanea tendenza dei singoli a coordinarsi e auto-organizzarsi (certo, non senza conflitti e tensioni) al fine di regolare le loro interazioni, prima e indipendentemente da ogni eventuale imposizione di un’autorità esterna (Croce e Salvatore 2022a, 146-147).
Secondo gli autori la prospettiva teologico-politica intesa come eccezionalismo è ormai compiutamente superata in favore di una visione auto-poietica della società, nella quale il diritto è chiamato non a istituire un ordine ma a selezionare le opzioni ordinative più stabili. La stabilità sociale, insomma, si ottiene scommettendo su determinate opzioni sociali già presenti, non ricreandole dal nulla come in un rinnovato contratto – che è il lato “tecnico” e non “esistenziale” della politica moderna, e il cui studio ravvicinato permetterebbe una migliore valutazione dello Hobbes schmittiano (Müller 2010) –, facendo rientrare dalla finestra sul retro quel razionalismo fondazionalista che era stato fatto uscire dalla porta di servizio. Il potere si fa non più “eccezionale”, ma sobriamente moderato, intelligente e razionale, capace cioè di individuare le opzioni maggioritarie consolidate e operare pastoralmente per riattivarle, aggregando nuovamente il corpo sociale in sfacelo. In questa lettura del diritto, esso è “essenzialmente auto-organizzazione dal basso” (Croce e Salvatore 2022a, 147).
Certo, non è il caso ora di esagerare. Schmitt, come sottolineano Croce e Salvatore, accoglie sì alcuni punti della prospettiva istituzionalista, ma pur sempre in un quadro conservatore (se non reazionario). L’istituzionalismo schmittiano andrebbe declinato in un senso decisionista, nel quale
solo alcuni modelli sociali – per esempio, il buon padre di famiglia, il soldato valoroso, il ligio burocrate – vanno protetti e tutelati, escludendo quelli che, proprio perché parimenti funzionanti e sufficientemente diffusi, potrebbero mettere a rischio la necessaria esclusività dei primi (Croce e Salvatore 2022a, 150).
Nondimeno, sono meno propenso degli autori a vedere in questo slittamento di paradigma sia un rifiuto categorico del “decisionismo”, che in un’ottica istituzionalista viene retrocesso al rango di aggettivo, sia una ritirata dall’eccezione in quanto strumento di sospensione dell’ordine e possibilità di produzione di un ordinamento nuovo. Il problema, se è vero che la società è meno malleabile di quanto i critici (che però ne sono sostenitori teorici) dell’eccezione come momento ordopoietico pensino, diventa in realtà come legittimare questo nuovo ordinamento. Non solo nel senso della sua giustificazione, ma in quello della sua possibilità effettiva. Non credo insomma che in gioco vi sia unicamente la questione della selettività di opzioni pre-esistenti, o quantomeno la loro esistenza sufficientemente stabilizzata, ma anche l’insinuazione di modelli inediti di vita associata. Temo che di fronte a certi usi degli strumenti eccezionali il livello di guardia vada alzato rispetto all’interpretazione di Croce e Salvatore.
Per fare ciò, suggerisco di riandare a un altro testo schmittiano di quegli anni, che a mio parere Croce e Salvatore sbagliano a non valorizzare, e che potrebbe complicare il quadro. Si tratta della prolusione pronunciata da Schmitt il 23 novembre 1932 dinnanzi al “Verein zur Wahrung der gemeinsamen wirtschaftlichen Interessen in Rheinland und Westfalen”, rinominato non senza ironia “Langnam Verein”. Si trattava di un’unione di industriali che precettava intellettuali di vaglia dell’epoca al fine di elaborare una soluzione alla crisi economica che dal 1929 devastava la Germania e di cui la Costituzione di Weimar, con il suo sottofondo socialdemocratico – si pensi all’art. 151 che inaugura il capo dedicato alla Wirtschaftsleben: “l’ordinamento della vita economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo” (Mortati 2019, 97) –, veniva incolpata. Schmitt fornisce la soluzione richiesta ricorrendo a due strumenti che a mio parere complicano, o quantomeno integrano, la ricostruzione di Croce e Salvatore: la manipolabilità dall’alto della società (ossia: dell’opinione pubblica) e il possibile ricorso allo stato d’eccezione tramite richiamo diretto e senza mezzi termini all’art. 48.
Schmitt rielabora la sua prolusione tra il 2 e il 4 dicembre del 1932 e la pubblica per la prima volta nelle Mitteilungen dell’associazione, per poi riproporla nel 1933 sotto il titolo di Starker Staat und gesunde Wirtschaft [Stato forte ed economia sana]. En passant, si deve sottolineare che il revival di questo testo, che attualmente gode di una considerevole fortuna, è stato in parte scatenato dal lavoro di Wolfgang Streeck (2015), intellettuale tedesco della sinistra radicale, che vi ha visto il paradigma per leggere l’attuale configurazione liberal-autoritaria delle istituzioni fondamentali europee. Ora, non si tratta di approfondire l’ipotesi di Streeck, che non condivido e che altre hanno decostruito con perizia (Malatesta 2021; Atzeni 2023), mostrando la fallacia della continuità storica ch’essa presuppone. Ciò che [si] rileva in questa sede è la cifra teorica del testo di Schmitt.
Per risanare l’economia di Weimar, che è “malata”, è necessario che lo Stato si faccia carico di una grande decisione spoliticizzante e che si separi dalla sfera economica, per lasciare prosperare in essa le logiche della concorrenza. Si tratta di operare una rinnovata Entpolitisierung del campo economico in modo da rendere possibile l’auto-regolazione dei processi di mercato che, a differenza della dottrina classica del laisser-faire, per Schmitt (e per il nascente ordoliberalismo: Bonefeld 2017) non sono in grado di stabilizzarsi naturalmente. Questa grande decisione rappresenta il trascendentale politico per il dispiegarsi di quello che Hermann Heller definirà a stretto giro, in maniera non priva di ambiguità, “liberalismo autoritario” (Heller 1998, 175-188), e che si risolve essenzialmente nel chirurgico e doloroso smantellamento di qualsivoglia politica sociale (Chamayou 2018, 203-261). Un nuovo ordine economico procede dunque da quello che si potrebbe definire, con qualche forzatura, uno “stato d’eccezione economico” [wirtschaftlicher Ausnahmezustand], espressione cui Schmitt fa esplicitamente ricorso in Der Hüter der Verfassung. Weimar si può salvare, insomma, solo se rinuncia al suo spirito, solo se alla democrazia sociale si sostituisce l’autoritarismo dello Stato totale (Galli 2019, 49).
Ma vediamo come si definisce questo Stato totale – l’insistenza sulla dimensione non totale ma “totalitaria”, che il Novecento ha tristemente imparato a conoscere, sarà di un giovane Marcuse, che per primo presenterà questo aggettivo nel dibattito tedesco (Marcuse 1969, 3-41). Ci sono due caratterizzazioni possibili. La prima fotografa lo Stato totale weimariano, che è in realtà uno Stato debole perché si lascia piovere addosso pressioni sociali e richieste economiche, e il pluralismo che determina la disomogeneità tedesca e si riversa sull’incapacità dello Stato nel soddisfare interessi molteplici e incompatibili, segno di una rovinosa “policrazia” (Schmitt 1981, 141-146).
Lo Stato tedesco odierno è totale per debolezza e mancanza di resistenza, per l’incapacità di far fronte all’assalto dei partiti e degli interessi organizzati. Deve cedere a tutti, accontentare tutti, e venire incontro contemporaneamente agli interessi più contraddittori (Schmitt 2019, 12).
Questo Stato, debole in quanto incapace di assumere la decisione della spoliticizzazione del campo economico, oggetto della società e non soggetto della sovranità,
è totale in un senso puramente quantitativo, nel senso del mero volume, non dell’intensità e dell’energia politica. È lo Stato tedesco dei partiti. Il suo volume è enormemente esteso. Si occupa di tutte le faccende possibili, non c’è nulla che non abbia a che fare in qualche modo con lo Stato. Non c’è quasi più una bocciofila che, per poter sopravvivere, non debba intrattenere una qualche buona relazione con lo Stato […] (Schmitt 2019, 11-12).
Cosa contrapporre a questo Stato totale debole? Ovviamente lo Stato totale forte, che è totale non per estensione ma per energia, là dove l’energia è votata alla grande decisione per la separazione del campo politico da quello economico. Il segno distintivo dello Stato forte è la spoliticizzazione. Nondimeno, come aveva notato Heller, a cui si potrebbe d’altronde rimproverare un’eccessiva illuministica fiducia, o perlomeno una speranza malriposta, “nelle forme democratiche il popolo tedesco non sopporterebbe a lungo questo Stato neoliberale” (Heller 1998, 187). Ma le forme mediante cui Schmitt propone di operare il ritiro dal campo dell’economia, che la società non avrebbe permesso e contro cui si sarebbe rivoltata, sono tutt’altro che democratiche. In primo luogo, dice Schmitt, lo Stato è forte nel momento in cui è in grado di avocare a sé l’intera industria di produzione dell’opinione pubblica. Schmitt ha ben chiara la necessità di modellare l’opinione pubblica in modo da farle accettare innovazioni costituzionali e stravolgimenti reali della vita associata. Questo, però, implica che per Schmitt sia comunque possibile, per quanto solo mettendo all’opera una minuziosa politica d’ingegneria sociale, manipolare fin nelle cellule più nascoste l’anatomia del corpo sociale, e questo mi pare entrare in tensione con l’idea di una robusta auto-organizzazione della società. La società è in realtà costantemente eterodeterminata nelle sue forme comportamentali, nelle sue aspettative, nei suoi desideri e nei suoi bisogni indotti. Lo Stato forte, dunque, è quell’unità politica in grado di organizzare l’organizzazione sociale:
con l’incremento dei mezzi tecnici è data anche la possibilità di influenzare le masse in modo molto più forte di quanto consentano la stampa e altri mezzi tradizionali di formazione dell’opinione. C’è oggi in Germania una libertà di stampa ancora ampiamente rispettata. Malgrado ogni decreto d’urgenza, questo spazio di libera espressione è ancora grande e nessuno per il momento pensa a una censura sulla stampa. Ma i nuovi mezzi tecnici, film e radio, ogni Stato deve prenderli in mano direttamente. Non c’è Stato così liberale da non rivendicare per sé perlomeno una forte censura e un forte controllo su cinema e radio. Nessuno Stato può permettersi di lasciare a un avversario questi nuovi mezzi tecnici di dominio di massa, di suggestione di massa e di formazione di un’opinione pubblica (Schmitt 2019, 11).
Non si tratta però unicamente di modellare un’opinione pubblica disposta a sopportare libertà limitate e una socialità stravolta. Schmitt individua anche le condizioni affinché ciò sia legalmente possibile, e per farlo ricorre a una interpretazione estensiva dell’art. 48. La prolusione si apre proprio con un elogio politico dell’art. 48. La tesi è che la forza di uno Stato, necessaria per salvare in articulo mortis Weimar, si misura sulla capacità di ricorrere alle procedure eccezionali legalmente disponibili. La critica kelseniana all’eccezionalismo schmittiamo, sineddoche di “un forte movimento contrario, con l’intento di diffamare e screditare l’articolo 48 […], potrebbe essere una dimostrazione del fatto che l’articolo 48 è ancora oggi uno strumento buono, utile e indispensabile per un governo forte” (Schmitt 2019, 8). E i mezzi legali, dei quali l’articolo 48 rappresenta l’esempio eccellente, non vanno usati con parsimonia. La grande decisione è imposta dalla grandezza della crisi. Sarebbe da sciagurati, prosegue oltre Schmitt, sottrarre allo Stato, se lo vogliamo davvero forte, “l’unico strumento legale di potere che ancora gli è rimasto per la vera emergenza” (Schmitt 2019, 15), ossia l’articolo 48. Che la partita tra Stato forte e Stato debole, tra Stato totale per energia e Stato totale per volume, ossia in ultima istanza tra lo Stato totalitario fascista (cui Schmitt guarda con favore soprattutto per la presenza del partito unico) e lo Stato tedesco dei partiti, si giochi sul corpo dell’articolo 48, è indice di quanto l’eccezione costituisca la vera posta in gioco della politica secondo Schmitt: “a partire dalla volontà negativa di non far nascere uno Stato forte, io mi spiego l’attuale campagna contro l’articolo 48 e i tentativi di spezzare quest’ultimo, assolutamente indispensabile strumento dello Stato” (Schmitt 2019, 15).
Negli anni più bui di Weimar, Schmitt ripesca dal cilindro l’eccezionalismo e ne fa il trascendentale della salvezza dello stato. Eppure, è chiaro che esso non è sufficiente di per sé, ma necessita di una manipolazione continua dell’opinione pubblica. Schmitt, insomma, immagina una circolarità tra eccezione e organizzazione del sociale: il nuovo ordine che segue allo stato d’eccezione è adeguatamente preparato da procedure manipolatorie dell’opinione pubblica che rendono lo stato d’eccezione accettabile, giustificato e apparentemente razionale.
4. Alcuni appunti minori valgono non come critica ma come note a piè di pagina. Nell’ampia ricostruzione di Croce e Salvatore, che mostra bene l’arco di tempo piuttosto ristretto in cui Schmitt si dichiara esplicitamente eccezionalista, non trovano spazi alcuni testi della fine degli anni Dieci (Schmitt 2016a; 2016b1) nei quali, per quanto in forma abbozzata, emerge un interesse da parte di Schmitt nei confronti delle procedure eccezionali che poi sfocerà nella grande opera sul fenomeno dittatoriale (Schmitt 2024). Sono saggi senza sforzo rubricabili a minori se non addirittura d’occasione, ma rappresentano un parziale cartone preparatorio della Teologia politica. In essi Schmitt si affatica nella differenziazione e distinzione delle diverse modalità di “deviazione” rispetto alla norma, articolando nella maniera più precisa possibile questa variegata fenomenologia. Sono testi che discutono aspetti tecnici come la distinzione tra differenti tipi di stato d’assedio, le prerogative dei vari comandi militari nell’ampia casistica dell’emergenzialismo di guerra, e così via. Itinerari del cammino speculativo di Schmitt che sfocerà nell’isolamento e distinzione dell’Ausnahmezustand. Si tratta di una scarsa considerazione da parte di Croce e Salvatore che, se da un lato mi sembra rimettere in discussione l’idea di uno Schmitt (moderatamente) eccezionalista solamente negli anni Venti, dall’altro lato potrebbe addirittura portare acqua al mulino della loro tesi. Proprio in questi testi emerge infatti una certa tridimensionalità della procedura eccezionale, che non rimonta a una monolitica eccezione ma che anzi si differenzia al suo interno.
Per quanto concerne le ricadute critico-politiche del testo, ribadisco la mia propensione ad alzare il livello di guardia rispetto a Croce e Salvatore. Essi hanno ragione nel sottolineare, con dovizia di analisi, che “lo stato d’eccezione non è né un dispositivo normopoietico né un paradigma di ingegneria politica, ma una fattispecie interamente giuridica, in quanto prevista da un testo di legge e dunque inquadrata e regolata con strumenti concettuali propri della sfera del diritto” (Croce e Salvatore 2022a, 139). Sono tuttavia incline a ritenere che l’introduzione di misure eccezionali ed emergenziali, laddove concepite come mezzo a cui fare costantemente ricorso, ossia un nuovo e inedito strumento di governamentalità, abbia ripercussioni sulla formazione ordinaria e “normale” della vita consociata. Le mutazioni operate sul corpo di una società ricondotta a monadi isolate, com’è avvenuto attraverso le procedure emergenziali messe in opera durante il fenomeno pandemico, non si lasciano mettere velocemente tra parentesi e possono effettivamente dare vita a nuove forme di vita sociale. Si potrebbe dire che l’eccezione, per come si è configurata nello scenario pandemico, abbia comportato una bassa intensità di normopoiesi, quantomeno per ciò che riguarda l’accelerazione di logiche già presenti. Penso a quanto la dimensione tecnologica e social, mediata dalle forniture delle big tech, abbia accelerato il passo durante gli anni della pandemia, probabilmente “scattando”, per così dire, per raggiungere un traguardo che avrebbe comunque raggiunto. Ma la dimensione social, tecnologica, digitale, se prima poteva essere intesa come un’integrazione rispetto alla vetusta modalità analogica, tende ormai a compiere un salto di specie e soppiantarla, sostituendola integralmente. Ciò è stato reso possibile, nella sua accelerazione, anche dalle infrastrutture giuridiche, politiche ed economiche adottate in condizioni emergenziali. E questa è indubbiamente un’eredità dello scenario eccezionale che ha costretto, per un tempo limitato, a vivere diversamente. Potremmo dire dunque che la sospensione a tempo determinato (che proprio per questo prevede un moltiplicarsi di attività amministrativa che aggiusti di volta in volta il tiro delle procedure emergenziali) agisce limitatamente sulla dimensione legislativa, ma produce il terreno fertile per un mutamento delle pratiche sociali che il diritto presumibilmente prima o poi interverrà a normare giuridicamente. Inoltre, non ritengo che i poteri di governo non abbiano fatto ampio ricorso a procedure di manipolazione dell’opinione pubblica, per quanto in forma di nudge o amorevolmente paternalistiche, per orientare le condotte sociali ai propri desiderata. Che il presidente del Consiglio intervenga quotidianamente con messaggi alla nazione come in tempo di guerra (la metafora bellica è stata d’altronde quella privilegiata per elaborare pubblicamente il discorso pandemico) ha ricadute immediate sulla psiche sociale, e contribuisce a renderla adattabile.
Ho il timore, forse eccessivo, che l’opportuna riflessione intorno alla distinzione, sia concettuale sia pratica, di eccezione ed emergenza, porti a svalutare il ruolo della seconda nelle pratiche concrete di governo delle vite. Questa considerazione, beninteso, trascende le riflessioni di Croce e Salvatore, che anzi non mancano di sottolineare le sempre possibili involuzioni dei meccanismi emergenziali. Tuttavia, per quanto è evidente che l’emergenza come forma di governo non è inscritta come un destino nelle misure che stressano i confini della prassi sociale ordinaria, mi pare ci siano sufficienti indizi negli ultimi decenni per riconoscere che questa possibilità tende a verificarsi con sempre maggiore pregnanza (Gentili 2018). Anzi, mi pare che il cosmopolitismo dell’emergenza (Colombo 2022), dettato da problemi che non possono essere risolti all’interno di un quadro legislativo statale ma che prevedono ipso facto un gioco collaborativo tra più soggettività statali, abbia accelerato il processo di normalizzazione dell’emergenza stessa, fino a renderlo globale.
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