Dopo aver dichiarato a un giornale israeliano che non rinuncerà mai alla sua verità, al rischio di essere crocifisso da tutto il mondo, Ariel Toaff ha chiesto alla casa editrice Il Mulino di bloccare la distribuzione del suo libro. Così, prima ha reagito alle accuse vestendo i panni cristologici della vittima, e poi è passato all’abiura, mostrandosi pentito davanti alla severa corte inquisitoriale degli storici. La presunta vittima ha motivato quest’atto di auto-censura adducendo sia ragioni personali che religiose — proteggere il gruppo religioso d’appartenenza —; lasciando intendere che i suoi giudizi siano di per sé corretti, ma che le circostanze della loro pubblicazione, e i travisamenti operati dai media lo abbiano costretto a rinunciarvi.
Cosa resta da aggiungere dopo gli interventi critici degli storici più qualificati? Rimane l’obbligo di ribadire e tenere a mente che si tratta di un libro la cui tesi centrale non regge ad un’attenta verifica storica. L’argomentazione di Ariel Toaff si dipana a partire da due filoni d’indagine, seguendo un climax che conduce il lettore alla sconcertante rivelazione: le accuse rivolte agli ebrei di usare del sangue cristiano nei loro riti pasquali avrebbero un fondamento di verità, ed è dunque probabile che per procurarselo commettessero degli omicidi, in particolare di bambini.
Nel primo filone d’indagine Toaff si avvale delle testimonianze rilasciate sotto tortura dagli imputati di un processo inquisitoriale celebrato a Trento nel 1475 a seguito dell’omicidio di un bambino cristiano, poi innalzato agli onori degli altari col nome di San Simonino. Contrariamente a tutti gli altri storici che si sono occupati della vicenda, Toaff ha ritenuto di dar credito alle loro deposizioni, anche perché concordanti con le rivelazioni di alcuni ebrei convertiti, che accettarono di avvalorare quella calunnia, in seguito rilanciata e resa popolare dal Fortalitium Fidei di Alfonso de Espina, un libro polemico, tra i più duri apparsi nel Medio Evo. Occorre una certa cautela critica nel vagliare le deposizioni estorte con la tortura o rilasciate da convertiti, persone dalle quali si pretendevano sempre nuove prove di fedeltà, e che si vedono costrette, sotto pressioni psicologiche fortissime, a rinnegare in modo plateale e irreversibile la loro precedente identità religiosa e sociale. Toaff è perfettamente consapevole di tutti questi problemi, più volte richiamati nel libro, ma poi, al momento di confrontarsi con le fonti, pare che se ne dimentichi. Le deposizioni del processo di Trento sono ritenute affidabili, e a Toaff non rimane che esporre una ragnatela di storie, di varia natura e relative a differenti aree europee, la cui funzione, nell’economia dell’argomentazione, è quella di rafforzare la tesi centrale del libro.
Il Medio Evo e la prima età moderna forniscono molti esempi di stereotipi calunniosi elaborati dalle maggioranze: così è stato per i lebbrosi, accusati di congiurare contro il cristianesimo, o per i Templari, divenuti dei nemici da emarginare; mentre la veridicità delle accuse non è certo garantita dal procedimento giudiziario. L’esame di documenti come quelli usati da Toaff esige qualche avvertenza critica: la macchina giudiziaria è uno strumento d’accertamento della verità soltanto in teoria, perché poi nei fatti (parrebbe banale dirlo) può essere usata cinicamente per distorcerla.
Fino a che punto possono essere ritenute attendibili le deposizioni degli imputati? Un problema così delicato, vero nodo gordiano della storiografia, è risolto da Toaff col proverbiale colpo di spada. Le voci dei torturati, così come risultano agli atti, diventano degne di fede, e possono apparire nei primi capitoli tra le prove a carico. L’ipotesi implicita è che queste dichiarazioni parlino di per sé, e che per comprenderne il significato si possa fare a meno di collocarle nel loro contesto.
Il mestiere dello storico, allora, diventa poca cosa; e diventa persino un mestiere poco rispettabile, se i dettagli del quadro che possono apparire dissonanti vengono piegati alla tesi che si è deciso di dimostrare.
Così, se alcuni ebrei sono scagionati dall’accusa di omicidio rituale si può sempre pensare che debbano la loro libertà a dei giudici corrotti. Il libro non si avvale di nuovi documenti; si limita a proporre un’interpretazione suggestiva di quel che è già ampiamente noto. Non c’è niente di male in questo. Ma come reagiremmo se qualcuno proponesse una nuova lettura del Malleus Maleficarum, un classico della cultura inquisitoriale, sostenendo la veridicità dei voli notturni delle streghe e della loro congiunzione col demonio?
Nel 1993 lo storico israeliano Israel Yuval pubblicò un articolo nel quale cercava di dare una spiegazione alle prime accuse di omicidi rituali rivolte agli ebrei. Durante la prima crociata, nel 1096, alcuni genitori ebrei avrebbero immolato i figli pur di sottrarli al battesimo, autorizzando, nei cristiani, una supposizione che, secondo Yuval, sarebbe all’origine della credenza negli omicidi rituali di bambini. Se per odio della religione cristiana gli ebrei sono addirittura capaci di uccidere i propri figli, non c’è niente che possa trattenerli dall’uccidere i figli degli altri, ed in particolare i figli degli odiati cristiani. La ricostruzione non era fondata su prove documentarie convincenti, ma fece ugualmente grande clamore in Israele, e fuori d’Israele, nell’ambiente dei Jewish Studies, perché andò a toccare uno dei tabù della cultura ebraica, cioè la tradizione ashkenazita.Il secondo filone di indagine di Toaff riguarda appunto la cultura ashkenazita nell’Europa settentrionale e nelle sue ramificazioni italiane, e in particolare alcuni cosiddetti «circoli fondamentalisti dell’ortodossia ashkenazita» (186). I due termini – «ortodossia» e «fondamentalismo» – sono inappropriati nel contesto medievale, ma si prestano a fornire una spiegazione di atti tanto orribili come le uccisioni dei bambini.
Toaff cerca le prove in alcune espressioni rituali e gestuali che denotano effettivamente una volontà di vendetta verso il mondo cristiano, la cui sconfitta è considerata una condizione necessaria per la salvezza del popolo di Israele. Questo sentimento di vendetta trova piena espressione durante la loro Pasqua, una festività che talvolta può cadere a ridosso della Pasqua cristiana.
Durante la Pasqua gli ebrei ashkenaziti erano soliti, secondo Toaff, mescolare del sangue cristiano nel vino e nel pane azzimo per esprimere il loro odio e le loro aspirazioni di vendetta. Ancora ipotesi e congetture, perché anche qui di prove documentarie non ce n’è neanche l’ombra. Il presupposto, di natura psicologica, è simile a quello che Yuval scorge in coloro che, a suo dire, gettarono le basi della credenza: una minoranza fanatica può spingere il suo antagonismo violento fino a commettere atti nefandi.
Ma il sangue non è solo legato a rituali che esprimono odio interreligioso. Esiste una fascinazione per la potenza magica e terapeutica del sangue. Le numerose citazioni tratte da libri che intrecciano medicina e magia servono a Toaff per riavvicinare le credenze degli ashkenaziti al mondo magico non ebraico, e al suo profondo interesse per il sangue, già messo in luce da Piero Camporesi. Una volta dimostrato che presso questa piccola minoranza il sangue veniva usato come mezzo per rinnovare anima e corpo, e per risanare le ferite (inclusa quella della circoncisione), basta fare un piccolo passo, secondo Toaff, per arrivare ad immaginare che fosse in particolare il sangue del nemico ad entrare a far parte di medicamenti magici. Peccato però che questo interesse per le virtù terapeutiche del sangue non fosse una prerogativa degli ebrei ashkenaziti, e che fosse comune, ad esempio, ad alcuni circoli intellettuali nella società italiana del Quattrocento. Negli scritti di Marsilio Ficino ci sono alcune affascinanti discussioni che vertono sulla capacità del sangue di ringiovanire i corpi. C’è da dubitare, tuttavia, che questa convinzione sollecitasse gli umanisti fiorentini a procurarsi il sangue attraverso l’omicidio.
È in questa parte del libro il contributo più interessante alla storia della società ebraica e, in particolare, alla storia della sua componente ashkenazita. Gli ashkenaziti vi compaiono dediti a pratiche e credenze magiche, mostrando così un aspetto della loro cultura che gli studiosi fin qui hanno preferito ignorare. Un indice rivelatore di questa tendenza ci è dato dalle ricerche su Il Libro dei Pietisti, uno dei prodotti fondamentali della cultura ashkenazita, redatto da vari autori nel corso dell’XI e XII secolo. Nato presso l’élite, il libro si diffuse in altri contesti culturali al di fuori della Germania, e divenne una delle fonti fondamentali del misticismo e pietismo ebraici della prima età moderna. È stato al centro di decine di ricerche, che ne hanno messo in luce gli aspetti innovativi, la particolare religiosità, e le interrelazioni con la legge ebraica. Nessuna di queste ricerche si è però soffermata sulle concezioni magiche che lo attraversano e sulla sua demonologia. Il legame tra il mondo magico della tradizione tedesca racchiuso ne Il Libro dei Pietisti e le uccisioni rituali è del tutto fantasioso, ma bisogna dar atto a Toaff di aver richiamato l’attenzione su una componente importante della cultura ashkenazita, che emerge tra l’altro nei libri della Haggadah - cioè i testi letti durante la notte della Pasqua ebraica. Alcune immagini mostrano il Faraone mentre attinge giovinezza e salute bagnandosi nel sangue dei bambini ebrei.
Da questo punto di vista, Pasque di sangue è un contributo pionieristico, i cui meriti sono rimasti oscurati dalla parte meno condivisibile del libro. Toaff ricostruisce una realtà vivace e conturbante, dove gli ebrei non sono solo le vittime delle persecuzioni, ma interagiscono nella realtà, rendendosi protagonisti di una cultura fatta di riti e credenze magiche finora sostanzialmente rimossa.
Purtroppo, nel libro i due filoni di indagine si intrecciano in maniera tendenziosa. Le credenze magiche non possono avvalorare nemmeno in parte le deposizioni rilasciate agli inquisitori dai torturati e dai convertiti. Diciamo che è stata un’occasione sprecata, perché gli argomenti trattati sono senza dubbio interessanti, e avrebbero potuto essere materia di un libro importante, se invece di cercare il clamore ci si fosse accontentati di trarre dall’ombra un mondo dimenticato.
Note
* Roni Weinstein è autore di numerosi studi sull’ebraismo italiano dell’età del Rinascimento e del XVII secolo. Ha pubblicato tra l’altro il volume Marriage Rituals in Italian Style: A historical anthropological Perspective on early modern Italian Jews (Leiden, Brill, 2003). Attualmente svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di storia moderna e contemporanea dell’Università di Pisa.