Francesco Benigno – Daniele Di Bartolomeo, Napoleone deve morire. L’idea di ripetizione storica nella Rivoluzione francese. Roma, Salerno editrice, 2020, 194 pp.
Da quando una domanda fondamentale di John L. Austin – How to Do Things with Words (Oxford, Clarendon Press, 1962; traduzione italiana: Come fare cose con le parole, Genova, Marietti, 1987) – è passata dalla linguistica pragmatica alle scienze sociali, il concetto di performativo è diventato abbastanza comune tra gli studiosi, ma raramente si è trasformato in oggetto di studio storico.
Si può dire che la sfida di questo ambizioso volume consista proprio in questo. Prendere dei discorsi – segnatamente quelli “storici” – e mostrare come la loro mobilitazione, prima degli eventi, abbia contribuito a plasmare il corso degli avvenimenti. Scopo del libro è infatti stabilire «in che misura l’idea della possibilità che gli eventi passati po[tesser]o in futuro ripresentarsi abbia influenzato non solo i discorsi ma anche le azioni, le scelte dei protagonisti» (8) della grande Rivoluzione.
Nell’Introduzione (scritta, come la Conclusione e il primo capitolo, da Benigno) vengono dapprima presentati alcuni antecedenti di una problematica solo apparentemente simile: la riflessione di Chateaubriand sull’illusione giacobina di rifare l’antico quale origine della deriva terrorista della Rivoluzione; l’ambivalente valutazione di Marx sull’uso del passato nei rivoluzionari dell’Ottantanove e sul carattere farsesco dell’ascesa di Luigi Napoleone. Quindi Benigno evidenzia come i grandi classici della storiografia novecentesca sulla Rivoluzione siano stati responsabili di una «generale enfatizzazione del carattere superficiale, ridondante e ininfluente dell’oratoria antica» (21). Obbiettivo del volume è invece quello di «prendere finalmente sul serio il significato che il richiamo di eventi passati aveva per gli attori storici in una situazione di acuta incertezza, in cui essi erano drammaticamente costretti a fare i conti con l’imponderabilità del futuro rispetto a scelte molto difficili da compiere». Un richiamo selettivo, una bussola «per orientarsi nel presente e per plasmare il futuro», così da «ridurre l’incertezza della contingenza, riconducendola a schemi conosciuti e, per così dire, familiari» (25), in un paesaggio «dominato dall’incertezza sociale e dall’insicurezza personale» (165). Dal punto di vista operativo, viene utilizzato il concetto di scenario: «una narrazione che, incrociata per via analogica coi fatti del presente, ne consente un’interpretazione, e soprattutto che si proietta sul futuro, delineandolo per via analogica» (163); e che essendo «parte di una cultura condivisa da tutti gli attori storici», divenne «un perno attorno a cui si giocava una lotta politicamente decisiva per favorirne o ostacolarne l’eventualità», con il risultato di rafforzare la possibilità che ciò che era previsto finisse per accadere «davvero» (166). Per testare questa ipotesi generale, gli autori hanno scelto alcune «congiunture discorsive» (25) relative a «momenti specifici, e ben determinati, del dibattito rivoluzionario» (26), alle quali sono dedicati i quattro capitoli (il secondo, il terzo e il quarto ad opera di Di Bartolomeo) di cui si compone il volume.
Si parte dalla celebre fuga di Varennes: cosa poté indurre Luigi XVI ad abbandonare le Tuileries, la notte del 20 giugno 1791? Per rispondere, Benigno sottolinea la funzione di alcuni particolari richiami storici, definendo un quadro discorsivo dal quale emerse la possibilità che la fuga narrata potesse diventare lo spartito da eseguire: la minacciosa e onnipresente presenza del ritratto di Carlo I Stuart di van Dyck, ma soprattutto la conoscenza della “storia fatale” di Carlo I nella Rivoluzione inglese: un monito che «non era solo la fissazione di un sovrano amante della storia» (33), ma un tema emerso già nella pubblicistica prodotta all’indomani della convocazione degli Stati generali. Inoltre «tra le fonti storiche dell’inquietudine di Luigi XVI» (36), particolarmente cogente fu la rivolta capeggiata da Étienne Marcel a metà del XIV secolo che costrinse l’allora delfino e reggente Carlo di Valois ad abbandonare la capitale in rivolta per poi riportarvi l’ordine con l’esercito (37). Il secondo capitolo indaga i timori di usurpazione del potere in una fase di possibile dérapage degli Stati generali. Ancora una volta sono le vicende di un Cromwell o di un Giulio Cesare che prefigurano quelle, auspicate o temute, di un La Fayette, di un Necker o di un duca d’Orléans. Se poi con il soffiare dei primi venti di guerra toccò a Robespierre chiedere la destituzione di La Fayette sostenendo che Brissot volesse farne un Cromwell – venendo tacciato dal capofila dei girondini di demagogia –, presto con il processo al re le posizioni si sarebbero ribaltate, con «il precedente inglese» a rappresentare per entrambi «un ineludibile punto di riferimento» (77). Si affacciava il fantasma della guerra civile e Di Bartolomeo (cap. III) sottolinea che i molti «antecedenti» non erano «confinati nei libri», bensì «circolavano nelle piazze ed entravano nei discorsi della gente, influenzando la percezione delle cose» (93). I Girondini furono guidati da schemi che li indussero a «sposare una causa politicamente imbarazzante» (100), ovvero il salvataggio del re, anche per la convinzione che «il regicidio, storicamente, [fosse] stato l’anticamera della dittatura» (92). Una «commistione tra passato e presente» che si tramutò in «retorica condivisa», costringendo a «muoversi e a comportarsi come se le cose dovessero andare proprio nei modi previsti» (100). Non fu lo stesso Robespierre, nel suo ultimo discorso, a ricordare che «la parola dittatura» aveva avuto «effetti veramente magici», risultandogli «fatale» (111)?
Anche i tradimenti apparivano in qualche modo copioni già scritti (cap. IV). Così il generale Dumouriez fu precocemente vagheggiato nelle vesti di un Catilina o di un Monck francese. Del resto «l’eventualità di un’usurpazione militare nell’immaginario politico della Rivoluzione» (131) assunse un peso crescente: soprattutto tra il 1793 e il 1794 ci fu «una sorta di «caccia al generale» (127), una vera e propria «paranoia cospirativa» (128). Finché l’esercito non cominciò davvero a materializzarsi (come strumento politico), nella repressione delle insurrezioni (realiste o “anarchiche”). Ed ecco l’ombra di Bonaparte, ecco il «timore che le Alpi diventassero il Rubicone della politica francese» (137), che stesse per farsi strada un «nuovo Cesare» (140), o sempre più, alle soglie del colpo di Stato di Brumaio, un nuovo Cromwell.
Le conclusioni passano in rassegna alcune opzioni – da Koselleck alle «self-fulfilling prophecy» di Merton (155) – per ridefinire la posta in gioco teoretica dello studio. Se «la formulazione nel discorso pubblico» delle previsioni finisce per «attivare azioni e reazioni che contribuiscono a farle accadere» (154) è anche perché le “profezie storiche” «hanno il pregio», più di quelle astratte, «di essere considerate più realistiche in forza dell’essere già accadute» (155). Per questo motivo, «al cuore dei discorsi dei patrioti francesi sulla possibilità della ripetizione storica» c’è «un evidente utilizzo del nesso analogico tra passato e presente per pensare il futuro» (155). La profezia storica è un discorso predittivo che, da realizzare o esorcizzare, non va però affrontata nei termini dell’alternativa veridicità/falsità, bensì in quelli della credibilità. Gli scenari sono prefigurazioni di un possibile cui gli attori credono, contribuendo in qualche caso a realizzarlo.
Il libro meriterebbe una discussione più circostanziata. Mi limiterò a osservare che esso ha il merito di indagare il performativo pur lasciando ancora aperta – mi pare – la questione di come un determinato scenario trovi attuazione, come cioè determinate profezie storiche “funzionino” (cioè abbiano presa, determinando degli effetti concreti, non necessariamente nel senso della realizzazione) e altre no (cfr. anche Ignazio Veca, La congiura immaginata. Opinione pubblica e accuse di complotto nella Roma dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2019, p. 187). Quella sorta di circolo virtuoso/vizioso che si viene a creare tra descrizioni della realtà storica e – a seconda degli orientamenti politici – prescrizione/proscrizione di determinati scenari, è ciò che va di volta in volta spiegato. Benigno infatti insistite sul carattere non obbiettivo di queste “descrizioni” (dell’antecedente storico), sul «rapporto intimo che lega retrodizione e predizione, vale a dire la proiezione del futuro sul passato e del passato sul futuro» (158). Se Benigno e Di Bartolomeo hanno giustamente focalizzato la loro attenzione su alcuni momenti di crisi – quelli in cui il potere costitutivo del linguaggio agisce con particolare forza (cfr. Pierre Bourdieu, Ce que parler veut dire. L’économie des échanges linguistiques, Paris, Fayard, 1982, p. 151) – offrendo al lettore un primo insieme coerente di casi di studio, è opportuno chiedersi se il principio di efficacia dei discorsi sia da ricercare solo nei discorsi medesimi o se invece sia necessario postulare che esso vada rintracciato anche nel gioco sociale che conferisce auctoritas agli autori (dei discorsi), dando loro il potere simbolico di descrivere e al tempo stesso prescrivere/proscrivere, risultando credibili. La specificità del discorso storico nella congiuntura rivoluzionaria è un elemento rilevante: nell’incertezza, il passato diventa sia «la matrice di riconoscibilità degli eventi» (159) sia una breccia che permette «di scorgere le tendenze incipienti che covano sotto il caos dell’oggi e che si apprestano a plasmare il domani» (160). Va detto che nel volume non manca l’idea che la capacità di esercitare tale potere (assai instabile nel contesto rivoluzionario) e dunque di produrre la magia del discorso sia da porre in relazione con il farsi della lotta politica. Forse si dovrebbe maggiormente insistere sul carattere inedito della scoperta della politica, ancora priva di regole certe e di fonti consolidate di legittimazione degli agenti in lotta per il riconoscimento dei propri principi di visione e divisione del corso della storia, declinata al passato-futuro per agire sul presente. Ciò che presuppose sì l’uso molteplice della parola ma anche di una forza (violenza simbolica e fisica) che diede potere ai discorsi, a maggior ragione in un contesto orfano del principio di legittimazione che aveva presieduto lo spazio della monarchia di diritto divino.