Marco Armiero, "Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d'Italia. Secoli XIX e XX", Torino: Einaudi, 2013, 255 pp.
La relazione reciproca tra montagne e società italiana è il punto di vista inedito attraverso cui il testo Le montagne della patria affronta un tema già ampiamente esplorato dalla storiografia italiana, quale è quello della costruzione dello Stato nazionale. Pubblicata nel corso del 2013, l'opera risale al 2011 nella sua versione originale in inglese. L'interesse che essa può suscitare sono forse spiegate dalla scarsa fortuna che la storia ambientale – disciplina in cui tale ricerca si inscrive – può ancora oggi vantare in Italia. Questo filone di studi si originò negli anni Ottanta negli Stati Uniti, sfidando la prospettiva antropocentrica tipica della storia tradizionale. Il desiderio dei suoi fondatori non fu tanto quello di promuovere lo studio di una natura considerata in sé e per sé, quanto quello di proporre un approccio dinamico volto a ripercorre la complessità delle influenze reciproche tra società e ambiente nel corso del tempo passato.
Lo stesso approccio dinamico è adottato da Armiero attraverso la sua opera: sfidando la proverbiale immobilità delle montagne l'autore racconta della loro evoluzione all'interno della storia della costruzione nazionale. Considerando un arco temporale di centocinquanta anni, dall'Unità d'Italia ai giorni nostri, viene ripercorsa la storia della trasformazione del territorio montano, plasmato tanto dal lavoro, dal cemento e dalle bombe, quanto dai racconti, dai miti e dalle leggende.
Per comprendere le ragione di una simile scelta narrativa, ricorda l'autore stesso nell'introduzione, basta osservare un atlante geografico: la superficie montana ricopre il 35% del territorio del paese. Luoghi impervi e accidentati, rifugio di streghe e stregoni nell'immaginario collettivo dell'età moderna, le montagne furono sottoposte a un'opera di razionalizzazione a partire dai decenni successivi all'unità d'Italia. A quell'epoca dietro alla duplicità del termine «valorizzazione» si svolse l'attività del Club Alpino Italiano e del Touring Club Italiano, associazioni che da un lato si facevano difensori del patrimonio naturale, dall'altro strizzavano l'occhio alle politiche economiche e culturali nazionali. Queste ultime si rapportarono alle montagne attraverso un'attività conoscitiva e razionalizzante, che andava dall'irreggimentazione dei bacini idrici per la produzione di energia elettrica, alla costruzione di mappe, sentieri e funivie. Tuttavia simili interventi non sarebbero stati sufficienti a domare quanto di selvaggio c'era nelle vette italiane: oltre alle forze naturali anche i suoi abitanti avrebbero dovuto essere addomesticati. Il secondo capitolo del libro è quindi dedicato al fenomeno del brigantaggio e passa in rassegna le narrazioni di quanti vollero tessere un filo conduttore tra il carattere impervio delle alture su cui i ribelli si rifugiavano e l'inclinazione di questi ultimi alla rivolta. Gli Appennini divennero simbolo di un Mezzogiorno indomabile.
Diversi decenni dopo, la prima Guerra mondiale avrebbe spostato il teatro del conflitto dal Sud al Nord: le Alpi sarebbero divenute palcoscenico di una battaglia non più condotta contro il nemico interno, ma contro quello esterno. La retorica di guerra che ne seguì celebrò i montanari-Alpini secondo uno stesso schema discorsivo, volto a tessere un legame tra l'orografia del territorio e le caratteristiche dei suoi abitanti. Gli Alpini erano eroi della patria, e le difficili condizioni ecologiche cui erano costretti li avevano portati a una docile rassegnazione, alla propensione all'obbedienza. L'ultimo capitolo dell'opera è dedicato al fascismo, e alla specifica politica ambientale elaborata nel corso del ventennio. Arrigo Serpieri e Arnaldo Mussolini furono i massimi esponenti di un atteggiamento fortemente contraddittorio: discorsi ruralisti e conservatori si mischiavano ad appelli alla modernità, la celebrazione della figura dei montanari si alternava a interventi repressivi ai loro danni.
Nell'epilogo il tono dell'opera diventa prescrittivo. Al suo interno Armiero tratta della Resistenza italiana e della strage del Vajont, due vicende che parimenti testimoniano del rapporto tra uomo e territori montuosi, ma la cui validità in quanto elementi fondanti la storia nazionale non può essere data per scontata. Se la memoria della lotta partigiana è messa a repentaglio dai più recenti tentativi revisionisti, quella del massacro del Vajont, tragedia ambientale e umana che molto spiega del progresso italiano, non ha mai fatto parte della storia del paese. L'augurio che possa essere presto colmato questo rimosso storico chiude un opera ricca di spunti, in cui il rigore scientifico non toglie spazio al piacere della lettura.