"Inutile negarlo - scrive Sergio Luzzatto nelle prime pagine del suo libro - l'antifascismo sta attraversando una crisi profonda; eventualmente una crisi irreversibile. E non soltanto a causa della legge generale per cui l'impatto di ogni fenomeno storico è destinato comunque a diminuire nel tempo, ma anche a causa di una particolare svolta epocale: la svolta del 1989. Perché è vero che in Italia come in Europa , non vi è stato antifascismo senza il contributo decisivo del comunismo; ed è vero che il comunismo è finito male. Come stupirsi - prosegue Luzzato - se la fine dell'uno ha accelerato l'agonia dell'altro? Le mort saisit le vif: marxianamente parlando, riesce naturale ipotizzare che la fine del comunismo possa trascinare nella tomba anche l'antifascismo, incapace una volta di più di sottrarsi dell'abbraccio fatale". (pp. 7-8).
Dopo questa considerazione, Luzzatto chiarisce l'obbiettivo del suo lavoro: "nelle pagine successive - scrive - cercherò appunto di mostrare come l'antifascismo sia in crisi per l'effetto congiunto di una ineludibile condizione di senilità e un grave deficit di credibilità".
Leggendo, però, le pagine successive, di questo ottimo proposito si perdono molto rapidamente le tracce e la trattazione piega verso la difesa delle ragioni - e sono molte e legittime - per le quali "non possiamo non dirci antifascisti" e la critica serrata dei guasti prodotti nella coscienza civile dal progetto "revisionista" della nuova destra italiana, che fa della riscrittura della storia d'Italia del secondo Novecento la leva su cui fare forza per affermare la propria egemonia culturale.
Come è evidente ormai da oltre un decennio, attraverso libelli, ma soprattutto attraverso la presenza ossessiva sui media , uno stuolo di intellettuali e giornalisti, tra i quali alligna anche qualche professore universitario di discipline storiche, sta tentando di costruire uno nuova immagine del nostro passato recente dalla quale si vuole ormai espunto l'antifascismo, presentato come ferrovecchio ideologico di una guerra civile combattuta da forze estreme e antidemocratiche, nell'indifferenza degli italiani, ormai consegnata alla storia, insieme con tutti i totalitarismi.
L'operazione ha per scopo quella di cancellare il nesso fondante tra democrazia e antifascismo nella storia italiana, per gettare uno spesso velo di oblio sulle matrici neofasciste - mai compiutamente rinnegate - di buona parte della destra italiana e delegittimare al contempo gli eredi del partito comunista, che della costruzione della Repubblica italiana era stato parte integrante fondamentale. Le strade percorse per realizzare questo obbiettivo sono molteplici: vanno dalla riesumazione del vecchio mito dei sopravvissuti di Salò, la "pacificazione", nello sforzo di equiparare le memorie dei vinti con quelle dei vincitori, alla svalorizzazione della Resistenza, presentata come cavallo di Troia dei comunisti per dominare la vita politica della Repubblica; dalla esaltazione della "zona grigia", cioè di quelli italiani che tra il '43 e il '45 non scelsero tra fascismo e antifascismo, al tentativo di presentare le foibe come una sorta di Shoà italiana; dalla formulazione di una valutazione bonariamente giustificatoria del fascismo, alla equiparazione acritica tra comunismo e nazifascismo.
Luzzatto ripercorre con molta efficacia la formazione e la diffusione attraverso l'uso sapiente degli strumenti della comunicazione di massa, di questa nuova "vulgata" post o antiantifascista, che dir si voglia, costruita dalla politica e per la politica, nella quale confluiscono però umori culturali e ideologici presenti fin dalle origini nella vita civile repubblicana, oscillanti tra qualunquismo e antipolitica. Rispetto al passato, nel quale la forza politica dei partiti antifascisti moderati, come la Dc o il Pri, era riuscita a tenere sotto controllo queste spinte ideologiche e queste tendenze identitarie, la novità è rappresentata dal fatto che esse invece costituiscono il collante ideologico della destra italiana, sono la sua cultura politica più sedimentata e riconoscibile, che viene esibita con orgogliosa iattanza: una melassa informe ma estremamente potente di antipartitismo, di anticomunismo viscerale, di clericalismo, di familismo amorale e di malcelate propensioni autoritarie, che richiama alla memoria il profilo culturale di esperienze politiche come quelle dell' Uomo Qualunque dell'immediato dopoguerra, della "maggioranza silenziosa" di De Carolis, nella Milano degli anni settanta, o del progetto eversivo piduista degli anni ottanta nella fase crepuscolare della prima Repubblica.
L'idolo polemico contro il quale maggiormente si scaglia a buona ragione Luzzato è un corollario fondamentale di questa complessa costruzione ideologica fondata sulla riscrittura della storia nazionale: l'elogio della "memoria condivisa", intesa come sforzo non tanto rivolto a favorire un reciproco riconoscimento tra memorie diverse e divergenti, a riesumare pagine del passato omissivamente occultate, quanto piuttosto orientato a imporre una memoria pubblica nella quale trovino posto ugualmente legittimate le memorie dei fascisti e degli antifascisti, dei "repubblichini" e dei partigiani. Questa legittimazione si fonda su di un doppio errore: sia quello di ritenere che queste memorie possano essere in qualche modo "pareggiate" perché scaturite da un medesimo orrore - la guerra totale e il totalitarismo - che le assimila fino a fare perdere ogni distinzione tra vittime e carnefici; sia quello più subdolo e inquietante che fonda il progetto di "equiparazione" delle memorie sulla convinzione che appartengano entrambe al campo del "torto", perché "la ragione" sta in quello ampissimo di chi rinunciò a ogni scelta di campo. L'esito di entrambi i casi è il riconoscimento postumo delle "ragioni" dei fascisti, liberati così contemporaneamente dalla colpa storica di aver militato nel campo degli aguzzini di Auschwitz, e di aver combattuto dalla parte dei vinti. Ad esso si aggiunge poi il malcelato proposito di voltare pagina, "consegnando alla storia" questo ingombrante passato, che è un eufemistico sinonimo per evocare la speranza di una generalizzata rimozione.
Il rischio di una memoria condivisa - scrive Luzzatto - è una "smemoratezza patteggiata", "la comunione nella dimenticanza". Una preoccupazione che non si può non sottoscrivere, di fronte al tentativo fin troppo scoperto non solo di stendere un velo di oblio sulle origini della Repubblica, ma soprattutto di impedire che l'Italia democratica faccia fino in fondo i conti con il fascismo, cioè con il nodo più drammatico e cruciale dell'intera storia dell'Italia novecentesca.
Ma quando si abbandona il tracciato dell'analisi e si entra in quello delle cause genetiche di questa offensiva culturale contro l'antifascismo e la sua tradizione ideale cominciano a emergere più problemi irrisolti che risposte convincenti e il perseguimento degli intenti sopra enunciati rimane sullo sfondo, sostanzialmente disatteso, perché travolto dall'urgenza della polemica politica e della condanna morale.
Quali sono infatti le ragioni che adduce Luzzatto per spiegare il successo di questo progetto politico-culturale della destra italiana? Innanzitutto mette in luce la debolezza congenita della cultura antifascista per la sua incapacità/impossibilità di fare i conti con il comunismo e il suo carico di tragedie e di fallimenti. Nato infatti dall'alleanza tra democrazia e comunismo finalizzata all'abbattimento del nazismo, l'antifascismo è restato segnato da questa aporia, che gli ha impedito, nel secondo dopoguerra, di assumere pienamente la discriminante antitotalitaria nella sua matrice culturale e nella sua fisionomia identitaria. Questa ambiguità concettuale oltre che politica, ha agito su più piani; sia rendendo impossibile che l'antifascismo prendesse in considerazione il problema dell'equiparabilità del nazismo con lo stalinismo, sia soprattutto superando a fatica e in ritardo - almeno nei suoi gruppi maggioritari di tradizione marxista - l'erroneo convincimento che la "democrazia socialista", liberata dalle sue incrostazioni autoritarie , dovute alla "durezza dei tempi", rappresentasse, molto più della liberaldemocrazia, l'effettivo inveramento storico della sua tavola di valori.
Come è ovvio l'irrisolta "questione comunista", che ha gravato storicamente sull'antifascismo, non mette in discussione l'onestà intellettuale di quei milioni di comunisti che tra il '43 e il '45 hanno combattuto in ogni angolo del continente il nazifascismo in nome degli ideali di emancipazione e di eguaglianza sociali iscritti nel decalogo valoriale del comunismo. Ma sul versante più complesso della cultura politica quel nodo pesa invece straordinariamente e la caduta del comunismo ha impedito che questa ambiguità perdurasse: anzi l'ha fatta esplodere, mettendo gli antifascisti di fronte alla necessità di un esame di coscienza, nonché, per quella piccola parte che maneggiava anche professionalmente gli strumenti del lavoro storiografico, alla improrogabilità di una revisione radicale degli indirizzi e degli oggetti di ricerca. Fin qui Luzzatto tiene il punto, a mio giudizio, e pone coerentemente la questione cruciale e ineludibile, che oggi attraversa l'antifascismo. Ma invece che proseguire su questa strada, e richiamare storici e intellettuali che si rifanno a quella tradizione a non eludere questa questione, perché è li che si trova il "lato oscuro" del paradigma antifascista e perché la irreversibilità o meno della sua crisi dipende in larga misura dalla capacità della cultura antifascista ad abbandonare proprio una reiterata e pervicace elusione, e a superare una disarmante autoreferenzialità culturale, Luzzatto sorprendentemente devia dalla via maestra per scegliere la facile scorciatoia dell'invettiva contro la generazione degli intellettuali del "Sessantotto".
La crisi dell'antifascismo va imputata infatti - secondo l'ardita ricostruzione che ci propone l'autore - al cedimento ideale di quella generazione, che non avendo ancora elaborato seriamente il lutto del crollo del comunismo non è in grado, come gli ingenui marinai di Ulisse, di resistere alle sirene di quanti, da destra, li invitano ad aderire alla "storia bipartisan ".
"La liquidazione retrospettiva dell'"illusione" comunista - scrive - ha comportato un ridimensionamento sempre più spinto della taglia politica e morale di molti uomini e di molte donne che fecero del comunismo una scelta di vita. Dopo il trauma del disincanto non è rimasta che la voglia di " fare opinione" , all'insegna di un nichilismo più o meno abilmente travestito da liberalismo" (p. 37). Il silenzio sull'antifascismo evocato come baricentro culturale implicito della "seconda Repubblica" sarebbe stato accettato nei fatti da questa generazione , non tanto per calcolo ma perché travolta da una "bancarotta identitaria" non avrebbe più nessun strumento per distinguere la "disponibilità intellettuale all'autocritica e il gusto masochistico della palinodia"(p. 35).
In questa rincorsa alla ritrattazione del proprio passato, in cui viltà e "buonismo" senza principi si combinano equamente, si sono venuti perdendo non solo il senso della storia, ma anche la capacità critica di distinguere tra resistenza e guerra civile, tra difesa dei diritti umani e necessità di assegnare un valore positivo a chi prende le armi contro il tiranno, a chi "resiste", tra il "socialismo reale" e i comunisti combattenti per la liberà e la democrazia italiana. Il risultato di questo tragitto ideale della generazione del '68 è stata la progressiva affermazione di una "idea penitenziale" del Novecento, che ha "espunto dal discorso pubblico sul secolo ogni considerazione valoriale, facendo rientrare tutto dentro il buco nero della categoria di carneficina".
Per Luzzato dunque la crisi dell'antifascismo fa perno in prima istanza sulla Caporetto ideale degli intellettuali antifascisti nati nell' immediato dopoguerra, che non hanno saputo mantenere la stessa saldezza sui principi e sui valori della generazione dei loro padri naturali e spirituali, diventando o "utili idioti" o traditori, colpevoli di "intendenza col nemico", anche un po' vigliacchi perché nello sforzo di ripudiare il mito della rivoluzione hanno espunto dal loro universo mentale "lo spargimento di sangue" per realizzare una "giusta causa".
Da affermazioni tanto apodittiche quanto inutilmente pretestuose non può nascere nulla di positivo: da una ricostruzione di una biografia collettiva tanto corriva il passaggio all' omissione dei dati di fatto è pressoché inevitabile. Infatti nel suo tentativo di indicare i percorsi di una possibile buona storiografia di là da venire - demitizzare la resistenza, senza svenderla, focalizzare il nesso antifascismo/anticomunismo, riproblematizzare i rapporti tra resistenza e antifascismo e il ruolo di quest'ultimo nella cultura e nella pratica della sinistra italiana nell'Italia repubblicana - Luzzatto non fa altro che enumerare i campi di studio arati negli ultimi vent'anni proprio dagli storici appartenenti a quella generazione. Se c'è infatti un filo comune che lega i percorsi di studio degli storici nati negli anni quaranta che si sono occupati di storia dell'Italia contemporanea, esso è consistito essenzialmente nell'urgenza di ripensare il paradigma antifascista al di fuori, e la di là, della consolidata narrazione veterocomunista e veteroazionista, nella quale la storia si è sempre più trovata prigioniera della memoria. Svecchiare gli studi sulla resistenza e sull'antifascismo ha significato essenzialmente superare la polemica "antirevisionista" dei Quazza, dei Ragionieri, i cui estenuati epigoni - e purtroppo non sono pochi - continuano a trascinare fino ai giorni nostri, mettendone in luce le aporie concettuali e la povertà di risultati scientifici, per dare invece corpo, attraverso una intensa stagione di ricerche, a un nuovo disegno della storia italiana del Novecento che implicasse un profondo ripensamento dei rapporti tra il ventennio totalitario e l'Italia repubblicana, da un lato, e dall'altro dei fondamenti costitutivi della democrazia italiana, all'interno del quale collocare anche la vicenda storica dell'antifascismo. In sintesi, il tentativo di costruire un "revisionismo" serio, liberato in prima istanza dalle urgenze di usi pubblici della storia sempre più strumentali e asserviti all'obbiettivo politico di definire il corpus ideologico della destra italiana, ma anche indisponibile a silenzi, a omertà e a omissioni sulle pagine oscure della storia dell'antifascismo e della resistenza, sui loro limiti, e soprattutto a non interrogarsi su cio "che è vivo" ma anche "su ciò che è morto" - ed è meglio non resuscitare - di quella esperienza e di quella tradizione culturale e ideale; indisponibile infine inventarsi fascismi e fascisti di cartapesta a ogni piè sospinto per tenere in vita il mito dell'antifascismo. In questa prospettiva non v'è nulla di acriticamente bipartisan, ma l'individuazione coerente della sfida politico-culturale in corso, che anche Luzzato coglie a pieno: essa non può essere condotta con armi vecchie e improprie, portandosi dietro salmerie ideologiche inservibili e visioni storiche che non reggono alla prova dei fatti. E non vi è dubbio che su questa prospettiva tra "reduci" e storici vi siano divergenze e difficoltà d'intendersi, ma questo è un bene, non un male.
Solo questa presa d'atto può consentire, a mio giudizio, di nutrire qualche speranza che lo sforzo di "mantenere in vita" l'antifascismo, come auspica Luzzatto, abbia successo, e la sua tavola di valori resti ancora uno dei pochi strumenti vitale a nostra disposizione per ridefinire l'identità della democrazia e aderire pienamente al "patto sui fondamenti" sancito dalla costituzione.