Alice Borgna è professore associato di Lingua e Letteratura Latina presso l’Università del Piemonte Orientale. I suoi studi sono incentrati sulla prosa latina tardorepubblicana e imperiale, in particolare su Cicerone, Pompeo Trogo e Giustino. Si occupa inoltre di Digital Humanities e della loro applicazione alle discipline classiche nel quadro del progetto DigilibLT, la biblioteca digitale del latino tardo antico, di cui è responsabile scientifica.
Quale migliore occasione del convegno internazionale Storie Pericolose e della presenza di un’antichista con lo sguardo puntato al presente e al futuro della sua disciplina, quale Alice Borgna, per approfondire un recente dibattito sorto negli Stati Uniti d’America sulla storia antica, la cultura classica e i loro lasciti?
Il dibattito è sorto a causa di esternazioni pubbliche del professore di Classics a Princeton Dan-el Padilla Peralta, il quale ha definito il suo campo di ricerca come intrinsecamente razzista. L’inscindibilità, a suo avviso, della storia antica e dei classici da una componente razziale e discriminatoria ha portato Padilla Peralta a paventare addirittura un boicottaggio dello studio se non la totale damnatio memoriae della materia. Grazie alla presenza di un’esperta in materia quale la professoressa Borgna si è deciso, nell’intervista riportata di seguito, di approfondire un tema che affonda le sue radici in ambiti molto complessi e delicati per la società americana. Non lasciandosi fuorviare dai toni apocalittici dei mass media e in particolare dei social, spiega Borgna, si può comprendere come la discussione nata da Padilla Peralta propone in realtà un rinnovamento dello studio dei Classics, non la loro condanna.
(AF)
Quando è arrivata in Italia la notizia delle critiche rivolte contro i “Classics” da parte del professore dell’Università di Princeton Dan-el Padilla Peralta si è subito scatenata un’ondata virtuale di accuse e sgomento. Anche se è evidente che le discussioni sul Web non aiutano ad analizzare con occhio critico le situazioni più scottanti, si è notata comunque una incapacità di comprensione del contesto sociale che ha portato a questa discussione. Come mai, quindi, in Italia e in Europa non riusciamo a capire di primo acchito quello che il professor Padilla Peralta ha proposto?
Sicuramente le ragioni dipendono moltissimo dal modo di comunicare che i social hanno imposto alla comunicazione, ovvero estrapolare, soprattutto dalle notizie che arrivano da oltreoceano, i dati che possano generare un titolo acchiappaclic oppure innescare “l’indignazione del giorno”. C’è poi un’altra ragione, più seria e profonda, per cui l’Europa affronta con difficoltà questo discorso nei suoi punti chiave. Dagli Stati Uniti, infatti, a essere messi in discussione non sono tanto i classici, quanto le ragioni per cui vengono studiati. Ecco, riflettiamo un momento su questa domanda, che tante volte abbiamo sentito fare: perché studiare i classici? Una delle risposte standard è: perché sono il fondamento della Civiltà Occidentale e alla Civiltà Occidentale noi dobbiamo valori come la libertà, la democrazia.… Peccato che nel mondo statunitense il concetto di civiltà occidentale abbia assunto ormai una connotazione decisamente politica, soprattutto nel corso della presidenza Trump, che sull’opposizione tra un “buon occidente” e un cattivo “resto del mondo” (in modo particolare l’islam) aveva costruito una narrazione che strizzava apertamente l’occhio al suprematismo bianco. Cosa è l’occidente, si chiedono quindi in America? è un dato geografico? No, perché altrimenti non considereremmo occidentale l’Australia e non-occidentale il Marocco, che rispetto a lei è ben più a ovest. è un dato legato allo sviluppo economico? No, dicono, perché altrimenti considereremmo “occidente” una nazione tecnologicamente avanzata come il Giappone. Insomma, dall’America ci viene detto che, nella percezione comune, a conti fatti occidente è tutto ciò che è bianco e di religione giudaico-cristiana. Di conseguenza, esaltare l’occidente e le sue radici equivarrebbe ad esaltare quelle due particolari categorie. Ecco, i venti che spirano dall’America - al di là di sparate singole amplificate dai social - non ci chiedono tanto di non studiare più Omero e Cicerone perché razzisti e maschi alfa. Le questioni sono ben più sfaccettate e complesse: Omero e Cicerone non sono razzisti, ma - storicamente - la ragione per cui Omero e Cicerone vengono fatti studiare a migliaia di ragazzi potrebbero non essere esenti da questa accusa, se si continua a sostenere l’importanza dello studio dell’antichità greca e romana perché capostipite di una cultura che ha espresso valori universali o, per lo meno, punto di riferimento per la nostra civiltà, aggettivo possessivo che include gli Stati Uniti, di cui si dà per scontata la condivisione delle medesime radici culturali dell’Europa, ovvero di chi li ha colonizzati violentemente. In altre parole, i riformatori non vogliono abbattere la statua dei classici, ma il piedistallo - che ritengono costruito da secoli di suprematismo bianco - che li colloca più in alto rispetto a noi e ci costringe a guardarli da una prospettiva distorta, in cui noi siamo in basso e loro in alto. Pertanto, se Classics è la disciplina che serve ad inculcare nelle menti dei giovani l’idea di una supremazia bianca ed europea, disciplina che gli Stati Uniti devono adottare acriticamente perché per secoli è stata la spina dorsale del sistema educativo europeo, terra da cui sono stati conquistati e sterminati con la scusa della civilizzazione, allora no, grazie. O meglio: cerchiamo nuovi motivi per studiare i classici, studiamoli in modo diverso, facciamo emergere angolature differenti, facciamoli studiare alle minoranze etniche proprio in virtù del loro essere minoranze e quindi potenzialmente portatori di nuove prospettive, non studiamoli come un monumento intoccabile e perfetto ma teniamo sempre presenti gli angoli oscuri della loro ricezione. Questa è forse anche una delle ragioni per cui in Europa, al di là delle semplificazioni degli articoli “leggi e fuggi”, si tende a restare sulle soglie di questo discorso, in quanto - a volerci entrare davvero dentro - esso contiene una netta messa in discussione del ruolo dell’Europa come civilizzatrice e poi guida culturale degli Stati Uniti, un rifiuto che è parte di un movimento più ampio volto a contestare la narrazione che vede la “scoperta” dell’America da parte dell’Europa come un fatto positivo, quando invece ha comportato lo sterminio delle popolazioni autoctone e la cancellazione della cultura locale. Insomma, il discorso è molto più complesso e riguarda non solo i classici.
Le accuse di classismo mosse dal professor Padilla Peralta ai testi latini, greci e più in generale alla storia antica non riguardano allora i loro contenuti, ma sono più che altro un mezzo per colpire il personale accademico che le studia e insegna?
La domanda coglie un punto centrale del dibattito. Una parte importante degli interventi di Dan-el Padilla Peralta, che è lentamente assurto al ruolo di simbolo e portavoce di questa battaglia, sposta il focus della discussione dal contenuto degli studi classici (gli autori e i loro testi) alla disciplina dedicata allo studio di questi testi, ai luoghi in cui essa si pratica e all’identità dei suoi addetti, i classicisti di professione. Più che colpire questa categoria, però, parlerei di una volontà di farla riflettere. La richiesta, infatti, è quella di iniziare a vedere i colori non tanto di Omero, di Cicerone… ma delle persone che di Omero e Cicerone hanno fatto la loro professione, ovvero le persone che hanno occupato e tuttora occupano le cattedre universitarie. Che sono tutti bianchi e storicamente maschi nei ruoli apicali.
In questo ambito, Padilla Peralta lancia una sfida netta a quello che, nel mondo universitario rappresenta un totem assoluto: chi arriva a occupare una posizione apicale, lo ha fatto per merito oggettivo. Che questo avvenga o no, è tutt’altro discorso, ma eventuali malcostumi non cambiano l’ideale a cui si tende: il vincitore di un posto universitario dovrebbe essere colui che - sulla base di criteri asettici e oggettivi - risulta il migliore rispetto ai suoi concorrenti. Ripeto: che questo nella prassi avvenga oppure no, è argomento utile a riempire ben altre pagine. Quel che importa qui sottolineare è questo: l’ideale a cui tende l’accademia vede il vincitore di una cattedra universitaria nel candidato che abbia mostrato la conoscenza della materia più estesa, le pubblicazioni migliori, i premi più prestigiosi, la maggiore rilevanza internazionale, la più spiccata capacità di attirare finanziamenti, i progetti più convincenti, la più evidente capacità didattica. Non solo: tutti questi titoli devono essere giudicati dalle commissioni nel modo più anonimo possibile, valutando solo i dati e non la persona che li ha prodotti, la cui identità razziale, di genere, sociale deve essere irrilevante. In altre parole: il corpo che ospita la mente che ha prodotto quei risultati non deve assolutamente entrare nella camera sterile in cui i chirurghi della valutazione sezionano con bisturi acuminati gli esiti del lavoro intellettuale.
Il problema, però, dicono i riformatori statunitensi, è che questa selezione obiettiva, sterile, scientifica, storicamente si è risolta nella vittoria di un maschio bianco dopo l’altro. Ma come potrebbe andare altrimenti, dato che è stato il bianco ad aver scritto le regole del merito, rendendo criteri principali proprio quei titoli che a lui costa meno sforzo acquisire, quei requisiti a cui lui ha maggiori possibilità di essere conforme. Non solo: questa preponderanza etnica ha anche determinato il fatto che le domande che il maschio bianco pone ai testi antichi e gli strumenti da lui tradizionalmente usati per indagarli assurgessero alla posizione di eccellenza oggettiva, pertanto le sue ricerche sono quelle che - nel buio della peer review - sembrano migliori, più solide, opportune. Anche un esponente di una minoranza può riuscire, questo è ovvio. Ma ce la fa nel momento in cui si comporta da maschio bianco e si approccia ai testi classici ponendo le stesse domande dei predecessori bianchi. Per invertire la rotta - dicono i rinnovatori - qualsiasi tipo di riforma della disciplina non potrà prescindere da una massiccia immissione di studiosi provenienti dalle minoranze, i quali siano accolti – ed è questo il punto centrale - anche e soprattutto in quanto esponenti delle minoranze e nel rispetto dei diversi approcci che possono apportare. Di conseguenza, ritengono che vadano favorite politiche di reclutamento mirato alle minoranze, ma senza che questo tipo di assunzione sia stigmatizzata come meno “meritocratica” rispetto ad una tradizionale, un esito che si potrà ottenere solo mettendo in seria discussione il concetto di merito e di oggettività della ricerca. Ciò potrà avvenire solo accettando l’impossibilità dello scindere gli esiti della ricerca dal corpo che l’ha prodotta e dallo spazio, dal ruolo, che quel corpo occupa nel mondo e dai bagagli culturali che a quel corpo sono connessi. Anche qui, posizioni forti e che meriterebbero una discussione ben più strutturata che non il semplice oddio la Cancel Culture ha nel mirino Cicerone.
Il contesto italiano deve sentirsi preoccupato da queste ansie revisionistiche d’Oltroceano oppure la diversa gestione dell’Università unita allo studio di latino e greco nelle scuole pubbliche salva i classicisti del Belpaese?
Parte della discussione sul ruolo degli studi classici tende a essere fraintesa soprattutto quando si confonde il contenuto, cioè il patrimonio culturale che ci proviene dall’Antichità, con il contenitore, vale a dire i luoghi, le persone e i motivi per cui questo patrimonio viene studiato. La domanda è quindi: il contenuto è classista e discriminatorio? Beh, il contenuto è espressione dei suoi tempi e - per di più - di quei tempi ci mostra solo un’angolatura, dato che è giunto fino a noi attraverso filtri e imbuti storici che hanno salvato alcune cose e determinato l’oblio di altre.
Ben più complessa è la domanda se il contenitore sia classista e discriminatorio. In alcuni sistemi, ad esempio quello anglofono, culla di questo dibattito, la risposta pende pericolosamente dal lato del sì: il latino e il greco lì vengono studiati di preferenza in istituti privati molto costosi, i quali permettono l’accesso ad università altrettanto private e costose dove - non esistendo un ente statale per il diritto allo studio universitario - il sistema delle borse di studio è del tutto episodico e palliativo, con buona pace di quel che ci raccontano i film e le serie tv. Sì, esistono scuole anche pubbliche che possono offrire un corso di latino e greco, ma questa è un’offerta opzionale e soggetta alla scelta della singola scuola.
Al contrario, ad oggi in Italia il latino e il greco sono materie obbligatorie per alcune tipologie e indirizzi di scuole secondarie pubbliche, le quali devono essere distribuite con omogeneità geografica su tutto il territorio nazionale. Uno studente può trasferirsi dal liceo classico di Trapani a quello di Trento e sempre troverà ad attenderlo lo studio del latino e del greco. Quando, invece, il latino e il greco non sono strutturalmente innestati nel sistema dell’istruzione secondaria, ovvero là dove non esista un tipo di scuola secondaria pubblica, uniformemente distribuita sul territorio, dove queste materie sono curricolari, allora sì che diventano materie elitarie e discriminatorie, anche perché molto spesso vengono utilizzate in tal senso. In quei contesti, possedere rudimenti di latino e greco diventa anche il modo con cui la società immediatamente capisce che si è animali di razza con un bel pedigree, dato che si ha avuto la possibilità di usufruire di un’istruzione privata e costosa.
Questo - secondo me - deve essere il punto fondamentale di ogni discorso sul futuro dell’antichistica: l’inclusività della disciplina passa 1. da quante persone possono studiarla e 2. da quante e quali possibilità lavorative offre. Per questo motivo, il dibattito sulla decolonizzazione dei classici dovrebbe passare anche (e soprattutto) dalla riflessione sull’importanza che i classici compaiano in ampi strati dell’istruzione pubblica: fino a quando il latino e il greco resteranno materie curricolari di alcuni indirizzi della scuola secondaria pubblica, ci saranno insegnanti, ovvero posti di lavoro. Altrimenti, è inutile girarci intorno: potrà studiare quella disciplina solo chi possa contare su risorse familiari sufficienti per affrontare la roulette russa del mercato accademico o del mondo della cultura, oppure da chi, semplicemente, non abbia la necessità di trasformare quel titolo di studio in un lavoro: pensionati, persone che vogliono prendere una seconda laurea per hobby, oppure che possano contare su altri canali per assicurarsi un’occupazione. Al di là dei proclami apocalittici, il latino e il greco non spariranno dall’universo. Quel che, però, possono fare è sparire dall’orizzonte delle possibilità che tutti possono ragionevolmente avere di fronte. E quando si toglie una cosa che prima veniva offerta a tutti gratis, solitamente questa stessa cosa ricompare a pagamento e diventa appannaggio di chi se lo può permettere.
Essendo uno studente di storia medievale sono curioso di sapere se secondo lei tutte queste critiche potranno interessare in un prossimo futuro anche il medioevo e i testi prodotti in quel periodo.
Qualcuno potrebbe dire di sì, perché anche elementi tratti dal medioevo, ad esempio i cavalieri crociati, vengono malamente usati dalla destra estremista xenofoba. Eppure, a mettere il medioevo un po’ al riparo contribuisce - paradossalmente - proprio quella che da sempre è la sua definizione più ingiusta, quella di “secoli bui”. Come abbiamo già detto, ad oggi è fortemente in discussione il perché studiare i classici e qualcuno dice che la risposta perché i classici sono espressione di una civiltà superiore che ha elaborato i più importanti valori dell’umanità sia da rifiutare. Se ci mettiamo da questo punto di vista, il medioevo potrebbe essere salvo e a fornirgli riparo è proprio il retrivo pregiudizio che lo vede come un’epoca di decadenza e barbarie rispetto (appunto) alla luminosa classicità. Sei un medievale! eh, benvenuti nel medioevo! solo per citare un paio tra le espressioni che spesso leggiamo sui social, non intendono certo essere un complimento. Quindi, il pericolo che il medioevo venga gettato giù dal piedistallo potrebbe essere non così urgente, proprio perché nel comune sentire il piedistallo non esiste. E questo - una volta tanto - potrebbe rivelarsi un bene.