Questo libro deve essere considerato un esempio di alta divulgazione con il quale lo storico di professione mette a disposizione dei lettori le acquisizioni raggiunte dalla medievistica negli ultimi decenni riguardo la comprensione storica dei «nuovi popoli» che si affacciano alla storia europea tra il tardo antico e l'alto Medioevo e dello stesso concetto di identità etnica presso quei popoli.
L’urgenza divulgativa nasce dal prepotente ritorno nel discorso politico europeo delle tematiche nazionaliste a partire dall'ultimo decennio del secolo XX. Le rivendicazioni nazionalistiche, siano esse emerse in seguito alla caduta del muro di Berlino (nell'ex Unione Sovietica come nei Balcani) o dovute alle inquietudini legate ai movimenti migratori in atto (ad es. il nuovo nazionalismo francese), o ancora legate a identità regionali o minoritarie all'interno di Stati consolidati (ad es. quelle catalane, basche o degli irlandesi del nord), assumono come punto di partenza, assodato e non discusso, le supposte acquisizioni territoriali delle popolazioni, intese in senso statico, che proprio nell'alto Medioevo avrebbero conquistato «una volta per tutte» i loro spazi nel continente europeo, e dalle quali discenderebbero direttamente i popoli attuali, eredi legittimi di quelle acquisizioni. Il libro risponde al «dovere dello storico di levare la propria voce» contro un simile uso della storia; il suo obiettivo è mostrare che: «se si pensa ai popoli europei - non importa se grandi comunità nazionali o minoranze - come a realtà sociali e culturali distinte, stabili e oggettivamente identificabili ciò significa cancellare 15 secoli di storia» (p. 28).
In primo luogo l’a. deve sgombrare il campo dai pregiudizi culturali ereditati dalle dottrine del nazionalismo etnico elaborate nel secolo XIX: in breve dal «mito delle nazioni». Per farlo analizza le contingenze storiche e culturali della nascita di quelle dottrine: i fini dichiaratamente politici e nazionalistici dello studio della storia dei popoli alto-medievali, l'ipostatizzazione delle categorie derivate dalla filologia germanica e indoeuropea secondo la sbrigativa equazione popolo=lingua, le verifiche, strumentali alle tesi assunte, condotte tramite l'etno-archeologia. A questo punto l’a. può affrontare i pregiudizi che precedono le teorizzazioni ottocentesche: le stesse fonti che raccontano l'apparire dei «nuovi popoli» e le loro storie non esprimono punti di vista “neutri” ma interpretano le nuove realtà etniche, politiche e sociali (di cui a volte gli stessi autori fanno parte) secondo le categorie dell'etnografia classica giocate sulla dicotomia civilitas/barbaritas (e quindi tra popoli nati «costituzionalmente» da un atto fondativo – come i romani – e «popoli naturali» come i barbari). Concezioni complicate dall'innesto nella cultura romana della nuova categoria di christianitas, e dal modello di etnogenesi del popolo eletto presentato nell'Antico Testamento.
Solo a questo punto l'a. elabora un quadro complessivo delle più recenti acquisizioni della storiografia: l'invenzione romana del concetto di germania e il ruolo giocato dalla politica e dall'economia imperiali nell'etnogenesi di “popoli” fortemente militarizzati a ridosso del limes; le diverse categorie identitarie degli uomini del tardo Impero e la reinvenzione di identità pre-romane nel quadro della regionalizzazione dell'Occidente; il “rimescolamento” delle identità barbariche determinato dall'arrivo degli Unni e dall'instaurarsi del loro impero multietnico; l'etnogenesi dei Visigoti, avvenuta dopo l'entrata nei territori imperiali e la vittoria di Adrianopoli, servita in parte da modello alle altre costruzioni politico-militari barbariche; la successiva necessità di una netta distinzione identitaria tra barbari e romani nel decisivo passaggio dell'istituzionalizzazione dei regni, distinzione che passa anche attraverso l'arianesimo; il “periferico” modello di integrazione precoce dei Franchi e la sua maggiore funzionalità politica; la molteplicità etnica nascosta sotto l'etichetta «Longobardi». E ancora, al volgere del secolo VIII, l'identificazione di fatto delle élites locali (al di là di ogni discendenza biologica) con il nome e la tradizione (veicolata anche dalle “leggi nazionali”) dei «popoli conquistatori» nei singoli regni. Infine la politica carolingia di cooptazione delle aristocrazie locali che lungi dall'omologare le identità regionali all'interno del proprio Impero, le preserva e ne favorisce anzi la riscrittura/reinvenzione pur sotto l'egida del «popolo eletto» franco. E contestualmente l'apparire di «nuovi barbari» (la complessa etnogenesi delle popolazioni slave a seguito del dissolvimento dell'impero ávaro) e la riformulazione concettuale del termine «romano» (ormai esclusivamente riferito agli abitanti di Roma o delle zone ancora soggette all'impero d'Oriente).
La ricostruzione offerta non implica di immaginare una storia europea «senza popoli», ma semplicemente di accettare l'evidenza che i popoli d'Europa sono stati e restano «un progetto in corso, un cantiere aperto», riconoscendo come il perdurare di etichette etniche tradizionali nasconda decisive discontinuità culturali, sociali e biologiche: «I Franchi nati con il battesimo di Clodoveo non sono i Franchi di Carlo Magno o quelli del popolo francese che Jean-Marie Le Pen sperava di riunire intorno al suo movimento politico. I Serbi che comparvero sulle macerie dell'impero degli Ávari non erano il popolo che fu sconfitto nella battaglia di Kosovo del 1389 e non erano nemmeno i Serbi chiamati da Slobodan Milošević a partecipare al suo progetto di megalomania nazionalista» (p. 156).