Premessa. Per uno studio della peregrinatio academica contemporanea
While during the Middle Ages the principle of “peregrinatio academica” […] [was one of] the key features of universities education, in the 18th and 19th century education developed to a key factor in nation building, and set limits to mobility. Even though these borders were partly disappearing after the Second World War, it was only in the 1980s that with the introduction of the Erasmus programme universities started to develop again more links to other European universities […].
Il brano, tratto dal documento conclusivo dei lavori del progetto EURECA (European Education Campaign) per la sensibilizzazione sul ruolo dell’istruzione universitaria, implementato nel periodo 2001 2002 dallo European Students' Forum, illustra in sintesi ciò che lo scambio di docenti e studiosi ha rappresentato e tuttora rappresenta nello sviluppo del sistema universitario internazionale. Dal punto di vista della stretta attualità, appare pienamente giustificato il riferimento al programma Erasmus, che nell’ultimo ventennio ha rappresentato una vera e propria chiave di volta per l’europeizzazione della formazione superiore [De Rita, Trombetti Budriesi 2006]. Altrettanto rilievo però merita il riferimento alla continuità storica del fenomeno: i più recenti studi sullo sviluppo dell’organizzazione universitaria individuano come essenziale elemento di continuità istituzionale la partecipazione dei maggiori atenei europei a una rete di scambio di conoscenze e di modelli formativi, i cui equilibri evidenziano peraltro una certa stabilità nel corso del tempo [Frijhoff 2005: 170 177]. Tuttavia, i modelli interpretativi della sociologia delle organizzazioni intellettuali e dei processi culturali che identificano la mobilità del personale scientifico come in un’immagine dello sviluppo della conoscenza intesa come sistema circolatorio [Hoch, Platt 1993; Livingstone 2003; Naylor 2005; Harris 2006] [1] rischiano spesso di appiattire le profonde differenze che hanno caratterizzato un movimento di così lungo periodo nel corso del tempo.
In primo luogo, il processo di formazione e consolidamento delle istituzioni statali nazionali e le profonde ripercussioni del nation building che ha rappresentato la cifra dell’Ottocento europeo hanno provocato contraccolpi immediati in una rete di scambi che fino a tutto il XIX secolo aveva il suo cuore e centro propulsore nel Vecchio continente, e che trovava nel carattere transnazionale e nell’ampia autonomia di gestione delle sedi universitarie i propri elementi costitutivi[2]. La tensione verso la nascita di una “scienza nazionale” le cui direttrici di sviluppo erano il risultato delle scelte strategiche di una politica culturale complessiva, accompagnata dalla formazione di sistemi di gestione unitari che rendevano sempre più chiaramente i luoghi di formazione universitaria strumenti finalizzati allo sviluppo civile della nazione [Jarausch 1983, Porciani 1994 e 2000], portò necessariamente a interpretare secondo questi parametri anche gli scambi di personale con gli atenei d’oltre confine[3].
Agli occhi dello storico, negli ultimi due secoli la progressiva istituzionalizzazione dei flussi di scambio e dell’erogazione delle risorse da parte di appositi fondi statali, con il conseguente diretto controllo amministrativo dei processi di selezione e delle modalità di messa in opera dei trasferimenti individuali, rappresenta un fenomeno destinato a generare una vera modifica nei paradigmi interpretativi della peregrinatio academica, soprattutto per quanto riguarda i livelli precoci di training scientifico. Da un lato, come dimostrano i numerosi case studies, anche per tutto il Novecento i meccanismi di mobilità oltre i patri confini per docenti, scienziati e intellettuali già pienamente affermati sono rimasti legati in buona parte a scelte individuali, relazioni interpersonali nel mondo universitario estero e necessità extra accademiche (di natura in primo luogo politica); dall’altro, per le figure intellettuali e professionali in formazione si rendeva necessaria l’istituzione di programmi articolati e soprattutto l’erogazione di fondi a sostegno dell’esperienza di scambio culturale, in una situazione che rendeva decisivo, anche nei suoi aspetti di politica più generale, l’intervento regolatore delle istituzioni pubbliche.
L’applicazione di questi parametri generali di valutazione e interpretazione allo specifico caso italiano appare ancora più complessa. In primo luogo i caratteri peculiari del processo di unificazione italiano, spesso avvenuto con il significativo contrasto di spinte centrifughe e localistiche e di rivendicazioni di autonomia delle comunità locali, ha finito per generare nei rapporti tra società e potere pubblico alcuni «campi di tensione» tra i quali non è mancata proprio la gestione delle istituzioni universitarie [Moretti, Porciani 1993]. Ogni tentativo di gestione organica “dall’alto” delle risorse economiche e delle prerogative delle singole sedi si sarebbe quindi sempre rivelato piuttosto laborioso, e avrebbe comportato una serie di compromessi. In secondo luogo, una riflessione sulla collocazione internazionale della cultura italiana non può non tenere in considerazione il fatto che il passaggio del sistema accademico della penisola a un’organizzazione integrata su scala nazionale avvenne in parallelo con l’acuirsi di un processo di “periferizzazione” degli atenei italiani nella geografia del sapere. In una prospettiva di lungo periodo, in effetti, anche la qualità della formazione e la centralità della ricerca hanno finito per assestarsi secondo i nuovi equilibri del “sistema mondo” uscito dalla rivoluzione atlantica, trovando il loro centro motore dapprima nell’Europa centro settentrionale, poi negli Stati Uniti; indagare sulla riorganizzazione delle relazioni internazionali dell’università italiana dopo l’unificazione significa quindi innanzi tutto valutare il grado di consapevolezza con cui le classi dirigenti affrontarono il problema cercando di invertire la tendenza alla perdita di rilevanza del movimento scientifico e culturale italiano [Lentini 1999].
Gli orientamenti di fondo che spingono a rinnovare l’attenzione verso la mobilità di personale accademico e competenze negli anni di sviluppo della “scienza nazionale” invitano a incrociare metodologie di indagine prosopografica e attenzione ai temi istituzionali, e a prestare attenzione alla sempre maggiore compenetrazione di temi più latamente politici e sociali nell’ambito della storia intellettuale. In questo saggio, pur nella consapevolezza dei molteplici punti di vista storico sociali e culturali da cui può essere osservato il fenomeno della circolazione internazionale del personale culturalmente qualificato nell’età contemporanea[4], si cercherà di verificare la possibilità di imbastire un’analisi d’insieme in questo senso del fenomeno della mobilità all’estero di studenti universitari e neolaureati italiani tra l’unificazione nazionale e la seconda guerra mondiale. In particolare si valuterà il contributo dei primi studi parziali su questo tema, e si offriranno i primi risultati di indagini documentarie svolte sulle carte di alcune strutture istituzionali al fine di sviluppare uno sguardo d’insieme che restituisca nella sua dimensione nazionale l’impatto della nuova peregrinatio academica.
L’Italia unita e la mobilità universitaria
Nel suo pionieristico studio del 1992 sulle borse di studio per l’estero messe a disposizione a studenti e neolaureati italiani dal ministero dell’Istruzione dai mesi immediatamente successivi alla proclamazione del regno d’Italia fino al 1894, Ariane Dröscher offre un quadro pressoché completo del primo piano di intervento ministeriale sistematico per organizzare la mobilità del personale intellettuale in formazione. Il progetto, destinato a interessare diverse centinaia di universitari nasceva con l’esplicito scopo di rimediare alla preoccupante chiusura provinciale che l’accademia italiana stava conoscendo da alcuni decenni attraverso un contatto con l’estero organico e non lasciato a iniziative occasionali o all’impegno di singoli studiosi.
Questa necessità di aprire le frontiere allo sviluppo della formazione universitaria era sicuramente sentita da una classe dirigente della quale molti esponenti avevano passato lunghi periodi all’estero per ragioni politiche, e che avevano potuto verificare l’arricchimento generato dal confronto con l’estero. Tuttavia, ciò può non essere sufficiente a spiegare l’organicità dell’intervento ministeriale italiano, che per intensità non aveva equivalenti nell’Europa di allora. Svolgendo anche una prima analisi a campione dei destini professionali dei borsisti, infatti, si nota il frequente legame tra il periodo di perfezionamento post laurea all’estero e il successo nella carriera di docente universitario.
Sicuramente, nel secondo Ottocento un contatto con la formazione superiore dell’Impero tedesco, meta principale per gli studenti universitari italiani di ogni disciplina e allora modello per ogni sistema universitario nazionale, era considerato anche in altri paesi d’Europa un requisito quasi essenziale per procedere all’insegnamento di alcune discipline, come ricorda Haines in una sua famosa pagina sullo sviluppo della filologia inglese:
Gli studiosi inglesi frequentavano le università tedesche per la stessa ragione per cui studenti da tutte le nazioni vi andavano durante tutto il secolo: perché le università tedesche avevano sviluppato studi specializzati in modo non comparabile con nessun’altra situazione. […] Per mezzo di studiosi addestrati alla tedesca, molti dei quali tornarono all’insegnamento in Inghilterra, la filosofia e i concetti tedeschi infiltrarono e imbevettero gli studi umanistici non solo nelle due antiche università [di Oxford e Cambridge], ma in tutto il Regno. [Haines 1969: 21; Schiera 1987: 288 e ss.]
Nel caso italiano, però, questa relazione tra permanenza in Germania, o (in un numero minore di casi) in Austria o in Francia, e l’accesso alla docenza negli atenei al ritorno del periodo di perfezionamento era propria di un numero decisamente più ampio di aree, non semplicemente per le discipline di ricerca “pura” in cui il modello formativo humboldtiano si era mostrato incontestabilmente superiore [Marin 2010], come mostra l’interesse strategico a favorire la mobilità verso i migliori ospedali dell’Europa centrale di neolaureati e specializzandi in Medicina [Dröscher 2006], destinati poi a contribuire, al ritorno, a quello sviluppo delle discipline patologico cliniche che a cavallo del 1900 avrebbe condotto le sedi italiane più attrezzate a un vero salto di qualità [Forti Messina 1998]. Per il ministero, insomma, la borsa di studio apparve soprattutto uno strumento di completamento della formazione all’insegnamento universitario, con la quale nel corso del tempo si sarebbe sopperito all’assenza di percorsi post laurea adeguatamente strutturati in questo senso, caratteristica destinata a segnare per decenni l’università italiana. Non a caso, dalla metà degli anni Settanta i finanziamenti ministeriali vennero sempre più spesso sganciati dalla loro destinazione di borsa di studio fuori dei confini nazionali, per permettere a giovani di valore di proseguire la loro attività in Italia nel difficile periodo che andava dalla laurea alla libera docenza.
L’Istituto interuniversitario italiano
La sospensione delle borse di studio ministeriali alla fine del secolo non portò certo alla cancellazione di un modello di organizzazione centralizzata dei rapporti accademici con l’estero, visto che una proposta ancora più strutturata si presentò non appena il governo ebbe l’opportunità di rivedere organicamente il sistema universitario. Il 17 marzo del 1923, nell’ambito delle iniziative di promozione del suo progetto di riforma complessiva degli studi, il ministro dell’Istruzione Giovanni Gentile fondò con il supporto del funzionario degli uffici culturali del ministero degli Esteri Amedeo Giannini l’Istituto interuniversitario italiano. L’organismo, che nel 1928 sarebbe stato elevato a ente morale acquisendo una piena legittimità istituzionale, sfruttava appieno la rinnovata forza delle istituzioni centrali di gestione, che potevano contare sullo sviluppo autoritario del regime mussoliniano degli anni Venti, e raccoglieva rappresentanti di quasi tutti gli atenei italiani e coordinava i loro sforzi in un piano organico di promozione e diffusione della cultura scientifica italiana all’estero. Nell’ambito delle finalità dell’Istituto, la gestione degli scambi di docenti e studenti con l’estero rappresentava solo una delle attività, che si incentravano soprattutto sulla rivitalizzazione delle Università per stranieri e dei corsi universitari per non italiani, e sulla preparazione di personale qualificato (professionalmente e politicamente) per l’insegnamento della lingua e della cultura italiana negli atenei stranieri. La possibilità, per l’Istituto, di creare e gestire posti di studio per studenti e laureati stranieri in Italia permetteva comunque una gestione della mobilità degli italiani grazie alle clausole di reciprocità, e la partecipazione agli organismi direttivi dei rappresentanti di tutte le principali università permetteva una distribuzione delle borse sulle sedi più adatte in base alla natura dello scambio e alle specificità degli atenei[5].
Nel corso dello sviluppo istituzionale dell’Istituto interuniversitario italiano, destinato a protrarsi praticamente fino al secondo conflitto mondiale, avrebbero finito per rendersi esplicite alcune linee direttrici peculiari della sua strategia organizzativa, interessanti soprattutto perché contribuirono a segnare alcune delle maggiori differenze tra il mondo accademico liberale e quello degli anni del fascismo. Fin dalla sua nascita, nelle intenzioni di Gentile, l’organismo puntava innanzi tutto a restituire all’Italia un ruolo attivo negli scambi culturali, garantendo alla produzione intellettuale del paese una visibilità di portata quantomeno europea. Di conseguenza, anche la gestione degli scambi di personale rientrava in un programma che favoriva “l’esportazione” del sapere nazionale sulla sua “importazione”. Con la progressiva politicizzazione dell’Istituto, destinato a passare negli anni Trenta sempre più direttamente sotto il controllo del ministero degli Esteri, un simile atteggiamento si tradusse spesso in una subordinazione della gestione degli scambi a necessità di carattere politico: nel caso della grande espansione dei rapporti culturali degli atenei italiani con i paesi dell’Europa centro orientale, dalla Polonia all’Ungheria, che avrebbe caratterizzato gli anni immediatamente precedenti allo scoppio del conflitto mondiale, si sarebbe giunti ad atteggiamenti paradossali e quasi schizofrenici, dapprima proponendo le sedi universitarie italiane come luogo di raccolta degli studenti europei di origine ebraica, e poi trasformando gli stessi individui in persone non gradite nel giro di pochi mesi, con la rapida e rigorosa applicazione delle leggi razziali al mondo accademico [Signori 2000 e 2009]. Per quanto riguarda, in modo specifico, il controllo sugli studenti e sui neolaureati italiani inviati all’estero, man mano che nell’Istituto interuniversitario (e in generale nella politica culturale italiana) si andarono ridimensionando l’influenza di Gentile e conseguentemente la sua difesa dell’autonomia delle operazioni culturali dalla politica di partito, assunsero un ruolo sempre più rilevante di interlocutore i Gruppi universitari fascisti: essi, da un lato, iniziarono a svolgere una funzione di controllo della disciplina politica dei titolari delle borse di studio e, in forma meno diretta, degli universitari stranieri in Italia; dall’altro, i GUF più importanti ed economicamente più ricchi avrebbero tentato a più riprese di istituire programmi di visite e soggiorni all’estero per i loro membri, paralleli a quelli gestiti dagli atenei[6].
Epilogo: l’Italia dalla mobilità “nazionale” alla rete “atlantica”
Stando a quanto affermato finora, da un punto di vista istituzionale “interno” l’aspetto principale nell’incontro tra la gestione degli scambi accademici con l’estero e il regime dittatoriale fascista fu la progressiva politicizzazione nella selezione sia delle sedi che dei titolari dei posti di studio e ricerca. Se ciò all’inizio si legava a un tentativo di offrire al paese una rinnovata centralità nel panorama intellettuale internazionale, nel corso del tempo il privilegio dei criteri diplomatici su quelli culturali portò a risultati qualitativamente discutibili, come ad esempio il privilegio delle relazioni culturali con l’Ungheria rispetto a quelle con realtà accademiche di maggior pregio qualitativo, come la Francia e la Gran Bretagna.
Prendendo però in considerazione l’attività dell’Istituto interuniversitario italiano nel più completo contesto internazionale della mobilità intellettuale interbellica, occorre mettere in evidenza che anche l’obiettivo di creare per la partecipazione italiana alla vita culturale internazionale un centro propulsore unico votato alla promozione degli interessi nazionali riuscì solo parzialmente. Proprio in quegli anni, ad esempio, si sarebbe sviluppato appieno in Europa, e anche nei rapporti con l’Italia il potenziale finanziario e organizzativo delle grandi fondazioni culturali americane, in particolare in quel periodo la Rockefeller Foundation, che attraverso l’amministrazione di grants e fellowships negli studi medici e nelle scienze sociali riuscì a creare una fitta rete di scambi transnazionali di personale scientifico [Tournès 2010]. In Italia, in particolare, l’individuazione da parte del board della Rockefeller di Luigi Einaudi tra i principali referenti europei in materia economia e finanziaria garantì lo sviluppo di un’attenzione crescente della fondazione per i neolaureati italiani che intendevano proseguire i loro studi nelle scienze sociali [Gemelli 1995].
Una simile situazione ebbe due conseguenze fondamentali. In primo luogo, l’impegno economico della Rockefeller per la mobilità di personale accademico italiano portò gradualmente alla creazione di una sorta di rete di opportunità internazionali parallela a quella gestita dall’Istituto interuniversitario. Il mancato conseguimento del controllo esclusivo delle borse di studio per l’estero da parte dell’ente fondato da Gentile rappresentava di per sé una falla di non poco conto per tutto il progetto. In primo luogo, sul piano squisitamente politico, nel corso degli anni Trenta i programmi di mobilità gestiti dalla fondazione newyorkese divennero il punto di riferimento per una rete di intellettuali italiani ostili o quantomeno freddi nei confronti del regime, che spesso approfittarono dell’occasione di spostarsi all’estero per non rientrare più in patria e contribuire a sviluppare nell’opinione pubblica internazionale la diffidenza nei confronti della dittatura mussoliniana. Questo emerge dagli attuali studi sui rapporti politico culturali intessuti negli anni Trenta e Quaranta da intellettuali come Max Ascoli, borsista Rockefeller nel 1931 e poi docente presso la New School for Social Research, e più tardi da Mario Einaudi, figlio di Luigi, fellow nel biennio 1927 29 e poi destinato a diventare uno dei più importanti studiosi americani di politica comparata [Camurri 2009].
Al di là di questo, l’azione di questi former fellows poi stabilitisi negli Stati Uniti e destinati a restare in contatto con la loro fondazione di riferimento avrebbe avuto anche un effetto più generale e duraturo. La loro possibilità di mantenere o riprendere contatti con la cultura accademica italiana avrebbe portato, dopo il 1945, alla fioritura di possibilità di studio negli USA per neolaureati italiani, accompagnata da un nuovo slancio nell’investimento finanziario per la ricostruzione dei centri di formazione superiore italiani, sia da parte della Fondazione Rockefeller che della Ford, istituto filantropico che con l’inizio degli anni Cinquanta avrebbe ampliato la sua azione su scala mondiale [Gemelli 1998].
Su queste basi, infine, a partire dal 1946 avrebbe trovato possibilità di rapida strutturazione il meccanismo di finanziamento della mobilità da e per gli Stati Uniti promosso dal senatore J. William Fulbright. Il consolidamento del programma, che in pratica garantiva al solo governo americano ampio potere direttivo sul più ricco e complesso piano di scambi internazionali di personale accademico lasciando ai paesi partner spazi di intervento piuttosto ridotti e periferici [Tobia 2007], avrebbe sancito definitivamente gli equilibri nella circolazione del sapere destinati a durare fino a tempi recenti.
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Note
[1] Ringrazio Ariane Dröscher per aver condiviso con me le sue riflessioni, ancora in parte inedite, sulla natura del fenomeno della moderna mobilità intellettuale, e per avermi fornito preziose indicazioni sui possibili sviluppi in questo campo.
[2] Per un termine di paragone con l’età moderna, cfr. Brizzi 2009.
[3] Per alcune riflessioni generali in questo senso nel più ampio panorama europeo, cfr. Charle 1994.
[4] Per una serie di interventi di maggior respiro metodologico rinvio in particolare a Peter Tikhonov 2003.
[5] Nell’assenza di studi specifici su questa istituzione chiave per la vita universitaria negli anni Venti e Trenta — unica parziale eccezione è forse, per alcuni elementi, Giuntella 2001 — per le informazioni di base si rinvia al materiale raccolto nell’Archivio della Fondazione ‘Giovanni Gentile’ di Roma, Carte Giovanni Gentile, b. 10, Enti vari, f. 8, Istituto interuniversitario italiano; oltre a numerosi annuari dell’Istituto e alle bozze delle modifiche statutarie, sono conservate le minute di alcune relazioni di Gentile al consiglio direttivo dell’organizzazione.
[6] L'esempio meglio ricostruito è quello bolognese, cfr. Salustri 2009.