Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

Dalla schiavitù al razzismo nella giustificazione biblica dell’America protestante nel XIX secolo

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Abstract

Per secoli la maledizione di Noè su Cam era stata utilizzata per la giustificazione biblica della schiavitù. A cavallo della Guerra civile americana che conduce all’abolizione della schiavitù, la transizione alla distruzione dell’unità di linguaggio a Babele per giustificare biblicamente la segregazione razziale dimostra che ciò che giustifica la schiavitù non giustifica il razzismo. L’africano non è lo schiavo. Nello studio del razzismo come fenomeno storico con un approccio globale, l’elemento religioso assume un ruolo-chiave per la decostruzione della metonimia tra razza e schiavitù e la comprensione del perché il razzismo prospera proprio nell’epoca dell’emancipazione.

For centuries, Noah’s curse on Cam had been used for the biblical justification of slavery. At the turn of the American Civil War that led to the abolition of slavery, a shift towards using the destruction of the unity of language in Babel to biblically justify racial segregation shows that the same rhetoric that justified slavery did not work to justify racism. Africans are not the same as slaves. In studying racism as a historical phenomenon using a global approach, the religious element proves to have played a key role in deconstructing the metonymy between race and slavery, and in understanding why racism thrived in the very era of emancipation. 

Schiavitù, razza, razzismo

La schiavitù è un’istituzione, una delle più antiche e diffuse nella storia. La razza è un costrutto mentale, un’invenzione basata sull’idea di superiorità di uno o più gruppi su uno o più gruppi considerati inferiori. Ora, anche l’idea di razza è antica e diffusa quanto l’istituzione della schiavitù: lo dimostra la recente ed emergente storiografia che rilegge la storia attraverso le idee, le politiche e le categorie razziali che l’hanno contraddistinta, e che solo a volte hanno incrociato la schiavitù, perlopiù per giustificarla (Eliav-Feldon, Isaac e Ziegler 2009; Bethencourt 2013; Schaub e Sebastiani 2021; Turda 2021).

Ma è nel corso dell’Ottocento, col tramonto dell’istituzione schiavista, che una specifica idea di razza, quella dell’inferiorità del “nero” e della superiorità del “bianco”, diventa istituzione, con la segregazione e la discriminazione razziale. Nella prima metà del secolo, quell’idea di razza, ormai diffusa a macchia d’olio nello spazio pubblico fin dagli albori della storia naturale nel Settecento, cioè fin da quando Linneo definisce l’africano “scaltro”, “indolente” e “negligente” [1], prende forma in un costrutto ideologico più complesso che fonda una visione del mondo e una prospettiva egemonica. Prende forma, cioè, nel razzismo, che è il risultato della convergenza di interessi economici e politici, in cui quell’idea di razza viene supportata in modo decisivo dalla scienza – da cui la nota dicitura di “razzismo scientifico” (Michel 2021, 10).

Questo implica due principali conseguenze, entrambe di fatto metodologiche, per lo studio del razzismo come fenomeno storico. In primo luogo, un approccio globale, che prenda in considerazione il fattore politico, economico e scientifico nei loro elementi convergenti che confluiscono nella costituzione del paradigma razziale. In secondo luogo, la necessità di “cominciare col decostruire la metonimia del negro, che associa africano a schiavo” (Michel 2021, 13): senza la dissociazione tra africano e schiavo non si potrebbe comprendere il nodo cruciale della storiografia sulla razza, e cioè “perché il razzismo prosperò proprio nell’epoca dell’emancipazione” (Blackburn 2020, 11).

I recenti studi storici sulla nascita del razzismo hanno cominciato la decostruzione di quella metonimia: anche se sicuramente “dopo la proibizione della schiavitù degli indiani nell’Impero spagnolo” (Michel 2021, 7) la quasi totalità degli schiavi proviene dall’Africa subsahariana, la schiavitù non è di per sé “né nera né specificamente africana” (29).

Fino all’Illuminismo compreso, il Nègre è inscindibile dal suo stato di schiavo, dalla “sua natura di merce” (117), osservata peraltro sempre con rammarico. È così nell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert (1751-1772), ma anche in Buffon: “non posso scrivere la loro storia [dei Negri] senza intenerirmi sul loro stato [di schiavi]”, scrive nella sua Histoire naturelle, non prima di aver comunque precisato, contro le classificazioni di Linneo, che “la natura non ha né classi, né generi, e non comprende che degl’individui: tali generi e tali classi sono l’opera del nostro spirito, e non sono che idee di convenzione” [2]. Insomma, fino alla seconda metà del Settecento, in Europa il “nero” indica lo schiavo, non l’africano: si distinguono, per esempio, i “Negri” dagli “Etiopi” o dagli “Ottentotti” [3], anch’essi africani.

Quindi, il concetto di “nero”, basato su evidenti fenotipi specifici come il colore della pelle e la forma del volto, precede di gran lunga l’idea razziale della sua inferiorità. Idea che, a sua volta, non precede la schiavitù, ma la sostituisce, consolidandosi in razzismo e istituzionalizzandosi con la segregazione e la discriminazione razziale (Michel 2021, 9).

Ebbene, in un approccio globale allo studio del razzismo come fenomeno storico, nonostante il fattore scientifico sia stato senza dubbio quello decisivo per la sua istituzionalizzazione, la dimensione religiosa del discorso razziale è assai rilevante per fissare la decostruzione della “metonimia del negro”: il riferimento è alla giustificazione biblica del razzismo, in particolare nella sua necessità di variare, di cambiare, di dover essere altra rispetto alla giustificazione biblica della schiavitù. L’analisi di questa alterità è alquanto determinante per fissare la dissociazione tra africano e schiavo, e viene qui affrontata per come essa si sviluppa nel discorso razziale americano del XIX secolo.

L’africano e lo schiavo nella dimensione religiosa del discorso razziale

Nella cosiddetta “età prebellica”, la parte di secolo che precede la Guerra civile americana, l’influenza religiosa negli Stati Uniti è saldamente permeata dal protestantesimo, nonostante esso sia sempre più minacciato all’esterno dall’incremento della popolazione cattolica, e sempre meno omogeneo al suo interno: le varie e variegate distinzioni dottrinali tra anglicani, presbiteriani, battisti, congregazionalisti e metodisti sono tante e tali da suscitare numerose perplessità perfino sul fatto che queste comunità appartenessero a una fede condivisa (McGrath 2017, 225). E i contrasti sulla questione della schiavitù, non solo tra le denominazioni ma anche all’interno di ciascuna di esse, non fanno che acuire le differenze e la disomogeneità all’interno del protestantesimo americano (Kolchin 2003; Juster e MacFarlane 1996).

Da una parte, infatti, in seguito al cosiddetto “secondo grande risveglio” (1800-1830) il revivalismo religioso aveva portato alla formazione di influenti movimenti abolizionisti, che ebbero il loro centro all’Oberlin College in Ohio [4], ma che non si formarono soltanto negli stati del Nord, diventati il simbolo della modernizzazione del paese col loro modello economico industriale. Anche nel Sud, dominato dall’economia di piantagione, i metodisti che avevano preso posizione contro la schiavitù andarono a costituire la Free Methodist Church, mentre i protestanti neri erano in costante aumento tra i membri della chiesa battista: il risultato fu che, già in epoca prebellica, i cristiani afroamericani costituivano una significativa voce che fondava nell’Antico Testamento la difesa della propria rispettabilità razziale [5] e “sollecitava le chiese a leggere l’Antico Testamento alla luce del Nuovo e ad abolire la schiavitù” (McGrath 2017, 440).

Questo diventava però piuttosto difficile se, dall’altra parte, lo stesso revivalismo religioso stava ponendo le basi della Bible Belt. Nel Midwest e soprattutto nel Sud, in cui la posizione dominante è in favore della schiavitù, istituzione alquanto solida e radicata in questa parte del paese, i protestanti neri vengono “largamente esclusi dalle denominazioni tradizionali”, che restano “prevalentemente bianche” (McGrath 2017, 233) [6], e la giustificazione biblica della schiavitù costituisce un supporto fondamentale per sostenere e difendere l’istituzione contro i movimenti abolizionisti: è addirittura Jefferson Davis, cioè il presidente della Confederazione degli stati del Sud, ad affermare che la schiavitù è “sancita nella Bibbia, sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento, dalla Genesi all’Apocalisse” (citato in McGrath 2017, 440).

Nel mondo protestante del Sud prebellico, pertanto, è notevole l’incremento del ricorso a riferimenti scritturistici per legittimare la schiavitù e delegittimare l’abolizionismo su basi bibliche, così come l’incremento del numero di persone che accorrono ai discorsi e ai sermoni dei predicatori, il cui consenso è così vasto da esercitare un ruolo di primissimo piano nello spazio e nel dibattito pubblico, nonché per la formazione dell’opinione pubblica. L’ideologia schiavista diventa centrale specialmente per gli evangelici del Sud, per cui la Bibbia era “in perfetta armonia” col corso degli eventi, “con le credenze della scienza, della storia, della libertà politica e dell’economia contemporanee” (Daly 2002, 4): insomma, la schiavitù era considerata parte del disegno divino, una questione di “fatalismo etico” (100) del tutto consonante con la storia americana. E i movimenti abolizionisti rappresentavano pertanto un progressismo che si allontanava dalla parola di Dio, un pericoloso atto di hybris nel tentativo di “anticipare e influenzare il futuro corso della Divina Provvidenza” (100).

Nel Sud prebellico era come se la disomogeneità interna al mondo protestante di cui si diceva trovasse una “omogeneità religiosa” (McGrath 2017, 231) nella giustificazione biblica della schiavitù, nel costituire una “cintura biblica” intorno alla schiavitù per difenderne l’istituzione (Boles 1996; Heyrman 1998).

Nel ricorso ai riferimenti scritturistici, teologi e predicatori utilizzavano soprattutto l’Antico Testamento, che da “Agar, schiava di Sara” (Genesi 16:8 [7]) fino allo schiavo come “denaro del padrone” (Esodo 21:21) forniva ai sostenitori della schiavitù diverse argomentazioni per giustificarla [8]. Ancora più in particolare, veniva utilizzato il libro della Genesi, su cui incombeva un approccio letteralista, almeno fino alla fine del XIX secolo – quando venne messo in crisi dalla diffusione del darwinismo (McGrath 2017, 518-24; Livingstone 1986; Reynolds 1999; Livingstone e Noll 2000; Giberson e Yerxa 2002).

Con la vittoria degli Unionisti nella Guerra civile e la conseguente abolizione della schiavitù in tutto il paese, nella cosiddetta “età della Ricostruzione” lo scenario muta assai radicalmente. Non tanto dal punto di vista sociale, perché di fatto nelle piantagioni lavora in pratica la stessa manodopera nera di prima, nelle stesse condizioni di lavoro, solo non più in catene e con un salario minimo – nella maggior parte dei casi insufficiente per il sostentamento (Ferrone e Motta 2023, 636). Lo scenario muta però assai radicalmente dal punto di vista della giustificazione biblica, che per i sostenitori della segregazione e discriminazione razziale non deve più riguardare la schiavitù, ma il mantenimento degli africani in una condizione inferiore, in quanto inferiori.

Ebbene, lo iato nella giustificazione biblica quando non va più giustificata la schiavitù bensì il razzismo dimostra che l’africano non è lo schiavo.

Se molti e molto diffusi erano i passi biblici utilizzati per giustificare la schiavitù, la maledizione di Noè su Cam in Genesi 9:25-27 è senza dubbio non solo uno dei più rilevanti, ma soprattutto, per quel che qui ci riguarda, uno dei più funzionali per decostruire “la metonimia del negro”: a cavallo della Guerra civile, tra la fine della schiavitù e l’istituzione del razzismo, la parabola di questo passo biblico nel discorso razziale americano – che verrà qui analizzata nelle sue diverse fasi, in relazione ai mutamenti del contesto storico e culturale, nonché istituzionale e costituzionale – è estremamente indicativa per fissare la dissociazione tra l’africano e lo schiavo necessaria per lo studio del razzismo come fenomeno storico.

La maledizione di Noè su Cam, l’onore, lo schiavo

La maledizione di Noè su Cam per giustificare la condizione dello schiavo viene utilizzata dai cristiani d’Occidente fin da quando gli europei utilizzano l’africano come schiavo. Comunque legato alla visione monogenetica dell’umanità, in età moderna l’episodio biblico nell’esegesi cattolica e protestante spiega come sia possibile “fare di uomini liberi degli schiavi e di bianchi dei neri” (Mazzolini 1998-99, 118) e la condizione di “alterità” dello schiavo nella sua “nerezza” (125) [9]. Insomma, nel corso dell’età moderna arriva a rappresentare una “doppia maledizione” per l’africano, in quanto schiavo e in quanto “nero” (Goldenberg 2017) [10], come emerge chiaramente anche nel discorso razziale americano prebellico.

[Noè] allora disse: “Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!”. Disse poi: “Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!”. (Genesi 9:25-27)

In America, se la maledizione di Noè su Cam viene usata per giustificare la schiavitù fin dallo sbarco dei primi schiavi sulle coste della Virginia nel primo Seicento, nella prima metà dell’Ottocento l’episodio biblico è ormai da tempo entrato di diritto nell’arsenale delle armi più affilate da impugnare per i sostenitori della schiavitù, in particolare nel Sud del paese. In altre parole, è diventato un vero e proprio “vademecum per tutti i proprietari di schiavi” [11].

Per il presbiteriano James Smylie, basta semplicemente raccontare la storia, senza nemmeno perdersi più di tanto in complesse analisi interpretative affinché emerga da questo passo della Genesi l’evidente giustificazione biblica dell’istituzione della schiavitù: Noè condanna una parte della sua famiglia a “diventare schiava delle altre”, e questa parte sono “i discendenti di Cam” [12].

Dopo gli anni Trenta dell’Ottocento, però, sotto la pressione di un movimento abolizionista sempre più organizzato e determinato, specialmente nel Nord, emerge chiaramente da parte dei sostenitori della schiavitù la necessità di argomentare biblicamente le indelebili cause della condanna di Noè su Cam: la sua colpa biblica di “aver visto il padre nudo” (Genesi 9:22) viene definita da John Fletcher nei termini di “cattive maniere”, dal presbiteriano George Armstrong in quelli di “peccato”, dal battista J.L. Dagg in quelli di un vero e proprio “crimine” [13]. Di fatto, costoro non fanno altro che precisare ciò che fin dagli anni Venti Frederick Dalcho, ministro della Chiesa episcopale, aveva definito una “malvagità abominevole” [14].

Ma, fin qui, ancora nulla sulla natura del peccato di Cam, sui termini nei quali esso si declina: questo è un tema molto trattato dai sostenitori della schiavitù soprattutto alla fine degli anni Cinquanta, con la minaccia della guerra civile e dell’abolizionismo ormai alle porte. Il metodista Samuel Baldwin parla di “comportamento vile”, fonte di “vergogna” per il padre, di “disonore filiale” [15]; per il presbiteriano James Sloan, quella di Cam è una mancanza di “decenza” e di “rispetto” [16], una violazione del comandamento “onora il padre e la madre” (Esodo 20:12).

Nell’epoca della Guerra civile, con una prospettiva non promettente per gli stati del Sud e per lo schiavismo, il radicamento biblico della colpa di Cam prende forma e si esprime nei termini di una “questione d’onore”, di un “affare d’onore” [17]. Il governatore della Georgia Howell Cobb e il ministro congregazionista Joseph Thompson insistono molto su queste espressioni già negli anni Cinquanta, e nel decennio successivo tra la schiavitù e i termini “onore” e “disonore” [18] si viene a creare un legame indissolubile in tutta la dimensione religiosa del dibattito pubblico sulla schiavitù, sia nel Nord sia nel Sud, sia tra i suoi difensori sia tra gli abolizionisti – come lo stesso Thompson.

Cam è il figlio colpevole di “aver disonorato il padre” [19]. Un padre che, come ricorda il metodista John Robinson, ricopre il ruolo di “vecchio patriarca oltre che, temporalmente, di genitore”: la condanna di Cam alla schiavitù è pertanto una “profezia mantenuta in tutta la storia fino al giorno d’oggi” [20]. Un oggi in cui la schiavitù, secondo il pastore-capo della Chiesa episcopale John Hopkins, è la condizione di morte sociale (Patterson 1982) che il patriarca “ha ritenuto essere la più adatta” per i suoi “disonorevoli discendenti” [21].

Queste interpretazioni hanno molta presa nell’immaginario pubblico, perché perfettamente in linea con la visione e la funzione genitoriale e patriarcale del padrone nei confronti dello schiavo, molto diffusa negli stati del Sud: è la tendenza, evidenziata soprattutto dal presbiteriano James Lyon, a considerare la relazione tra padrone e schiavo come “uguale a quella tra genitore e figlio” [22].

Insomma, a cavallo della Guerra civile, con la vittoria dell’Unione e dell’abolizionismo alle porte, le interpretazioni della maledizione di Noè su Cam per la giustificazione biblica della schiavitù tendono a radicarsi intorno ai termini di “onore” e “disonore”: la schiavitù è la condizione a cui Noè ha inesorabilmente condannato Cam e i suoi discendenti per aver disonorato il padre, “un attacco contro l’autorità della famiglia, l’istituzione scelta da Dio per governare la razza umana” (Peterson 1978, 49). Una colpa irrimediabile e irredimibile per una cultura e una mentalità come quella del Vecchio Sud, in cui l’onore occupa un posto così rilevante tra i valori sociali da essere oggetto di un vero e proprio culto [23].

La dispersione delle nazioni, l’ordine, l’africano

Negli anni della Guerra civile, tuttavia, quella nei termini di “onore” e “disonore” non è l’unica tradizione interpretativa della maledizione di Noè su Cam. Ha molta presa nel dibattito pubblico sulla schiavitù anche quella nei termini di “ordine” e “disordine”, cresciuta in popolarità nella prima metà dell’Ottocento.

Nel Vecchio Sud l’“ordine”, nel mondo religioso come in quello politico, tra i presbiteriani conservatori della cosiddetta “Vecchia Scuola” e i politici difensori delle tradizioni come John Calhoun, era sinonimo di stabilità sociale: l’abolizionismo la minacciava, quindi significava “disordine”. D’altronde, nello spazio pubblico l’abolizionismo era perlopiù visto come figlio della dottrina illuminista dell’uguaglianza, che in Europa aveva causato l’anarchia e il disordine della Rivoluzione francese, e che ora voleva causare anarchia e disordine al di qua dell’oceano (Haynes 2002, 155-56) [24].

E allora ecco che già Dalcho, negli anni Venti, parlando di “malvagità abominevole” a proposito dell’atteggiamento di Cam, aveva invitato a diffidare del “reale carattere dei Negri”, cioè a guardare con “prudenza” ai discendenti di Cam “per migliorare la loro condizione morale e spirituale senza sconvolgere l’ordine sociale” [25]. Anche Smylie, negli anni Trenta, aveva ipotizzato che i discendenti di Cam che minacciavano l’ordine sociale fossero coloro “da cui si suppone derivino gli africani” [26].

Ma contro l’avanzata del movimento abolizionista, dagli anni Quaranta non bastava più una supposizione: per i sostenitori della schiavitù, la sovrapposizione tra schiavo e africano doveva avere una giustificazione biblica.

Il fisico Samuel Cartwright non si sofferma nemmeno più sul tipo di peccato di Cam, ma mira direttamente a sancire un nesso tra Cam, l’africano e lo schiavo: Cam è “l’antenato eponimo” degli africani, che ereditano la sua condizione di schiavitù. Siccome il carattere degli africani è segnato dall’“animalità”, cioè sono schiavi dei propri impulsi, passioni e appetiti, così la schiavitù è la loro condizione per “prescrivere e rinforzare il loro temperamento, per trattenerli, per riportarli alla ragione e all’ordine” [27].

Sull’eponimia, irrompe perentoriamente il famoso scrittore Josiah Priest: Slavery as It Relates to the Negro or African Race, pubblicato nel 1843, è destinato a un enorme successo, con svariate edizioni negli anni Cinquanta e Sessanta, indiscutibile punto di riferimento dell’intero discorso razziale americano. Per Priest, tutto sta già nel nome del disonorevole figlio di Noè: Cam, dall’egiziano Khem, cioè “terra nera”, “non solo significa nero, nel suo senso letterale, ma contiene la reale disposizione della sua mente”: significa “di temperamento caldo o violento, estremamente incline ad atti di ferocia e crudeltà, che comportano uccisione, guerra, massacri e perfino cannibalismo [28].

Insomma, l’africano è la prima fonte di “disordine”. Il reverendo Leander Ker cavalca questa interpretazione, mentre il teologo presbiteriano Robert Dabney la mantiene viva anche dopo la Guerra civile: la schiavitù è “la punizione di Dio e il rimedio per la peculiare degenerazione morale di una parte della razza” [29].

A consolidare questa interpretazione, ci sono le letture extra-testuali della maledizione di Noè, che vedono nel Cam che “racconta ai due fratelli” (Genesi 9:22) della nudità del padre un gesto ironico, di scherno nei confronti del patriarca. Basandosi su una tradizione esegetica che si richiama ai Padri della Chiesa, Leander Ker parla di “insulto” e “derisione” [30], ma è soprattutto Jefferson Davis (citato in Rowland 1923, 230) a leggere l’irrisione di Noè da parte di Cam come la manifestazione del “disordine” che costituisce il carattere dell’africano: la causa dello scherno è un atto di “barbarismo” che identifica nei discendenti africani di Cam una razza “da educare” (231), pericolosa per l’ordine sociale che questa “razza inferiore” (231) può sovvertire in qualsiasi momento [31].

Questa lettura ha molta presa negli stati del Sud, nel cui immaginario pubblico ricorreva spesso l’incubo, il terrore dell’insurrezione degli schiavi. Un terrore che si associava spesso a quello della mescolanza delle razze. Questa era sinonimo di un Dio disordinato e confusionario per il pastore Buckner Payne [32], e per Fletcher rappresentava la quintessenza della violazione dell’ordine: “supponiamo che un discendente di Iafet debba scegliere di mischiarsi con un Negro, sarebbe in grado il padre di pronosticare un destino tranquillo per la sua prole?” [33].

Per la giustificazione biblica di un “ordine” così inteso, però, non basta più la maledizione di Noè su Cam: è necessario un principio divino di separazione delle razze. Ed è necessario nel momento in cui, dopo la giustificazione biblica della sovrapposizione tra schiavo e africano, la schiavitù diventa una questione razziale: la razza diventa la giustificazione ideologica della schiavitù. In altre parole, un principio di dispersione delle razze è necessario nel momento in cui lo schiavo non va più giustificato in quanto schiavo, ma in quanto africano, e va quindi giustificata non più la schiavitù in sé, ma la razza – che a sua volta giustifica la condizione di schiavitù: è qui che la schiavitù diventa esclusivamente africana, “degli africani e solo degli africani” (Noll 1998, 66).

Ecco, per sostenere la condizione inferiore dello schiavo in quanto africano, non basta più la maledizione di Noè su Cam, nonostante la “nerezza”, come si diceva e come si è visto, sia parte integrante della maledizione stessa (Goldenberg 2017): è necessario un ordine divino per la differenziazione delle razze.

Questi furono i figli di Sem secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori, secondo i loro popoli.

Queste furono le famiglie dei figli di Noè secondo le loro generazioni, nei loro popoli. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra dopo il diluvio. (Genesi 10:31-32)

Nella dimensione razziale assunta dal dibattito sulla schiavitù, l’attenzione è sempre più rivolta alla profezia sui destini di Cam (e dei suoi discendenti) e degli altri due figli di Noè, Sem e Iafet (e dei loro discendenti).

Intanto, è sempre più frequente l’esigenza di consolidare l’interpretazione di Genesi 10 richiamandosi a una tradizione esegetica secondo cui Noè viene visto come un “secondo Adamo”, il mondo postdiluviano come un “secondo paradiso terrestre”, e Cam come l’autore del “secondo peccato originale”, cioè la causa della “seconda caduta dell’uomo” e del “disordine cosmico” [34].

Inoltre, l’attenzione tende sempre più a concentrarsi sull’identità e sulla gerarchia dei discendenti dei tre figli di Noè. Secondo le interpretazioni più diffuse nello spazio pubblico, Iafet, Sem e Cam diventano i progenitori, rispettivamente, dei “bianchi”, dei “rossi” e dei “neri”: in una delle formulazioni più compiute e più note ai tempi della Guerra civile, quella di Joseph Addington, che ben sintetizza una letteratura sul tema andata in crescendo negli anni Cinquanta, “la razza bianca o di Iafet è in prima posizione. La razza rossa o di Sem, è in seconda. La razza nera o di Cam, è l’ultima” [35].

Ma è soprattutto Benjamin Morgan Palmer, teologo e predicatore presbiteriano destinato a ricoprire un ruolo determinante nel dibattito razziale per tutto il mondo protestante americano (Duncan 2008), a sancire più di ogni altro, quando lo schiavo viene giustificato in quanto africano, la definitiva “transizione” nella giustificazione biblica da Genesi 9:25-27 a Genesi 10:32.

È vero, da una parte, che i destini delle razze sono già stati assegnati con la maledizione di Noè su Cam, e quindi riconducibili all’interpretazione di quel passo biblico nei termini di “ordine”: sui “bianchi” incombe una “promessa di allargamento” [36] – “Dio dilati Iafet” (Genesi 9:27) –, sui “rossi” il “destino prevalentemente religioso” [37] degli ebrei semiti – “questi dimori nelle tende di Sem” (Genesi 9:27) –, sui “neri” la “servitù perpetua” [38] – “Canaan sia suo schiavo” (Genesi 9:27). Insomma, “Sem è il conservatore della verità religiosa; Iafet l’organo della civilizzazione umana; e Cam il lavoratore servile su cui resta il destino alla servitù perpetua” [39].

Ma dall’altra parte è altrettanto vero che solo Genesi 10:32 decreta la differenziazione e la dispersione delle razze. Tre i figli di Noè, “secondo le loro famiglie e le loro lingue, nei loro territori” (Genesi 10:31), che diventano Europa e America per Iafet, Africa per Cam, Asia per Sem. “Secondo le loro generazioni, nei loro popoli. Da costoro si dispersero le nazioni sulla terra” (Genesi 10:32): “generazioni”, “popoli”, “nazioni” diventano sinonimi di “razze” (Haynes 2002, 136; Hudson 1996).

In altre parole, Genesi 10:32 costituisce il piano divino per il futuro della società, la profezia per i destini dei tre popoli, il “principio regolativo e determinante della separazione delle razze” [40].

Molto indicativamente, dal marzo 1863 Cam non compare più nei discorsi e nei sermoni di Palmer (Haynes 2002, 159).

Babele, la distruzione dell’unità del linguaggio, il razzismo

La Guerra civile non è ancora terminata, ma per la dimensione religiosa del discorso razziale poco importa [41]: la giustificazione biblica della schiavitù nei termini di “ordine” e “disordine”, spostando il suo fondamento da Genesi 9:25-27 a Genesi 10:32 per giustificare lo schiavo in quanto africano, sembra essere adatta anche a sostenere l’inferiorità dell’africano in quanto africano, il mantenimento dell’africano non più schiavo in una condizione inferiore. Insomma, sembra essere adatta, anche nella prospettiva dell’abolizione della schiavitù in tutto il paese, a giustificare le forme di istituzionalizzazione del razzismo, cioè la segregazione e la discriminazione razziale.

D’altronde, si è già visto come nei principali interpreti della maledizione di Noè su Cam in termini di “ordine” e “disordine”, il “disordine” sia rappresentato dalla mescolanza delle razze, e l’“ordine” dal mantenimento della loro separazione. Ora che la separazione non può più avvenire attraverso l’istituzione della schiavitù, la segregazione razziale diventa la forma più logica per mantenere quella separazione “tra due popoli distinti che occupano lo stesso suolo” [42], e rispettare così, anche dopo la fine della schiavitù, la profezia di Genesi 10 interpretata nei termini di destino e gerarchia razziale.

Proprio per questo è molto indicativo che in realtà non sia così, nemmeno in chi come Palmer abbandona Genesi 9:25-27 e adotta Genesi 10:32 come giustificazione biblica della separazione delle razze: nel momento in cui la razza non deve più giustificare la schiavitù ma deve sussistere e reggere di per sé, cioè nel momento in cui la segregazione e discriminazione razziale non devono più essere giustificate per questioni di “ordine” ma per questioni di superiorità razziale, di “purezza della razza” e “purezza del sangue”, non basta più il “principio regolativo e determinante della separazione delle razze” contenuto in Genesi 10:32.

Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: “Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. (Genesi 11:6-9)

Dal dicembre 1863, e per tutta la lunga età della Ricostruzione con la schiavitù abolita in tutto il paese, l’attenzione di Palmer per giustificare la segregazione e la discriminazione razziale, piuttosto che a Genesi 10, è sempre più rivolta a Genesi 11:9 (Haynes 2002, 137, 270).

L’ulteriore transizione è fondamentale per comprendere la giustificazione biblica del razzismo. La dispersione di Genesi 10:32 – utilizzata quando la razza doveva giustificare la schiavitù, e la segregazione e la discriminazione razziale venivano giustificate per questioni di “ordine” – aveva assunto il significato di “garanzia dell’ordine sociale” [43]. Con l’abolizione della schiavitù, occorre una dispersione che significhi molto più di una semplice garanzia dell’ordine sociale, e che si spinga a rappresentare “un argine contro le tendenze al peccato dell’umanità” [44]: serve la dispersione di Genesi 11:9, basata sulla distruzione e sulla rottura dell’unità di linguaggio.

Se in Genesi 10 Dio ha “diviso la terra”, “stabilito i confini” e “distribuito le nazioni” [45] secondo la sua volontà, in Genesi 11:6-9 Dio “rompe la famiglia umana in sezioni, distrugge l’unità di linguaggio, disperde e separa il popolo” [46]. In altre parole, a Babele “dispersione” e “separazione” sono una conseguenza – infatti sono termini che Palmer dal 1864 tende sempre più ad abbandonare. E sono una conseguenza della “rottura” e della “distruzione” – che sono i termini con cui Palmer dal 1864 tende sempre più a esprimersi. Insomma, in questi termini c’è una maggiore severità, un “giudizio morale perentorio e apocalittico” [47], molto più adatto di Genesi 10:32 per chi sta chiaramente e dichiaratamente cercando un fondamento alla “purezza della razza” [48] e alla superiorità razziale dei “bianchi” [49].

Lo iato tra la giustificazione della schiavitù e quella del razzismo è compiuto.

Anche perché la “rottura della famiglia umana” e la “distruzione dell’unità di linguaggio” rappresentano “un argine contro la tendenza al peccato dell’umanità”, ma non è più il peccato di Cam – di cui ancora risentiva la separazione e la dispersione di Genesi 10:32. È il peccato degli uomini che nel sito di Babilonia costruiscono una città e una torre “per non disperdersi su tutta la terra” (Genesi 11:4), contravvenendo alla profezia di dispersione di Genesi 10:32. Questo peccato non risale a Cam, ma a Nimrod, “generato da Etiopia”, che “cominciò a essere potente sulla terra”, “valente cacciatore davanti al Signore”, ed ebbe in Babele “l’inizio del suo regno” (Genesi 10:8-10) [50].

In altri termini, Nimrod e la “distruzione dell’unità di linguaggio” a Babele diventano, nell’esegesi di Palmer, l’argomento biblico più forte di Cam e della “dispersione delle nazioni” di Genesi 10:32: “nell’età post guerra civile, quando la segregazione forzata diventa sempre più il meccanismo centrale per sostenere l’assoggettamento” (Adrews 2008, 199) e la dominazione razziale [51].

Ancora alla fine degli anni Ottanta, quando ormai la scienza ha preso il sopravvento nel dibattito razziale ma senza ancora stabilire unanimemente l’origine e il motivo delle differenze tra gli esseri umani, Palmer invoca la “rottura” e la “distruzione dell’unità del linguaggio” di Genesi 11:9 come giustificazione biblica della segregazione razziale, identificando il tentativo di “tornare all’originale unità della razza attraverso la mescolanza delle razze” con “la ribellione di Nimrod” (citato in Johnson 1987, 472) e dei cospiratori di Babele. Una ribellione che fino al 1890 Palmer continua a invocare come giustificazione biblica della discriminazione razziale, dell’inferiorità degli africani “neri” e della superiorità dei “bianchi”, che devono quindi preservare la propria “purezza di sangue” (citato in Johnson 1987, 473).

Se per la giustificazione biblica del razzismo Palmer guida “la transizione da Cam a Nimrod nel discorso razziale degli Stati del Sud” (Haynes 2002, 159), non è di certo l’unico caso di abbandono della maledizione di Noè su Cam – che per secoli aveva rappresentato la giustificazione biblica della schiavitù. Il già citato teologo Dabney, per esempio, ammette che per la segregazione e la discriminazione razziale “il passaggio biblico [della maledizione di Noè su Cam] non è preso in considerazione né adatto […] seguiranno altri più decisivi passaggi biblici” [52].

Si tratta, insomma, di una tendenza generale. I riferimenti a Genesi 9:25-27 nell’età della Ricostruzione diventano sostanzialmente assenti: quando compaiono, sono solo “brevi e vaghe allusioni” (Haynes 2002, 103) che nulla hanno a che fare con le interpretazioni del passo biblico della prima metà dell’Ottocento che hanno dominato la dimensione religiosa del dibattito sulla schiavitù e del discorso razziale. La maledizione di Noè su Cam, così adatta per la giustificazione biblica della schiavitù, “non sembra applicabile alle relazioni razziali in una società libera” (103), e i sostenitori dell’inferiorità del “nero” e della superiorità del “bianco” “guardano altrove per supportare la propria causa” (103) [53].

Certo, altrove non significa necessariamente a Babele, come comunque è stato non solo per Palmer (Landry 1957) [54]. Ma significa, per quel che qui ci riguarda, che ciò che giustifica la condizione dello schiavo non giustifica la condizione dell’africano.

La dimensione religiosa del razzismo

In breve, “sulla schiavitù”, che è un’istituzione, “gli esegeti cercano un senso comune leggendo la Bibbia” (Noll 1998, 63). “Sulla razza”, che è invece un’idea, “gli esegeti abbandonano la Bibbia e fanno affidamento sul senso comune” (63). Sul razzismo, che è un’ideologia che fonda una visione del mondo e una prospettiva egemonica, “il senso comune viene rimpiazzato dall’intuizione” (Haynes 2002, 126).

Negli studi sulla giustificazione biblica della schiavitù nell’America protestante dell’Ottocento, si è spesso insistito sul nesso tra le due principali interpretazioni della maledizione di Noè su Cam: “onore” e “ordine” sono non soltanto i termini più rappresentativi delle principali letture schiaviste, ma la simbiosi tra i due spiega il successo della loro diffusione nello spazio pubblico del Vecchio Sud, in una cultura e in una mentalità che la letteratura sul tema ha mostrato essere profondamente legata a quei valori (Haynes 2002, 64-175).

Pur essendo indiscutibile, tale simbiosi tende a nascondere che l’interpretazione della maledizione di Noè su Cam nei termini di “ordine” implica una transizione da Genesi 9:25-27 a Genesi 10:32 che risulta invece determinante per dissociare la giustificazione biblica della schiavitù da quella del razzismo, la quale prende nettamente le distanze dalla maledizione di Noè su Cam fino sostanzialmente ad abbandonarla – a vantaggio, nel caso qui analizzato, di Genesi 11:6-9.

Se per gli studi religiosi sulla relazione tra religione e razza l’eredità di questo abbandono è un dibattito sul ruolo-chiave della maledizione di Noè su Cam, tra chi lo ridimensiona e chi sostiene la centralità di Genesi 9-11 nel discorso razziale americano – vedendo Cam e Nimrod in un’unica “unità testuale” (Haynes 2002, 159), e Babele in una “Noah’s camera” (123) [55] –, per gli studi politici sulla nascita del razzismo come fenomeno storico la transizione da Genesi 9:25-27 a Genesi 11:6-9 ha di per sé un importante significato, al di là di una continuità o discontinuità tra i due passi biblici dal punto di vista esegetico e/o teologico.

Infatti, da Cam a Nimrod, dalla maledizione da parte di Noè alla distruzione dell’unità di linguaggio da parte di Dio, dalla dispersione per questioni di “ordine” di Genesi 10:32 alla dispersione per questioni di “purezza di razza” di Babele, lo iato tra la giustificazione biblica della schiavitù e quella del razzismo – in ogni caso e anzi ancor più se all’interno della stessa camera, nonostante ci sia di mezzo la validità di una secolare giustificazione biblica della schiavitù – dimostra che ciò che giustifica la condizione dello schiavo non giustifica la condizione dell’africano. Dimostra che lo schiavo non è l’africano – anche se lo è stato, quando è stato giustificato in quanto africano.

Dimostra, inoltre, che per dissociare africano e schiavo e decostruire la “metonimia del negro”, passaggio indispensabile per comprendere perché il razzismo prospera proprio nell’epoca dell’emancipazione, in un approccio globale al fenomeno storico del razzismo che prenda in considerazione i diversi fattori che lo determinano non si può sottovalutare il ruolo del fattore religioso: negli Stati Uniti, “le complesse interconnessioni tra religione e razza” (Haynes 2002, 221) mostrate dagli studi religiosi, e ottenute forzando l’interpretazione biblica “per sostenere una certa tesi, leggendo il testo entro una rigida griglia interpretativa che impone al testo delle conclusioni predefinite” (McGrath 2017, 441), si rivelano fondamentali per il supporto alla convergenza dei fattori economici e politici che determinano l’istituzionalizzazione del razzismo.

Un supporto, questo, che non si eclissa nemmeno di fronte al fattore scientifico – anche se è poi di fatto questo a supportare in modo determinante le politiche di segregazione e discriminazione razziale. La Bibbia non soccombe alla scienza [56]. Anzi, gioca un ruolo assai rilevante nella dimensione scientifica del discorso razziale americano. Infatti, tra teorie monogenetiche sulle origini dell’umanità a sostegno dell’unicità della razza umana da una parte, e teorie poligenetiche a sostegno della pluralità delle razze e quindi delle politiche razziali dall’altra, è la Bibbia più della scienza a spostare in maniera perentoria gli equilibri del dibattito: non solo quando con l’ormai consolidata “teoria preadamitica” offre un valido supporto alla poligenesi, ma soprattutto quando, come nel caso qui preso in esame, spezza il nesso consolidato tra la creazione unica del genere umano e l’unicità della razza umana, giustificando il paradigma razziale e le politiche razziali senza prescindere da Genesi 1:26-27, cioè all’interno della medesima visione monogenetica dell’umanità [57].

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Note

1. Linneo 1758, 22. Qui come in tutti i riferimenti bibliografici successivi privi dell’edizione italiana, la traduzione è da intendersi a cura dell’autore.

2. Buffon (1749) 1831, 348, 129. Sul nesso tra nègre e schiavo, vedi: Delesalle e Valensi 1972; Michel 2021, 116-17.

3. Ivi, 533, 103.

4. Per la storia dell’Oberlin College, vedi: Fletcher 1943; Barnard 1969.

5. Il riferimento è al libro dell’Esodo, per cui vedi: Glaude 2000.

6. Sul protestantesimo nero negli stati del Sud, vedi: Montgomery 1993; Harvey 1997.

7. Per tutte le citazioni bibliche da qui in avanti, si è preso come riferimento: La Bibbia di Gerusalemme 1995.

8. Per tutte le interpretazioni bibliche a giustificazione della schiavitù, vedi: Swartley 1983, 31-64: Giles 1994.

9. Per l’esegesi cattolica, vedi: Calmet 1730, 407-9. Per l’esegesi protestante, vedi: Bochart 1707, 37-58. Per una storia dell’esegesi sull’episodio biblico, vedi: Braude 1997.

10. Per una storia dell’interpretazione della maledizione di Noè su Cam in età moderna, vedi: Goldenberg 2005.

11. Weld 1838, 18. Il corsivo è nel testo originale. Per una storia dell’uso dell’episodio biblico per giustificare la schiavitù in America e in particolare negli stati del Sud, vedi: Ruchames 1969; Hughes e Allen, 1988.

12. Smylie 1836, 16.

13. Fletcher (1852) 1969, 446; Armstrong (1857) 1969, 111; Dagg 1860, 344.

14. Dalcho 1823, 8.

15. Baldwin 1858, 60, 61, 62.

16. Sloan 1857, 66, 67, 74, 75.

17. Cobb 1856, 27; Thompson 1856, 9.

18. African Servitude 1860, 144.

19. The Governing Race: a Book for the Time, and for All Times 1860, 7.

20. Robinson 1863, 23.

21. Hopkins (1864) 1968, 7. Il corsivo è nel testo originale.

22. Lyon 1863, 14. Nell’ampia letteratura sul tema, vedi ancora Johnston 1980, 33: “ogni piantatore, di fatto, è considerato come un patriarca”.

23. Per gli altri studi religiosi sull’interpretazione della maledizione di Noè su Cam in termini di “onore” e “disonore” per giustificare biblicamente la schiavitù nell’America protestante dell’Ottocento, vedi: Genovese 1985; Haynes 2002, 65-86. Per il posto occupato dall’onore tra i valori del Vecchio Sud, vedi: Wyatt-Brown 1982; Greenberg 1996.

24. Per il ruolo dell’“ordine” nel pensiero dei presbiteriani conservatori, vedi: Palmer (1861) 1971, 183-88; Johnson 1987, 207-12. Per il ruolo dell’“ordine” nel pensiero di Calhoun, vedi: Salvadori 1996, 197-228.

25. Dalcho 1823, 4.

26. Smylie 1836, 16.

27. Cartwright 1843, 12.

28. Priest (1843) 1969, 33, 75. Il corsivo è nel testo originale.

29. Dabney (1867) 1969, 101-102. Cfr.: Ker 1853, 32.

30. Ibidem.

31. Per la tradizione esegetica che si richiama ad Ambrogio, Origene e Sulpicio Severo, e per la sua diffusione in America, vedi: Devisse e Courtes 1976-1979, 55.

32. “They will begin to discover this approaching wrath: by God bringing confusion”: Payne 1867, 47.

33. Fletcher (1852) 1969, 446.

34. Per la tradizione esegetica di riferimento e la sua diffusione in America, vedi: The New Interpreter’s Bible: General Articles & Introduction, Commentary and Reflections for Each Book of the Bible, including the Apocryphal Deuterocanonical Books 1994, 405; Barkun 1997, 142; Kugel 1997. Per la sua diffusione nei protagonisti del dibattito qui presi in esame, vedi: Priest (1843) 1969, 33; Fletcher (1852) 1969, 446.

35. Addington 1862, 28. Per l’ampia letteratura sul tema negli anni Cinquanta del XIX secolo, vedi anche: Cobb 1856, 83; “The Black Race in North America: Why Was Their Introduction Permitted?” 1855, 658. In generale, vedi: Peterson 1978, 83, 113.

36. Palmer (1861) 1971, 179.

37. Ibidem.

38. Ivi, 180.

39. Palmer 1863, 31-32. Sempre sul tema, vedi ancora: Smith 2021.

40. Palmer 1863, 32. Vedi anche: Palmer 1882, 251; McKee Evans 1980.

41. Per una storia religiosa della Guerra civile americana, vedi: Rable 2010.

42. Palmer 1872, 20.

43. Palmer 1872, 18.

44. Ibidem.

45. Ivi, 19.

46. Ibidem.

47. Ibidem.

48. Ibidem.

49. Per i termini abbandonati e adottati da Palmer, vedi: Haynes 2002, 139, 270-71.

50. Per una storia dell’esegesi su Nimrod e la Torre di Babele, vedi: Pinn e Dwight Callahan 2008.

51. Per il legame tra Nimrod e Babele, vedi: Hislop (1853) 2020, 55-58.

52. Dabney (1867) 1969, 104.

53. Vedi anche: Thompson 1973, 60-63.

54. Per le altre formulazioni eziologiche del razzismo nell’Antico Testamento, e nella stessa Genesi, con particolare riferimento alla “maledizione di Caino” e alla “maledizione di Canaan”, vedi: Mazzoleni 1998-99; per quelle nel Nuovo Testamento, cfr. il Ku Klux Klan, che sostiene la superiorità dei bianchi rappresentandoli nella “città collocata sopra un monte”, la cui “luce del mondo” deve “risplendere davanti agli uomini” (Matteo 5:14-16): Baker 2011.

55. A questo è sostanzialmente riconducibile il dibattito tra Haynes e Genovese: Haynes 2002, 11-12; Genovese 1998. Sulla continuità tra Cam e Nimrod, vedi anche: Pinn e Dwight Callahan 2008, 193-213.

56. È l’altra polemica intrapresa da Haynes contro Genovese: Haynes 2002, 174.

57. Sulla “teoria pre-adamitica” nell’esegesi biblica legata a Isaac de la Peyrère, e sulla sua diffusione e solidità negli Stati Uniti dell’Ottocento, soprattutto con Dominick M’Causland e Alexander Winchell, vedi: Barkun 1997, 142-193.