Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

“Governo dei migliori”: pensiero antidemocratico greco e dibattito politico italiano (2016-2022)

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Abstract

Nell’attuale dibattito pubblico italiano (2016-2022) si possono trovare concetti e immagini analoghi a concetti e immagini tipici del pensiero antidemocratico nella Grecia del V-IV sec. a.C.: spesso si tratta di esplicite riprese del mondo classico; altre volte si può ipotizzare una reminiscenza inconsapevole oppure una corrispondenza dovuta ad analogie strutturali. Ciò è evidente nel modo in cui molti commentatori presentarono nel 2021 il governo Draghi e la figura dello stesso Mario Draghi e prima ancora in un articolo del 2016 di Eugenio Scalfari (“Perché difendo l’oligarchia”, la Repubblica), che era parte di un dibattito con Gustavo Zagrelbesky ed ebbe vasta eco, anche perché scritto da un noto esponente della sinistra “democratica”.

In the current Italian public debate (2016-2022) concepts and images can be found which are comparable to concepts and images typical of the Greek anti-democratic thought in 5th-4th centuries: these are often taken from the classical world explicitly; sometimes we can hypothesize an unconscious reminiscence or a correspondence due to structural analogies. This can be seen in the way many commentators portrayed in 2021 the Draghi government and Mario Draghi himself, and, before that, in a 2016 article by Eugenio Scalfari (“Perché difendo l’oligarchia”, la Repubblica), which was part of a debate with Gustavo Zagrelbesky and had wide resonance, also because it was written by a well-known exponent of the “democratic” left.

Una “striking similarity”

Osservava Mogens Herman Hansen, uno dei più importanti studiosi della democrazia ateniese nell’ultimo mezzo secolo [1], che, se si prendono in considerazione non le specifiche e concrete strutture istituzionali e procedure organizzative ma i principi generali dell’ideologia politica e le loro reciproche interconnessioni, esiste una “striking similarity between contemporary liberal democracy and ancient Athenian demokratia” (Hansen 2005, 6, anticipato in parte in Hansen 1992) [2], ovvero “forti analogie formali” per quanto riguarda “princìpi, regole, meccanismi” (Musti 1995, xxxiii-xxxiv) [3].

Ciò avviene non perché vi sia stata una qualche continuità storica fra democrazie greche [4] e democrazie contemporanee (le quali nascono dalla crisi dell’ancien régime e poi dal superamento dei regimi liberali a base borghese, ma non si ispirano direttamente al modello democratico ateniese, da cui anzi prendono le distanze: Giangiulio 2015, 13-21) ma perché le une e le altre muovono da presupposti ideali (assiologici) simili [5], che conducono a elaborare argomentazioni e modelli concettuali simili anche nelle loro reciproche relazioni, tanto che potremmo attingere al lessico della matematica per parlare di ‘isomorfismo concettuale’ [6]. Ma non sarà questo il tema del presente contributo: si tratta, infatti, di un aspetto ben noto, sul quale non occorre soffermarsi [7].

Meno studiato, invece, è il fatto che una situazione analoga riguarda anche il filone “antidemocratico” (anche quando non si dichiara tale in modo esplicito), e sarà questo l’oggetto del presente contributo [8]. Limiteremo la nostra attenzione al dibattito pubblico italiano di questo avvio di XXI secolo (quale emerge nei mezzi di comunicazione di massa e nella pubblicistica), per mostrare il ricorrere di schemi concettuali e argomentazioni che ripropongono, a parte termini e nettezza di toni, gli argomenti ricorrenti nei testi antidemocratici prodotti in Grecia nel V e IV sec. a.C.

Basteranno pochi esempi: uno slogan politico assai diffuso nel 2021 e alcuni contributi giornalistici apparsi in sedi di rilevanza nazionale. Nella maggior parte degli esempi che richiameremo, il riutilizzo di elementi tratti dal mondo classico, e in particolare dal pensiero politico greco di V e IV sec. a.C., è esplicito o è comunque evidente per se; in un unico caso fra quelli che proporremo, invece, il richiamo al mondo classico non è né dichiarato né traspare in modo evidente (anche se è comunque possibile), ma emerge comunque una rappresentazione del rapporto fra élite e massa che trova paralleli nel pensiero antidemocratico greco e che risponde ai medesimi fini ideologici. Sono due situazioni diverse, ma tale differenza non muta il quadro generale offerto dal presente contributo, volto a mostrare la pervasività degli schemi concettuali del pensiero antidemocratico greco antico almeno in ambito italiano (dove la tradizione scolastica ha riservato un ampio spazio, come è noto, alla conoscenza dei testi classici: su ciò vd. ulteriori annotazioni infra, nei §§ iii e vi). Tuttavia, il recente dibattito su decolonizing Classics (Kennedy 2023) e sull’utilizzo del mondo classico da parte della alt-right (Zuckerberg 2016) mostra bene come anche nella realtà statunitense il mondo classico continui a costituire fonte di ispirazione per schemi concettuali con cui giustificare posizioni ideologiche vive nel contesto della lotta politica contemporanea (Borgna 2022, 8-85).

Prima di procedere, merita di essere notato un fatto: nelle testimonianze che utilizzeremo, quando ci sono riferimenti espliciti al mondo classico, essi sono al mondo greco e non alla tradizione latina (che pure, in un paese come l’Italia, potrebbe apparire più ovvia). Tale circostanza potrebbe essere spiegata con lo spazio nettamente maggiore che, nella formazione scolastica liceale, ha il pensiero filosofico-politico greco rispetto a quello latino, sia nel Liceo Classico (dove i testi greci sono affrontati anche in lingua originale) sia negli altri indirizzi di studio di scuola superiore dove è presente l’insegnamento di Storia della Filosofia. Sembra del resto abbastanza ovvio che, in un curriculum scolastico, per quanto riguarda il pensiero politico, autori come Platone e Aristotele possano avere una importanza assai maggiore rispetto a quella di un Cicerone o di un Tacito.

Si può aggiungere a ciò la diffusa percezione del valore archetipico della tradizione greca rispetto a quella latina (un fortunato successo editoriale come Marcolongo 2016, dedicato alla divulgazione della lingua greca, ha appunto sfruttato tale percezione): nel 2003, per nobilitare con un rimando classico la “Bozza di Trattato istituente una Costituzione Europea”, fu utilizzata una citazione da Tucidide (dall’Epitafio di Pericle: 2, 37, 1) [9], e non da un autore latino.

Nell’ambito italiano forse si può ipotizzare una ulteriore motivazione: l’utilizzo che, della tradizione politica romana, fu fatto dal regime fascista (si pensi all’utilizzo propagandistico delle Res Gestae Divi Augusti, che furono incise sul basamento della teca destinata a custodire l’Ara Pacis ricomposta nel 1937 in concomitanza del Bimillenario Augusteo), e che attualmente può dissuadere dal ricorso a testi riconducibili a quella tradizione.

Il “governo dei migliori” nell’Italia del 2021-2022.
Ipotesi sull’uso nuovo di una formula antica

Il primo esempio può apparire ovvio (ma lo è meno quando viene calato nel suo contesto storico, che appartiene alla storia recentissima). Si tratta dell’espressione con cui buona parte del ceto politico, dei mass media e degli opinion makers presentò all’opinione pubblica e all’elettorato la nascita del governo guidato da Mario Draghi, nel febbraio del 2021: “governo dei migliori”, che è un calco evidente del greco aristokratia.

L’utilizzo di questa formulazione dall’ovvio intento propagandistico è però meno ovvio di quanto possa apparire. Nel periodo della cosiddetta Seconda Repubblica (a partire cioè dal 1994), la politica italiana, infatti, aveva già conosciuto i cosiddetti “governi tecnici” [10], composti da presidenti del Consiglio e ministri privi di investitura elettorale ma dotati di credenziali accademiche e professionali (il governo Dini, in carica fra gennaio 1995 e maggio 1996, e il governo Monti, in carica fra novembre 2011 e aprile 2013) [11]; tuttavia, in nessuno dei due casi precedenti [12] si può ritrovare l’utilizzo così pervasivo e insistente dell’espressione “governo dei migliori” che invece divenne, nel volgere di poche settimane, un’etichetta ricorrente per il governo Draghi [13] (al punto tale da essere utilizzato anche dai detrattori, ovviamente con intonazione ironica) [14].

In particolare, è interessate il confronto con quanto avvenne nel 2011, quando Mario Monti fu chiamato al governo come “tecnico” e creò un esecutivo “«tecnico» in senso estremamente forte”, in quanto “interamente partecipato da homines novi della politica” (Pierini 2017, 69 e 71): nell’ambito del dibattito pubblico furono ampiamente sottolineate la preparazione e la competenza del presidente del Consiglio e dei suoi ministri, ma non vi fu affatto il diffuso ricorso alla formula, di ascendenza classica, di “governo dei migliori”.

Una ricerca nell’Archivio Storico del Corriere della Sera (https://archivio.corriere.it/), che contiene tutti i testi usciti sul quotidiano dall’anno della fondazione (nel 1876) al momento presente, conferma quanto detto sopra. La formula “governo dei migliori” presenta 60 occorrenze, ma di queste ben 26 si concentrano nel periodo fra il 1° febbraio 2021 e il 24 settembre 2022 (cioè nel periodo in cui si prepara e poi opera il governo Draghi), alle quali ne va aggiunta ancora una in un pezzo del 13 gennaio 2023 ma pur sempre in riferimento al governo Draghi.

Viceversa, fino al 1994, cioè fino alla fine della Prima Repubblica, l’espressione presenta pochissimi utilizzi (in totale 3 occorrenze). A partire da un pezzo del 20 maggio 1994, l’espressione diventa più frequente. A parte alcune apparizioni isolate (talvolta in articoli di carattere culturale e non legati al dibattito politico), gli altri momenti di addensamento dell’espressione coincidono con i governi tecnici (governi Dini e Monti) ma sempre con numeri di molto inferiori alle 27 occorrenze relative al governo Draghi: fra il 30 dicembre 1995 e il 15 febbraio 1996 si registrano 9 occorrenze; fra l’8 ottobre 2011 e il 4 gennaio 2012 solo 4 occorrenze; di queste ultime, tre si collocano nei giorni 8, 10 e 12 ottobre, quindi prima delle dimissioni di Silvio Berlusconi (avvenute il 12 novembre 2011, ma preannunciate il giorno 8 novembre) e prima che la figura di Monti (nominato senatore a vita il 9 novembre 2011) emergesse in modo chiaro quale prossimo presidente del Consiglio dei Ministri.

Per quanto riguarda l’espressione “governo tecnico”, la ricerca sul medesimo Archivio Storico del Corriere della Sera mostra che il suo utilizzo si intensifica, come è prevedibile, a partire dal governo Dini, che nasce in esplicita contrapposizione a un precedente governo politico (il governo Berlusconi I). Su un totale di 1591 occorrenze segnalate dall’Archivio, si contano 8 occorrenze fra il 1909 e il 1932 (2 nel 1919 e 2 nel 1922), 71 fra il 1947 e il 1994 (ma di queste, 22 appartengono agli anni 1993-1994); il resto si concentra nel periodo dal 1995 in poi, con ovvi addensamenti nei periodi del governo Dini e del governo Monti. L’espressione analoga di “governo dei tecnici” (che ha la medesima struttura sintattica di “governo dei migliori”) appare molto meno usata, ma segue il medesimo andamento: sulle 373 occorrenze nell’Archivio Storico del Corriere della Sera, ve n’è una sola nel 1919 e nel 1945 e 29 fra il 1973 e il 1991, per poi intensificarsi nel triennio 1992-1994 (rispettivamente 36, 27 e 14 occorrenze); il resto si concentra nel periodo dal 1995 in poi.

L’analisi lessicale su “governo tecnico” e “governo dei tecnici” può apparire superflua, ma offre una definitiva conferma che l’utilizzo mediatico della formula di “governo dei migliori” per definire il governo Draghi si pone in evidente alternativa rispetto alle espressioni “governo tecnico” e “governo dei tecnici” utilizzate invece ampiamente a partire dal 1992, per governi tecnici sia effettivamente entrati in carica sia solo ipotizzati [15].

In sede di analisi storica, diviene dunque doverosa una domanda: perché questa differenza? Si potrebbe invocare, banalmente, il ruolo del caso nella rinascita della formula nel 2021 e non nel 2011; ma è difficile immaginare che al caso si debba anche il favore con cui tale formula fu accolta e ripresa.

Si può ipotizzare che a rilanciare la formula sia stata la pubblicazione, di poco precedente all’insediamento del governo Draghi, del corposo pamphlet dal titolo Aristocrazia 2.0: una nuova élite per salvare l’Italia, scritto da un noto esponente dell’élite finanziaria ed economica, Roger Abravanel, già autore di un volume intitolato non casualmente Meritocrazia (2008) [16]. Edito dalla Casa Editrice Solferino collegata al Corriere della Sera (e quindi potendo contare su una efficace pubblicizzazione presso gli ambienti dei ceti dirigenti in ambito economico-finanziario), il volume uscì il 28 gennaio 2021 ma fu preannunciato con una recensione già il 24 gennaio appunto sul Corriere della Sera [17]. Altre recensioni comparvero pochi giorni dopo, ma sempre ben prima della formazione del governo Draghi [18]. Oltre al titolo, il richiamo al mondo greco era esplicitato anche nelle pagine iniziali del testo, in cui veniva difeso un originario valore positivo del termine “aristocrazia”, proprio attraverso un richiamo alle origini greche del termine e alla realtà storica greca (però letta – come vedremo – attraverso la lente deformante del pensiero antidemocratico greco):

Il termine «aristocrazia» da noi viene associato all’antica nobiltà che conta sempre meno ma resta salda quasi ovunque in Europa con un sapore storico. In Italia ha però preso forme più moderne nel secolo scorso ed è diventata un’aristocrazia 1.0: famiglie che si sono passate potere e ricchezze nell’economia industriale e post-industriale come l’aristocrazia originale passava i feudi ai primogeniti maschi.

Ma il termine «aristocrazia» non ha sempre avuto connotati negativi, gli aristoi greci erano i “migliori” che venivano riconosciuti tali da tutto il popolo e rappresentavano l’élite della virtù e del talento (Abravanel 2021, 8).

L’influenza di questo saggio sul dibattito politico-giornalistico è, in certi casi, evidente (vedi il caso discusso infra, nel successivo §). Tuttavia, aver individuato una possibile “fonte” che richiamò l’attenzione sulla formula “governo dei migliori” nel dibattito politico in corso fra gennaio e febbraio 2021 non esaurisce la questione: perché questa formula, non del tutto nuova ma neppure particolarmente utilizzata precedentemente, una volta rilanciata divenne all’improvviso così apprezzata e ricorrente? In altri termini: perché dunque si sentì il bisogno di definire il governo Draghi come “governo dei migliori”, come invece non avvenne con i precedenti governi tecnici?

Crediamo lecito avanzare una spiegazione molteplice che tenga conto del diverso contesto storico. Nel 2011, il governo tecnico di Mario Monti nacque in una situazione di emergenza, segnata da una grave crisi finanziaria ma anche di credibilità internazionale [19]; nonostante l’ovvia opposizione di coloro che si trovarono privati del governo, la nascita di questo governo tecnico fu dunque vista come una assoluta necessità. Diverso il caso della nascita del governo Draghi, nel 2021, che nacque in una situazione difficile, ma senza effettivo carattere di emergenza: non solo era stato superato il periodo più duro dell’emergenza della pandemia di Covid-19, ma il precedente governo aveva ottenuto i fondi per l’attuazione del Recovery Plan e si preparava a impostare i relativi piani di spesa. In questo contesto, in cui il passaggio da un governo politico a un governo tecnico [20] poteva apparire meno forzato dalle circostanze, non sorprende allora che si sia fatto ricorso a una diversa strategia legittimante: non più quella della crisi e dell’emergenza, ma appunto quella del “governo dei migliori”.

Va inoltre considerato che i precedenti governi tecnici, proprio perché sorti in contesti di emergenza economico-finanziaria, erano accomunati dall’aver attuato misure di limitazione delle spese che erano risultate piuttosto impopolari (vd. Pierini 2017, 50-55 e 60); ciò fu particolarmente evidente per il governo Monti, cui si devono interventi di contenimento della spesa particolarmente duri (Pierini 2017, 69-77). Pertanto, nel contesto del 2021, la formula “governo dei migliori” poteva allora permettere, a chi caldeggiava la nascita del governo di Mario Draghi, di evitare un’espressione, quella di “governo tecnico”, ormai connotata negativamente di fronte all’opinione pubblica, nello stesso tempo usando invece una terminologia non neutra ma intrinsecamente elogiativa.

Si aggiunge a tutto ciò un ulteriore elemento: il governo Draghi nasce proprio per effetto delle dimissioni di un premier (Giuseppe Conte), il quale era espressione di una forza politica (il Movimento 5 Stelle) che aveva come elemento centrale la contestazione del ruolo di governo delle élite, sulla base del principio “uno vale uno” e che anzi riprendeva, talora consapevolmente, alcune proposte istituzionali dalla tradizione classica: il limite dei due mandati per le cariche politiche ricorda l’analogo limite di due mandati per i membri della Boule nell’Atene democratica [21]; l’ipotesi del sorteggio per la scelta dei parlamentari riprende uno degli elementi centrali della democrazia ateniese [22]; anche il vincolo di mandato, con l’obbligo di consultazione costante degli iscritti al Movimento [23] e l’idea che gli iscritti determinino le singole scelte politiche [24] può essere visto come un elemento che richiama la tradizione della democrazia diretta [25], che ha come suo ovvio referente l’Atene classica. La rivendicazione delle capacità politiche dell’uomo comune e la diffidenza verso i professionisti dell’attività politica e di governo (implicite nel principio del sorteggio e nel limite dei due mandati propugnati dal Movimento 5 Stelle) è un elemento che trova anch’esso paralleli nell’ideologia democratica greca: secondo il leader democratico ateniese Cleone, “le persone più semplici di norma amministrano la città meglio di quelle intellettualmente più dotate”, in quanto “una ignoranza congiunta all’autocontrollo [sophrosyne] si rivela più utile di una capacità cui si accompagni l’incapacità di rispettare le regole [akolasia]”, la quale è a sua volta effetto dell’eccesso di fiducia nelle proprie doti (così Tucidide 3, 37, 3; su questo passaggio e sul rovesciamento, in esso, di temi tipici della propaganda antidemocratica Mosconi 2021, 59-73). Davvero, in quest’ultimo caso, sembra di trovarsi di fronte a un vero e proprio “isomorfismo concettuale” nei termini sopra indicati.

In questo contesto, intriso (in parte consapevolmente, in parte no) di reminiscenze classiche in senso democratico, non sorprende allora che, nello stesso momento in cui veniva fondato un governo che si poneva in netta contrapposizione al principio dell’“uno vale uno”, si sia fatto ricorso a una formulazione anch’essa intrisa di tradizione classica come quella di “governo dei migliori” [26].

Al contempo, una così esplicita ripresa del concetto di aristokratia è resa possibile dalla tendenza a considerare il rispetto del “plebiscito dei mercati” l’unico criterio di giudizio delle scelte politiche (così il presidente della Bundesbank, Hans Tietmeyer, in una dichiarazione del 1998: vd. Canfora 2002, 33-34), in un contesto in cui, implicitamente, la gamma delle opzioni politiche è limitata a ciò che rientra nei parametri del capitalismo finanziario: si tratta di una tendenza divenuta dominante dopo il crollo del Muro di Berlino e quindi dopo la crisi delle grandi narrazioni alternative al sistema capitalistico (39-59) [27]. Come vedremo infra (Le “decisioni migliori” per chi?), il concetto di “governo dei migliori” si fonda sul presupposto, implicito, che esista un unico criterio di giudizio delle scelte politiche (perché esiste un solo modello di società possibile).

“Talento e virtù”, cioè phronesis e arete

In alcuni casi, interventi in sede di stampa hanno esplicitato l’ascendenza classica della formula, come nel seguente passo tratto da un articolo comparso su il Messaggero, dal titolo “La scelta dei migliori: un atto di coraggio” [28]. Benché scritto dopo la caduta del governo Draghi e dopo le successive elezioni, e in relazione alla formazione del governo presieduto da Giorgia Meloni, questo articolo attinge a concetti diffusi in occasione del governo Draghi (il rapporto è diretto) [29]. In esso, infatti, la nuova presidente del Consiglio viene elogiata per aver seguito la strada di Mario Draghi nel mettere “nelle cosiddette stanze dei bottoni”, cioè in ruoli di governo,

i capaci, i competenti, i migliori. Quelli, insomma, che alla maniera greca potremmo ancora chiamare gli “aristoi” e che rappresentano l’élite della virtù e del talento.

Il preciso richiamo al mondo classico in un articolo sulla stampa quotidiana rivolta al grande pubblico non sorprende. Come è noto, la formazione classica ha costituito un elemento comune e tradizionale nella formazione dei ceti dirigenti italiani: a partire dalla riforma Gentile il passaggio attraverso il Liceo Classico ha rappresentato un percorso standard per molti di coloro che sono poi approdati a professioni intellettuali (soprattutto in quanto esponenti dei ceti privilegiati) [30]. Il fatto che, attualmente, questa situazione stia cambiando, e sia anzi cambiata (con la progressiva riduzione del numero di iscritti al Liceo Classico, sempre meno scuola per l’élite socio-culturale [31] e sempre più scuola di nicchia, percepita come “scuola per umanisti” [32]), non muta il fatto che gran parte di coloro che attualmente, da adulti, intervengono nel dibattito politico-culturale, siano passati attraverso tale formazione classica, in alcuni casi proseguita anche in alcuni elementi degli studi universitari.

Ma torniamo all’analisi della frase, tratta da un articolo di quotidiano, citata sopra. In essa, oltre alla citazione colta del termine greco, è pienamente greco il concetto di “élite della virtù e del talento”. La coppia “virtù” e “talento” riprende una bipartizione spesso presente nel pensiero politico greco, quella fra doti intellettuali (“talento”, nel brano citato) e doti morali (la “virtù” nel brano citato): ne offre una formulazione esplicita Aristotele, nella Politica, in cui usa la coppia “arete e phronesis”, “virtù e intelligenza”, oppure “ethe e dianoia”, “comportamenti morali e intelletto” (Politica 3, 1281b3-5) [33], ma tale bipartizione ricorre implicitamente in molti testi di orientamento anti-democratico secondo cui i migliori si distinguono non solo per doti intellettuali, in quanto più intelligenti e più istruiti, ma anche per doti morali, in quanto capaci di controllare le proprie emozioni a differenza della massa, che agisce d’impulso (Mosconi 2021, 38-42).

Coerentemente, le fonti antidemocratiche di V secolo insistono nell’affermare che il demos è privo non solo di preparazione culturale e/o di intelligenza, ma anche di doti morali (sincero impegno al bene comune; capacità di governare i propri impulsi; perfino la capacità di discernere il bene dal male), e su questa base appunto contestano che il demos abbia il potere. Nel corpus Theognideum (e quindi già in un testo di VI sec. a.C.), il demos è definito esplicitamente “stupido” (234 e 846: demos… keneophron), e pertanto si afferma che esso ha bisogno di un esthlos (un uomo “valente” ma anche un “nobile”, membro dell’élite) che sia “torre e baluardo” per il demos stesso (233-234); infatti, tale stupidità (che è anche mancanza di equilibrio morale) delle classi popolari (i phortegoi, i “facchini”) non può che condurre la nave dello Stato al naufragio, nel momento in cui “i facchini hanno cacciato il nobile timoniere che sapientemente si prendeva cura della nave” (667-682 [34]; la medesima immagine ai vv. 855-856); più in generale, nel medesimo corpus Theognideum, l’accusa di stupidità e di ignoranza ricorre in varie forme per coloro che sono definiti kakoi (“cattivi”, “disonesti” ma anche “incapaci”) o deiloi (“persone di poco valore” e quindi “vili”) [35], associata e insieme distinta da quella di bassezza morale.

Per la connessione fra ignoranza/stupidità dei kakoi/deiloi e la loro bassezza morale e incapacità di autocontrollo (con la prima che appare come causa o concausa della seconda), nel corpus Theognideum sono significativi in particolare i seguenti passi: i vv. 59-60, in cui si afferma che i membri della classe popolare, ora saliti al potere grazie alla ricchezza, “si ingannano e si beffano l’un altro perché non hanno idea né del bene né del male” (ἀλλήλους δ᾽ ἀπατῶσιν ἐπ᾽ἀλλήλοισι γελῶντες, / οὔτε κακῶν γνώμας εἰδότες οὔτ᾽ ἀγαθῶν; quasi identici i vv. 1113-1114); i vv. 279-282 sul kakos aner che “naturalmente” ha una cattiva concezione del giusto (v. 279: εἰκός τοι κακὸν ἄνδρα κακῶς τὰ δίκαια νομίζειν); i vv. 321-322 sul kakos aner che, una volta divenuto ricco, “non riesce più a trattenere la sua bassezza, perché sragiona” (ἀφραίνων κακίην οὐ δύναται κατέχειν). In genere, sulla stupidità dei kakoi/deiloi, vd. ancora i vv. 683-684, 1025-1026 e 1037-1038 (da quest’ultimo distico si ricava implicitamente l’idea che il popolo viene ingannato facilmente, appunto per la sua scarsa lucidità).

Nel logos tripolitikos di Erodoto (un testo su cui ritorneremo), il sostenitore dell’oligarchia (Megabizo) afferma che “nulla è più stupido e arrogante di una folla inutile” (Erodoto 3, 81, 1), e che il demos “senza riflettere si getta sulle cose e le sconvolge simile ad un fiume in piena” (3, 81, 2). Il Vecchio Oligarca (l’anonimo autore di un violento pamphlet antidemocratico Sul regime politico degli Ateniesi databile alla seconda metà del V sec. a.C. e trasmesso come opera di Senofonte; d’ora in poi indicato con la sigla Ath. resp.) afferma che

nei migliori, intemperanza e ingiustizia sono minime, ed è invece grandissima l’attenzione scrupolosa a ciò che è bene; nel popolo, al contrario, l’ignoranza, l’indisciplina e la cattiveria sono grandissime (Ath. resp. 1, 5).

Nello stesso spirito, poche righe dopo (1, 7) il Vecchio Oligarca condanna la libertà di intervento in assemblea, in cui qualunque “furfante” può prendere la parola e intervenire con una proposta in favore del demos, affermando che chi interviene in favore del popolo agisce sulla base di ignoranza (amathia) e furfanteria (poneria), mentre viceversa “l’uomo utile” (questa la traduzione letterale di khrestos, spesso reso genericamente come “valente”, “buono”) è caratterizzato da “virtù”, arete, e “saggezza/competenza”, sophia.

Per riprendere le parole dell’articolo di un quotidiano sopra citato, le élite greche si qualificavano appunto come “élite della virtù e del talento”, soprattutto in contesti democratici, insistendo su questi aspetti senza menzionare il peso sociale della loro ricchezza e delle proprie appartenenze familiari (elementi di minor efficacia ideologica in contesti democratici, tendenzialmente egalitari). Rientrano in questo quadro l’autodefinizione come synetoi, gli “intelligenti” (Battisti 1995), o come dexiotatoi, “i più capaci” [36], o sophoi, “saggi” (qualifica che unisce doti intellettuali e morali) [37], e il vanto della sophrosyne (la “temperanza”, o, per usare una traduzione più vicina al lessico attuale, l’“autocontrollo”) come tipico attributo delle élite, in contrapposizione alla akolasia (“impunità” e quindi “assenza di freni inibitorii”) che segnerebbe il demos [38], inadatto a “ben governare”, quindi, sia perché stupido sia perché incapace di controllare i propri impulsi. Già il corpus Theognideum, come abbiamo visto, associava all’ignoranza/stupidità degli individui di origine popolare (kakoi, deiloi), la loro incapacità di moderare gli impulsi (e quindi di comportarsi rettamente e correttamente); analogamente, l’intelligenza (gnome) dell’agathos aner (“l’uomo di valore” ma anche, l’appartenente all’élite: Cerri 1968) si accompagna alla sua capacità di restare saldo in ogni circostanza, positiva e negativa, senza lasciarsi scuotere dagli eventi (vv. 319-320) [39].

L’ideale tecnocratico (in quanto espressione specifica di una tradizione “aristocratica”), insomma, non nasce sic et simpliciter con Platone come spesso si afferma [40], ma affonda le sue radici nel pensiero politico greco precedente di matrice oligarchica e antidemocratica [41]: da questo stesso pensiero attingono, più o meno consapevolmente, anche i modernissimi difensori delle tecnocrazie.

A ben vedere, anche Platone (membro egli stesso di una casata aristocratica) parte dal medesimo presupposto con cui le élite greche, soprattutto in contesti democratici, rivendicavano il diritto di essere uniche detentrici del potere decisionale: cioè il possesso di specifiche qualità intellettuali e insieme morali. In una fase più arcaica queste qualità sono effetto di pura e semplice trasmissione genetica (così avviene, per esempio, in Omero: si veda il modo con cui, in Odissea 4, 203-211, Telemaco viene elogiato per come riproduce le doti di un padre che non ha mai visto); in seguito vengono presentate come frutto di un iter formativo, benché esso sia ‘spontaneo’, perché si compie frequentando altri agathoi: così è in Teognide (1, 27-38 e 563-566; ecc.; cfr. infra, § vii). Platone riprende, dalla tradizione aristocratica, l’idea della necessità di una apposita formazione volta a preparare una classe dirigente che sia unica detentrice del potere, ma trasforma questo iter in un percorso definito a livello statale, fissandone in modo rigido e selettivo i contenuti: esclude tutta una serie di contenuti poetici e musicali tipici invece della tradizione aristocratica (come fa nei libri III, IV e X della Repubblica: vd. 3, 386a-4, 427b; 10, 595a-608c) e ne inserisce altri del tutto estranei a tale tradizione (come matematica, astronomia e dialettica: vd. Repubblica 7, passim).

L’utilità del generico “i migliori”

L’espressione “governo dei migliori” usata nel 2021, dunque, ha alle spalle tutta questa tradizione, anche se ciò non vuol dire che tutti coloro che hanno utilizzato la formula ne siano consapevoli: anzi, in un contesto in cui molta parte dell’élite condivide una formazione intrisa di letture da testi classici (vd. supra, § iii) e in cui tali letture sono avvenute spesso con attenzione agli aspetti linguistici e letterari più che a quelli ideologici (come avviene spesso nel Liceo Classico), non sorprende che la memoria del mondo classico agisca in modo sotterraneo, quasi inconsapevole.

In ogni caso, proprio la vaghezza del termine “i migliori”, da intendersi come un superlativo assoluto come il greco aristoi (invece di termini più specifici come “competenti”, “esperti”, o asettici come “tecnici”: si confronti “governo dei tecnici” con “governo dei migliori”) permette di intravedere, dietro il termine “i migliori” usato per Draghi e i suoi ministri, sia un giudizio sulla loro superiore competenza, sia l’idea che essi sono “i migliori” anche perché capaci di esercitare un pieno controllo di sé (a differenza degli altri, ovviamente).

Questa rappresentazione – che in parte si è fondata anche su un dato effettivo del comportamento di Mario Draghi, caratterizzato da una non comune compostezza e britannico aplomb [42] è servita anche ad accrescere l’autorevolezza del “governo dei migliori”, e ha trovato in alcuni casi esplicita espressione, come nel seguente testo tratto da un articolo comparso sul sito di un quotidiano a diffusione nazionale, la Repubblica [43], a opera di una giornalista assai nota quale Concita De Gregorio (l’articolo fu scritto all’indomani del voto di fiducia al Senato, il cui esito segnò la fine del governo Draghi, con le dimissioni del premier):

[Nel suo discorso al Senato, Mario Draghi] Aveva il tono di uno che, titolare di cattedra ad Harvard, è stato incaricato di una supplenza all’alberghiero di Massa Lubrense. Allora, ha detto a quei due lungagnoni che si pettinavano il ciuffo in fondo all’aula: statemi bene a sentire. Ai primi banchi hanno smesso di masticare chewing gum, la ragazza coi capelli rossi ha messo in pausa un video. “La formula che studiamo oggi si chiama ‘voto di fiducia’. Fissiamo tre punti”, si è voltato verso la lavagna.

Queste parole ebbero vasta notorietà (peraltro, erano state anticipate dall’autrice in una trasmissione televisiva a diffusione nazionale) [44] e suscitarono immediatamente vibrate proteste nel mondo della scuola [45]. La scena rappresentata (quasi un frammento di commedia attica antica, con la contrapposizione fra un protagonistes e un khoros!) sviluppa, ma in forma icastica, la stessa duplicità implicita nel concetto onnicomprensivo di “migliori”, ovvero il possesso di una superiorità sia sul piano intellettuale che su quello comportamentale, lato sensu etico: non è in gioco solo la superiore preparazione culturale del “titolare di cattedra ad Harvard” rispetto agli studenti di un istituto professionale, ma anche la contrapposizione fra l’autocontrollo del premier, col suo piglio deciso e nello stesso tempo calmo (cioè la sophrosyne, di cui le élite greche si consideravano depositarie) e l’indisciplina del suo uditorio (l’akolasia connaturata al demos, secondo la visione delle medesime élite).

Il fatto stesso di contrapporre un personaggio che parla ex cathedra e una massa di scolari che invece ascolta una lezione, serve a veicolare il messaggio (implicito) di una assoluta differenza di status e di auctoritas fra le due parti in causa, in una misura tanto più paradossale in quanto gli scolari, ignoranti e indisciplinati, sono in realtà parlamentari (ma qui presi come rappresentanti della massa del demos, di cui riproducono vizi e limiti): Platone affermava che “il criterio più importante” per determinare chi debba comandare e chi debba obbedire è quello che “che impone che colui che non sa si ponga al seguito, e colui che ha intelligenza, invece, eserciti il ruolo di guida e di comando” [46]. Nel brano citato, insomma, Concita De Gregorio è erede di questa lunga tradizione di pensiero, nella quale la decisione politica è una questione esclusivamente di conoscenza (e, dunque, esiste una decisione oggettivamente migliore: ma su ciò vd. infra, § v).

C’è la consapevolezza di riprendere una rappresentazione del rapporto fra élite e masse popolari già presente nel mondo greco? Il testo non offre alcun indizio in tal senso, anche per il suo tono volutamente ironico e scanzonato. Pertanto, in questo specifico caso (diversamente da quelli illustrati supra e infra), potremmo trovarci di fronte a uno di quegli “isomorfismi concettuali” di cui si è parlato supra (nel primo paragrafo): potremmo pensare che De Gregorio mette in scena il rapporto fra Draghi e la massa dei parlamentari ricorrendo allo stesso genere di contrapposizione fra sophrosyne delle élite e akolasia delle masse popolari non perché si ispira a un modello classico, ma perché, semplicemente, questa rappresentazione serve a legittimare il potere, ponendo gli uni (gli aristoi; Mario Draghi) in una posizione di superiorità, intellettuale e morale, sugli altri (il demos; i parlamentari indisciplinati).

Tuttavia, una terza possibilità è che la rappresentazione offerta dal passo citato sia il frutto di una reminiscenza del mondo classico inconsapevole ma non per questo meno efficace (sul concetto di reminiscenza inconsapevole vd. la celebre “pagina stravagante” di Pasquali 1942, 11-12), visto che, come gran parte delle élite italiane, De Gregorio ha frequentato il Liceo Classico; il fatto che sia laureata in Scienze Politiche [47] implica una ulteriore frequentazione del pensiero politico greco (che è in gran parte antidemocratico). Rappresentazioni come quella costruita dalla De Gregorio trovano infatti paralleli in testi greci ben noti.

Si pensi al ritratto del “vero filosofo” nella Repubblica di Platone (il quale, proprio per le sue caratteristiche, è l’unico adeguato a reggere lo Stato: Repubblica 5, 473c-e): costui deve essere

“temperante”, σώφρων, “posato”, κόσμιος, “privo di meschinità, misurato nelle parole, coraggioso”, μηδ᾽ ἀνελεύθερος μηδ᾽ ἀλαζὼν μηδὲ δειλὸς; la sua mente deve essere “per natura ben equilibrata e fine”, ἔμμετρον ἄρα καὶ εὔχαριν… φύσει (Repubblica, 6, 485e-486d); per la massa, che si comporta in modo selvaggio (come “belve”: 6, 496d), il filosofo può e deve diventare, con il suo esempio, “artefice di temperanza e di giustizia e dell’intera virtù pubblica”, δημιουργὸν... σωφροσύνης τε καὶ δικαιοσύνης καὶ συμπάσης τῆς δημοτικῆς ἀρετῆς (6, 500d).

E si pensi ancora come Platone, nel condannare la democrazia, insiste sulla rappresentazione della medesima come un regime caratterizzato dal rifiuto del principio di autorità, anche quando dovuta a una superiore competenza (vd. per esempio Repubblica 8, 557b-558c; Leggi 3, 700e-701c). Tale rifiuto si manifesta anche in ambito scolastico (lo stesso in cui è ambientata la “scenetta” vista sopra): al punto che “il maestro ha paura degli studenti e se li tiene buoni, mentre gli scolari non rispettano assolutamente i maestri, e così pure i pedagoghi” (Repubblica 8, 563a).

L’ipotesi di una ispirazione classica (inconsapevole) del brano di De Gregorio sopra citato resta comunque una ipotesi, ma la questione, come si è detto, è secondaria nella prospettiva del presente contributo: il punto centrale è rilevare la presenza di evidenti analogie fra pensiero antidemocratico greco e interventi recentissimi nel dibattito politico italiano.

Ma torniamo all’analisi del brano citato, perché vi è un ulteriore elemento che merita di essere notato: la rappresentazione costruita dalla giornalista mette in scena un contrasto fra l’impegno per il bene pubblico dell’uno e il totale disinteresse degli altri (raffigurati come alunni distratti dalla lezione) e così riproduce (probabilmente in modo inconsapevole, ma proprio per questo significativamente) un elemento ricorrente nelle rappresentazioni antidemocratiche della Grecia di V sec. a.C.

Mi limito a citare pochi passi. Scrive il Vecchio Oligarca (in Ath. resp. 1, 5 già citato supra) che “i migliori” (beltistoi) mostrano una “scrupolosa attenzione a ciò che è utile [per il bene comune]”; d’altra parte (sosterrà Aristotele) [48], l’individuo istruito persegue precisione ed esattezza in ogni ambito in cui opera, compresa dunque la sfera politica. Nel logos tripolitikos erodoteo, il sostenitore della monarchia, Dario, afferma che in una oligarchia “molti [“molti” solo fra quei “pochi” che hanno il potere in un regime oligarchico] esercitano la loro virtù per il bene comune” [49] e che addirittura è solo l’eccesso di zelo in questo àmbito, il desiderio di ogni membro dell’élite di primeggiare in questa nobile gara di virtù [50] a creare conflitti interni all’élite con le rovinose conseguenze che ne derivano e che portano comunque a un regime monarchico [51] (si noti che è una rappresentazione comunque solidale con l’aristocrazia da cui Dario stesso proviene). Passiamo a Isocrate, nel IV sec. a.C.: nel suo Areopagitico (esaltazione della buona democrazia di un tempo, guidata dall’élite attraverso l’Areopago, cui si accedeva su base censitaria), Isocrate critica la vita politica dell’Atene del proprio tempo perché essa educa i cittadini “a considerare l’indisciplina [akolasia] una forma di democrazia […] e la libertà di parlare tutti su tutto [parrhesia] una forma di eguaglianza [isonomia]” [52], associando (proprio come nel brano giornalistico sopra citato) l’accusa di ignoranza e quella di indisciplina, in nome di una gestione della cosa pubblica affidata all’élite; nello stesso spirito, poche righe dopo, contrappone “la cura degli affari dello Stato” praticata un tempo da un ceto politico costituito da “chi ha tempo e mezzi sufficienti” e quasi obbligato a occuparsi della cosa pubblica [53], alla situazione del suo tempo, in cui l’accesso alla cariche pubbliche è determinato dal deprecato sorteggio democratico (mentre un tempo si procedeva “prescegliendo i migliori e i più adatti ad ogni compito”) [54] e l’interesse di chi ricopre una carica non è il bene comune, ma l’ambizione e/o l’arricchimento personale [55].

Le “decisioni migliori” per chi? Una frase di Erodoto e la sua persistenza contemporanea

Vi è un ultimo elemento da considerare nella locuzione grecizzante di “governo dei migliori”, già notato dai commentatori più avvertiti [56]: la concezione, fallace, secondo cui le decisioni sul bene della comunità siano questioni oggettive, non dipendenti da preferenze soggettive (individuali e di gruppo) cui si aggiunge una visione olistica del “bene comune”, concepito come eguale per ogni membro o per ogni parte della comunità (là dove sappiamo che la politica è anche scontro di interessi che possono essere perfettamente legittimi, o comunque che ogni decisione può avvantaggiare gli uni e svantaggiare gli altri; [57] del resto, già ad Aristotele era evidente che le leggi mirano a quel che è utile, precisando che ciò può essere l’utile di tutti ma anche di una parte scelta in base a un qualche criterio [58]). Dalla somma di queste due convinzioni discende l’idea che il “bene comune” possa essere individuato semplicemente sulla base del principio di competenza; da ciò deriva anche l’idea che il governo dei migliori, dunque, non possa che assumere le decisioni migliori, senza precisare mai “migliori per chi?”.

Ed è proprio questo meccanismo argomentativo che viene sfruttato dal portavoce dell’oligarchia, Megabizo, nel logos tripolitikos. Dopo aver accolto le tesi antimonarchiche del primo partecipante al dialogo (Otane, che parla a sostegno della democrazia e contro il potere di uno solo: 3, 80), dopo aver quindi illustrato l’ignoranza, la stupidità e l’indisciplina del demos e aver detto che l’adozione di un regime democratico sarebbe fonte di male per la collettività (qui, nella finzione del tripolitikos, i Persiani), nella propria pars construens a favore dell’oligarchia (termine, che non a caso, egli non usa, insistendo sul concetto di aristoi), egli ricorre a questa sola argomentazione, data come auto-evidente (è usato, non a caso, il termine οἰκὸς, forma ionica dell’attico εἰκός, che indica ciò che è ragionevole pensare, in quanto appare evidente):

è ovvio che le decisioni degli uomini migliori siano le migliori [ἀρίστων δὲ ἀνδρῶν οἰκὸς ἄριστα βουλεύματα γίνεσθαι].

Megabizo parla di “decisioni migliori” ma si guarda bene dal precisare se tali decisioni siano destinate a essere “migliori per tutti” o “migliori per i migliori”. Nella rappresentazione erodotea egli non sa o finge di non sapere che ognuno decide condizionato dai propri interessi o comunque dalla propria peculiare visione delle cose (determinata anche dal gruppo sociale di appartenenza e dalla propria base economica): una consapevolezza che il Vecchio Oligarca, pur nel suo animus antidemocratico, esprime lucidamente quando attacca coloro che, pur non appartenendo al demos, accettano di agire in una polis democratica, e afferma che, invece, egli al demos perdona il fatto che esso voglia la demokratia, perché “a ciascuno si perdona il fatto di perseguire il proprio interesse” (Ath. resp. 2, 20).

Lo stesso Erodoto, però, proprio attraverso le parole dello stesso Megabizo, lascia intravedere come l’interesse personale possa condizionare le scelte anche dei migliori. Perché, subito dopo aver respinto l’idea di istituire un regime democratico presso i Persiani, e subito prima di sfoderare l’affermazione subito citata, Megabizo invita ad assegnare il potere ai migliori con queste parole:

noi, però, avendo scelto un gruppo coeso [ὁμιλίην] di uomini che siano i migliori, affidiamo a costoro il potere: infatti fra questi, ebbene, vi saremo anche noi [ἡμεῖς δὲ ἀνδρῶν τῶν ἀρίστων ἐπιλέξαντες ὁμιλίην τούτοισι περιθέωμεν τὸ κράτος: ἐν γὰρ δὴ τούτοισι καὶ αὐτοὶ ἐνεσόμεθα].

“Infatti” (γὰρ), “ebbene” (δὴ): con l’abilissimo utilizzo di due minute particelle, l’una a creare un legame causale con la frase precedente (γὰρ), l’altra a esprimere enfasi su quanto affermato, come una conclusione finalmente raggiunta (δὴ), Erodoto suggerisce come Megabizo sia mosso, nella sua argomentazione, anche da motivazioni legate all’interesse personale, cioè dal desiderio di far parte del ceto dirigente (che sarà scelto dal piccolo gruppo dei sette congiurati cui appartiene Megabizo stesso!), con tutti i vantaggi che ne possono derivare (vantaggi non necessariamente e non solo economici: l’esercizio del potere è motivazione sufficiente per aspirare al potere stesso).

E, d’altra parte, non è neppure casuale la formulazione messa in bocca a Megabizo da Erodoto per indicare il momento costitutivo del regime aristocratico, in cui avviene la scelta dei migliori (ἀνδρῶν τῶν ἀρίστων ἐπιλέξαντες ὁμιλίην): perché Megabizo non invita a scegliere i migliori, ma un gruppo di migliori che siano fra loro in rapporti di reciproca frequentazione (è questo il significato di ὁμιλίη); quasi che Erodoto suggerisca, fra le righe, come un regime oligarchico finisca (o anzi inizi) inevitabilmente con l’essere costituito da un gruppo omogeneo, costituito da individui che appartengono allo stesso milieu e che sono educati da individui appartenenti alla loro stessa classe (vd. infra, § vii) e che dunque avranno i limiti epistemici propri di una cerchia ristretta (un’idea che Erodoto non esprime, ma che è viva nel pensiero democratico greco: vd. infra, § vii-viii, e Mosconi 2021, 101-125).

Lungi da chi scrive l’idea che “i migliori” del “governo dei migliori” nell’Italia del 2021 siano stati mossi consapevolmente da motivazioni personalistiche o dalla difesa degli interessi dei gruppi e/o dei ceti cui appartenevano; tuttavia, sorprende come, almeno a livello di mass media, di commentatori e di ceto politico, sia mancata spesso la medesima consapevolezza che una parte del pensiero politico greco mostra di avere sui limiti intrinseci di un “governo dei migliori”, e che invece si sia fatto ricorso agli stessi schemi di pensiero con cui, nel mondo greco di V sec. a.C., i sostenitori delle oligarchie delegittimavano il governo del demos in quanto incapace di buon governo.

Così, quando l’autore del già citato pamphlet intitolato Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia arriva a scrivere, come abbiamo visto, che “gli aristoi greci erano i «migliori» che venivano riconosciuti tali da tutto il popolo” (Abravanel 2021, 8; corsivo nostro), offre una rappresentazione totalmente fuorviante sul piano storico (erano gli aristoi stessi a proclamarsi tali, presentandosi come membri di un gruppo omogeneamente “ottimo”: un aspetto messo in luce dalle parole del Megabizo erodoteo su cui ci siamo soffermati supra, ma ovviamente ben chiaro ad altre fonti) [59] e totalmente appiattita sulla rappresentazione offerta dai ceti dominanti, secondo cui la propria eccellenza era autoevidente e i regimi aristocratici si fondavano sul consenso del popolo a essere dominato da chi era indiscutibilmente “migliore” [60]. E se ciò non avveniva, era colpa del demos, che non si affidava agli aristoi ma a gentaglia (kakoi, deiloi, poneroi, ecc.), del suo stesso tipo! [61]

Come difendere l’oligarchia: “non ricchi ma potenti”
(cioè capaci)

L’ultima tappa del nostro percorso si colloca nell’autunno del 2016. In quei mesi il dibattito politico e massmediatico è dominato dalla discussione attorno al referendum confermativo costituzionale che si sarebbe tenuto il 4 dicembre del 2016, con il quale il corpo elettorale era chiamato a confermare o respingere il disegno di legge costituzionale che era stato approvato in via definitiva dalla Camera dei Deputati il precedente 12 aprile: la riforma costituzionale definita “Renzi-Boschi” dal nome dei due promotori ufficiali [62]. Non rientra nelle intenzioni né nelle capacità di chi scrive ripercorrere gli argomenti portati a favore o contro il progetto di riforma costituzionale [63]; qui consideriamo un piccolo frammento di questo ampio dibattito, in cui è manifesta la persistenza di schemi di pensiero e argomentazioni che hanno paralleli (o precedenti effettivi) nella tradizione del pensiero antidemocratico greco di V-IV sec. a.C.

Il testo sotto esame è un passaggio di un articolo di Eugenio Scalfari, dal titolo significativo “Perché difendo l’oligarchia” [64], momento conclusivo di un dibattito costituito da un precedente articolo dello stesso Scalfari (in cui egli contestava le affermazioni pubbliche del costituzionalista Zagrelbesky sui rischi oligarchici della riforma costituzionale Renzi-Boschi [65]) e da una successiva risposta di Zagrebelsky [66]. Sarebbe troppo lungo ripercorrere lo sviluppo argomentativo del dibattito; basti dire che in esso è evidente la memoria del pensiero politico antico: come in un logos tripolitikos del XXI secolo, viene sviluppato un dibattito sulla tradizionale triade delle forme costituzionali (democrazia, oligarchia e “dittatura” al posto della monarchia) e abbondano – in particolare negli interventi di Scalfari – i riferimenti al mondo classico, agli “antichi” (non senza qualche svista lessicale, che è però irrilevante ai nostri fini) [67].

Nel suo primo intervento Scalfari aveva affermato che, nei fatti, ogni “vera democrazia” non è nient’altro che una oligarchia (“io penso che la democrazia, di fatto, sia guidata da pochi e quindi, di fatto, altro non sia che un’oligarchia”) e che la “sola alternativa” a questa situazione sarebbe, teoricamente, “la cosiddetta democrazia diretta che funziona attraverso il referendum”, basata su “un voto di due monosillabi, il Sì e il No” di cui facilmente aveva dimostrato l’impossibilità pratica come effettiva forma di governo (“Pensare e supporre che tutta questa vita pubblica possa essere governata attraverso i referendum è pura follia e non si può parlare neppure in astratto di questa ipotesi”). Si tratta di affermazioni che non è necessario approfondire in questa sede: basti dire che, per quanto riguarda la prima affermazione, Scalfari non fa altro che riproporre la visione elitista della democrazia e in particolare la nota tesi della “legge ferrea dell’oligarchia” (formulata, come è noto, in Michels 1910) [68], mentre per quanto riguarda la dimostrazione dell’impossibilità della democrazia praticata attraverso le consultazioni referendarie, la sua argomentazione è falsata dal fatto che egli riduce il concetto stesso di democrazia alla sola pratica della votazione, ridotta alla dicotomia “sì/no”. È una concezione che, curiosamente (ma, credo, del tutto involontariamente), ricorda le modalità di espressione assembleare in vigore, nel mondo greco, a Sparta, dove l’Apella, cioè l’assemblea di tutti i cittadini di pieno diritto, riunendosi peraltro due sole volte l’anno, poteva esclusivamente approvare o respingere le proposte presentate dal Consiglio degli Anziani (la Gherusia) [69]. Manca del tutto, nella rappresentazione data da Scalfari della democrazia, quel momento della discussione e della deliberazione (intesa come decisione frutto di una discussione) che era invece fondamentale nell’ideologia democratica ateniese (Mosconi 2021, 127-144) come lo è in quella moderna. Tutto ciò, però, permette di inquadrare meglio i due passaggi che citiamo qui appresso, e tratti appunto dal secondo intervento di Scalfari, in cui egli risponde alle obiezioni di Zagrebelsky e dal titolo quanto mai esplicito “Perché difendo l’oligarchia”.

A Zagrebelsky, il quale aveva scritto che

Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto [70],

Scalfari risponde in tal modo:

Zagrebelsky pensa che i pochi sono i ricchi e i potenti. Ricchi non necessariamente, potenti certamente e su questo è tutto. Le alternative sono la democrazia referendaria della quale ho già scritto l’impossibilità di governare; oppure la dittatura.

Scalfari rigetta nettamente l’identificazione fra “i pochi” al potere e “i ricchi” e invece accetta l’etichetta di “potenti”. Ma, si noti, ciò avviene con un sottile slittamento di significato nel termine “potenti”: perché in Zagrebelsky esso indica coloro che esercitano un potere sulla base di una situazione di privilegio sociale, in genere ereditario (“i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale”), mentre in Scalfari il termine viene assolutizzato, e diviene semplicemente “coloro che sono in grado di agire” determinando la vita collettiva. Quale sia l’effettiva base di tale “capacità di agire”, però, non viene detto, lasciando implicito che la qualifica di “potenti” possa anche derivare dalle personali capacità e sia quindi frutto di un merito intrinseco e di una superiore competenza nel proprio ambito d’azione (non a caso, come esempio di oligarchie costituite da “potenti” ma non da ricchi, Scalfari propone i comitati centrali dei partiti e i sinodi della Chiesa cattolica) [71].

Ebbene, proprio la medesima ambiguità semantica si manifesta nei due termini greci che corrispondono all’italiano “potenti”: il participio οἱ δυνάμενοι (dal verbo δύναμαι) indica, usato come sostantivo, i “men of power, rank, and influence”, anche in contrapposizione ai non abbienti e ai poveri (οἱ μὴ ἔχοντες; οἱ πένητες) [72], ma il verbo δύναμαι può indicare anche semplicemente la capacità di agire [73]; l’aggettivo δυνατός, vuol dire “strong, mighty, in body or mind”, quindi genericamente “able to do” (e così lo usa il Vecchio Oligarca in 1, 3, al grado superlativo: dynatotatoi) ma, in relazione all’“outward power”, significa “powerful, influential” e usato come sostantivo plurale delinea una specifica classe sociale, “the chief men of rank and influence” [74], tali proprio per le loro ricchezza (si veda, in Tucidide 2, 65, 1, il riferimento alle “belle proprietà” possedute dai dynatoi ateniesi nelle campagne dell’Attica, proprio in contrapposizione alla povertà del demos).

Allo stesso modo, nel mondo greco, i sostenitori e gli esponenti dei regimi oligarchici tendono a evitare di presentare sé stessi attraverso qualifiche economiche e censitarie (Marr e Rhodes 2008, 24-26; cfr. Lenfant 2017, xciii e cxv e nota 327), mentre preferiscono utilizzare, per definirsi, termini che appunto mettono in evidenza la propria capacità individuale (anche se estesa, naturaliter, a tutto il gruppo): aristoi, xynetoi, dexiotatoi, sophoi, dynatoi e dynamenoi, già menzionati sopra, cui possiamo aggiungere, per limitarci ai principali, agathoi ed
esthloi, cioè “buoni” nel senso di “validi”, anche sul piano del coraggio in guerra (Nicosia 2019, 192-196) e khrestoi, ma letteralmente gli “utili”, perché capaci, e quindi “persone di qualità” (Mosconi 2021, 35-36).

Sono le stesse dinamiche alla base dei meccanismi di legittimazione delle élite contemporanee, i cui membri presentano il proprio ruolo dirigente non come frutto di una appartenenza sociale e delle possibilità offerte dal proprio status economico (Volpato 2019, 83-91 e 99-106; partic. 105-106), ma come l’esito, meritato, di doti di carattere intellettuale possedute individualmente e individualmente guadagnate (Volpato 2019, partic. 98-130, e Sandel 2021, passim).

Incidentalmente, si può notare che, mentre nel discorso politico contemporaneo ricorrono termini come “élite”, o “ceti dirigenti” meno connotati e meno sfacciati e la legittimazione ideologica delle élite avviene in altre forme, più discorsive (perché i principi democratici sono accettati da tutti, sul piano formale), viceversa l’utilizzo di etichette elogiative o denigratorie (usate efficacemente come strumento ideologico) sembra costituire, a parere di chi scrive, un elemento più legato a forme di rappresentazione sociale proprie della tradizione antidemocratica greca, che è più esplicita nella sua contestazione frontale della democrazia [75].

Ma torniamo all’analisi della breve citazione dal testo “Perché difendo l’oligarchia”. Nel respingere l’equiparazione ‘pochi = ricchi’, e nel giocare sull’ambiguità semantica del termine “potenti”, spogliandolo delle sue connotazioni sociologiche per ridurlo a una condizione individuale, Scalfari dunque utilizza strategie retoriche che erano già proprie della tradizione filo-oligarchica greca: et pour cause, in un testo che si intitola “Perché difendo l’oligarchia” e che riprende la tripartizione dei regimi (governo di uno, governo di pochi, governo di molti) tipica della riflessione politica greca. Se questo avvenga per effetto di una reminiscenza, anche inconsapevole, della tradizione greca oppure per effetto degli isomorfismi concettuali di cui si è detto (nel primo §) non è possibile determinarlo (ed è in parte una questione secondaria); ma abbiamo già accennato agli elementi che mostrano la presenza esplicita della memoria del mondo greco nel dibattito portato avanti da Scalfari e Zagrebelsky.

Come difendere l’oligarchia: “i pochi (i capaci) sanno vedere il bene comune”

La ripresa di schemi di pensiero derivanti dalla tradizione greca è ancora più rilevante, sul piano ideologico, in un altro passaggio, tratto dalle righe iniziali del medesimo testo:

Che l’oligarchia sia il governo dei pochi lo diciamo tutti e due [cioè Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky]. Che faccia un governo per i ricchi lo dice solo Gustavo e che i ricchi facciano i loro propri interessi a danno dei molti, anche questo lo dice soltanto lui, non io. Che l’oligarchia abbia in mente una sua visione del bene comune è inevitabile.

A conferma di quanto appena osservato sul rifiuto del termine “ricchi” in favore di “potenti” (usato in modo non connotato sociologicamente) troviamo anche qui il netto rifiuto dell’equiparazione ‘pochi = ricchi’. Ma più interessante è l’affermazione che l’oligarchia non favorisce gli interessi di una parte (“i ricchi”) e che anzi sia “inevitabile” “che l’oligarchia abbia in mente una sua visione del bene comune”.

Per Scalfari, dunque, la comunità politica nel suo complesso si articola su due poli, fra loro nettamente distinti. Ebbene, anche questa è una rappresentazione della comunità politica tipica del mondo greco, cioè della sua parte antidemocratica: ne è un esempio clamoroso il Vecchio Oligarca, secondo cui l’intero mondo greco, all’interno di ogni singola polis, è il campo di battaglia fra il demos e i khrestoi [76] (con effetti anche sulle scelte di strategia militare) [77]. Nella rappresentazione costruita da Scalfari, da una parte c’è una massa incapace di esprimere una sua personale visione del bene comune, che può solo rispondere alle sollecitazioni altrui (ovviamente, quelle dei “potenti”) e che è in grado di farlo solo di con “due monosillabi, il Sì e il No”. Dall’altra c’è invece una oligarchia non di ricchi ma di “potenti” nel senso qualitativo e non sociologico (cioè di “individui capaci di pensare e agire”), la quale ha tre caratteristiche che elenchiamo qui di seguito”:

1) L’oligarchia (intesa non come regime, ma come gruppo al potere) ha una “visione”, ha cioè una capacità intellettuale superiore, che la rende in grado di interpretare (“vedere”) la realtà; lo stesso non viene detto, da Scalfari, per la massa dei cittadini comuni.

2) Questa visione è propria dell’oligarchia, è “sua”, non le deriva perciò da altri se non da sé stessa. Il che è vero, perché gli studi sociologici contemporanei confermano la tendenza delle élite a perpetuare una propria visione del mondo attraverso meccanismi di trasmissione interna e di separazione dal più ampio contesto sociale: “Le élites vivono di frequentazioni reciproche, tutte interne al loro mondo” (Volpato 2019, 101; cfr. 62-74).

3) Infine, a chiudere il cerchio, quella dell’oligarchia è una visione che ha per oggetto il bene comune (e non, per esempio, i propri interessi).

Per queste tre caratteristiche, solo l’oligarchia può gestire la res publica.

Alla fine del nostro discorso, appare evidente come tutte e tre le caratteristiche implicite nella frase analizzata siano presenti anche nelle strategie argomentative utilizzate dalle oligarchie greche per opporsi ai regimi democratici e per legittimare la propria aspirazione al potere. Vediamo in che modo.

1) Anche le oligarchie greche si presentano come dotate di capacità intellettuale e preparazione culturale rispetto a una massa che ne è priva (ne abbiamo parlato più volte e non occorre ritornarvi).

2) Anche le oligarchie greche presentano la propria superiore capacità come una tradizione endogena, e come tale preclusa a chi non appartiene all’élite. Frequentare altri agathoi è l’unico modo perché chi è nato da un agathos diventi pienamente agathos egli stesso, e resti poi tale nel tempo (mentre frequentare i kakoi porta anche l’agathos a corrompersi): è quanto viene ribadito in quel manuale di condotta politica per aristocratici che è il corpus Theognideum [78]. Ma si ricordi anche quanto osservato supra sull’uso del termine ὁμιλίη, “gruppo coeso”, da parte del Megabizo erodoteo [79]. Vale la pena di notare che l’insistenza di un Teognide sull’importanza di frequentare altri agathoi perché il figlio di un agathos diventi anch’egli tale può essere accostata alla cura con cui le élite attuali puntano ad assicurarsi che la propria prole frequenti esclusivamente altri membri dell’élite (attraverso scuole di prestigio, attività sportive e occasioni ricreative elitarie: cfr. Volpato 2019, 62, che riprende il concetto di “capitale culturale incorporato” messo a punto da Bourdieu 1979).

3) Infine, anche le oligarchie greche si presentano come interessate, nel loro esercizio del potere o nella loro aspirazione a esercitarlo, solo al bene comune (quel bene comune che esse solo sono in grado di vedere). A questo riguardo, abbiamo già citato le parole di Dario (nel logos tripolitikos erodoteo: 3, 82, 3), sui “molti che in una oligarchia esercitano la propria arete in vista del bene comune” e quelle del Vecchio Oligarca sulla scrupolosa attenzione a ciò che è utile da parte dei beltistoi (1, 5); vi si possono facilmente aggiungere le affermazioni, sempre del Vecchio Oligarca, sul fatto che i dexiotatoi o khrestoi perseguono l’eunomia, il “buon governo” (1, 9: ma l’autore non ha reticenze ad affermare che tale eunomia comporterebbe la totale sottomissione del demos e che dunque il vanto di occuparsi del bene comune finisce per essere una finzione: vd. infra [80]) o il vanto, contenuto nel corpus Theognideum, che “i buoni [agathoi] non hanno mai rovinato una città”, mentre il prevalere dei “cattivi” [kakoi] corrompe il popolo e conduce la comunità al disastro [81]. Quando poi un autore antidemocratico ammette che il demos sia in grado di ragionare, presenta tale capacità come volta esclusivamente al bieco tornaconto di gruppo, a scapito del bene comune [82] (il fatto che in realtà il vantaggio del demos, in quanto maggioranza della cittadinanza, sia ipso facto anche “bene comune”, è questione che viene abilmente passata sotto silenzio dalle fonti antidemocratiche: Mosconi 2021, 184-185).

I limiti epistemici dell’élite

In tutto ciò, vi è però un intoppo, ed è tutto racchiuso nel “sua” utilizzato da Scalfari: perché questo semplice aggettivo possessivo impedisce, a dispetto dell’autore della frase, che la visione del bene comune che è propria dell’oligarchia possa essere considerata oggettiva e effettivamente rivolta al “bene comune”. Ma questa, connaturata a ogni gruppo umano, è una limitazione di cui (come abbiamo visto) il pensiero politico greco era perfettamente consapevole: nel IV sec. a.C. Aristotele osservava, mettendo a confronto la diversa concezione del “giusto” nelle democrazie e oligarchie, che la differenza di opinioni è dovuta al fatto “tutti più o meno sono cattivi giudici delle proprie cose” [83] (cfr. il brocardo Nemo iudex in causa sua), implicando che anche una oligarchia compie tale errore; ma già nel V secolo il Vecchio Oligarca riconosceva che, nella lotta politica fra gruppi sociali, “bisogna accettare che ognuno persegua il proprio vantaggio” (come appunto fa, a suo giudizio il demos ateniese [84]) e proprio su questa base rimproverava coloro che, pur non appartenendo al demos, accettavano di collaborare con il regime democratico, presupponendo che costoro avrebbero dovuto invece sostenere un regime oligarchico (Ath. resp. 2, 20). Coerentemente con questa visione, il Vecchio Oligarca riconosceva che

se intervenissero in Assemblea e partecipassero alla Boule solo le persone utili [khrestoi], ciò sarebbe un bene per coloro che sono simili a loro, ma non un bene per quelli del popolo (1, 6).

Poco importa che egli vedesse in ciò il realizzarsi del buon governo (1, 9), in cui finalmente i khrestoi, “le persone valide” dominassero sui poneroi, “i furfanti” (cfr. 1, 1): l’ammissione è comunque clamorosa. Al contrario, i difensori della democrazia nel mondo greco la presentavano come il regime che, in quanto fondato sull’opinione dei più, era anche in grado di tener conto della più vasta gamma di opinioni, di prospettive e di interessi materiali: in una parola, della più vasta gamma di “visioni del bene comune” (Mosconi 2021, 74-5 e 101-125).

Sicché, si può dire che se il mondo greco fornisce ancor oggi, dopo oltre duemilacinquecento anni, le armi retoriche e argomentative a favore dei poteri oligarchici, allo stesso modo fornisce gli antidoti a tutto ciò. Ancora una volta, insomma, la riflessione politica antica (greca) costituisce un’ineludibile pietra di paragone (nel senso proprio del termine) anche per la lettura del dibattito politico nelle democrazie contemporanee, per coglierne in profondità i meccanismi concettuali, tanto più subdoli quanto più impliciti [85].

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Note

1. Hansen 2003 costituisce una sintesi del centinaio di contributi da lui dedicati, in mezzo secolo di attività di ricerca, alle istituzioni, al funzionamento e ai fondamenti concettuali della democrazia ateniese.

2. I saggi raccolti in D’Atena e Lanzillotta 1998 mettono egualmente in luce una serie di “costanti” in relazione ai problemi “eterni” della democrazia (la tensione tra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, la manipolazione del consenso, i rapporti tra le istituzioni rappresentative e le forme di aggregazione spontanea della società).

3. Cfr. Musti 1995, 14-19, 103-120, e già Musti 1985: nell’ideologia democratica periclea si riscontra la medesima tensione fra “pubblico” e “privato” centrale nelle democrazie contemporanee.

4. “Democrazie greche” perché il fenomeno democratico, nel mondo greco, conobbe una estrema varietà di forme e di intensità: cosa di cui la riflessione politologica antica era ben consapevole (vd. Aristotele, Politica 6, 1316b-1317a) e che veniva sfruttata anche a livello di pubblicistica (come l’Areopagitico di Isocrate, tutto fondato sulla distinzione fra una buona democrazia di un tempo e la cattiva democrazia degenerata del IV sec. a.C.). Cfr. Giangiulio 2015, intitolato appunto Democrazie greche.

5. In primis il “Principio di Uguaglianza Assoluta”: Dahl 1997, 139 e, in relazione al pensiero politico greco, Mosconi 2021, 166-178.

6. “Si parla di isomorfismo quando due strutture complesse si possono applicare l’una sull’altra […] in modo tale che per ogni parte di una delle strutture ci sia una parte corrispondente nell’altra struttura” con “un ruolo simile nelle rispettive strutture”: Hofstadter 1984, 54.

7. Hansen 1992 e Hansen 2005. Per il ruolo del dibattito sulla democrazia greca, e ateniese in particolare, come stimolo per la riflessione politica dal Medioevo all’età contemporanea vd. anche Butti de Lima 2019 e i contributi raccolti in Piovan e Giorgini 2021 e in Fantasia e Iori 2023. Con particolare attenzione agli ultimi decenni, vd. la densa panoramica in Piovan 2022.

8. Canfora 2006 offre una panoramica, a partire dall’Atene di V sec. a.C. (ma in particolare fra Rivoluzione Francese e inizio del XXI secolo: 56 ss.), dei meccanismi con cui, anche in contesti democratici, le élite hanno impedito l’effettivo esercizio del potere da parte del popolo: ciò è avvenuto con la violenza (come per esempio attraverso l’adesione a fascismo e nazismo: 191-253) oppure, più abilmente, con meccanismi di legittimazione di un proprio ruolo dirigente (come avviene nell’Europa occidentale successivamente al 1945: 253-338). Benché chi scriva non condivida la negazione di un effettivo carattere democratico all’Atene di Pericle e in particolare l’idea che Pericle, in Tucidide 2, 37, 1, stia prendendo le distanze dalla demokratia (11-16; 16: “non esistono testi di autori ateniesi che inneggino alla democrazia”; corsivo dell’autore), l’ampia rassegna storica offerta da Canfora 2006 costituisce un utile sfondo su cui collocare le considerazioni più minute offerte nel presente contributo e relative a un momento storico recentissimo.

9. Su questa citazione, e sulla sua sostanziale legittimità, vd. Hansen 2008; molto critico invece Canfora 2066, 11-30 (al quale risponde appunto Hansen 2008).

10. Sui “governi tecnici” in Italia, dai “prodromi” con il governo Amato I ai governi Ciampi, Dini e Monti, Pierini 2017; per la situazione italiana fino al 2015 cfr. Fabbrini 2015. Sui tecnici in ruoli di governo e/o in regimi fondati sulla pianificazione statale fra XIX e XXI secolo vedi Grandi e Paci 2014 con esempi tratti da numerosi Paesi (per esempio Argentina, Cina, Irlanda, Italia, USA, ecc.). Per una prospettiva dal XVI secolo al nostro tempo vedi i contributi in De Prospo e Mura 2020, nessuno dei quali tocca i governi tecnici italiani successivi al 2000 (fra essi Battente 2020 utilizza nel titolo la dizione “governo dei migliori”, ma senza che essa sia pertinente all’argomento trattato: segno rivelatore, però, dell’imporsi della formula).

11. Sul governo Dini e sul governo Monti, in relazione ai loro aspetti tecnocratici, Pierini 2017, 66-69 (governo Dini) e 69-78 (governo Monti).

12. Negli ultimi mesi della Prima Repubblica, si colloca il governo Ciampi (“il primo technocrat-led government della storia repubblicana”: Pierini 2017, 61-66; citazione da 61), per il quale non fu utilizzata la dizione “governo dei migliori”. Lo stesso per il governo Amato I, caratterizzato come “politico” e sorto in un clima di forte contestazione politica (Pierini 2017, 56-61).

13. Una ricerca su Google per la stringa “Draghi «governo dei migliori»” fornisce “circa 20.000 risultati” (consultazione avvenuta il 28/02/2024). Per una rassegna stampa con vari riferimenti al “governo dei migliori” nei mass media si veda Chiara Masi, “Nasce il governo Draghi e i giornali si posizionano. Molti pro e qualche contro.” Formiche, 13 febbraio 2021: https://formiche.net/2021/02/rassegna-stampa-governo-draghi/13/02/2021.

14. Vd. per esempio Donatella Di Cesare, “Il pericolo dietro il «governo dei migliori».” L’Espresso, 16 febbraio 2021: https://lespresso.it/c/politica/2021/2/15/il-pericolo-dietro-il-governo-dei-migliori/37932; Marco Travaglio, I segreti del Conticidio: il “golpe buono” e il “governo dei migliori”. Prefazione di Barbara Spinelli. Roma: Paper First, 2021.

15. Come mi segnala uno dei referees, l’espressione “governo tecnico” viene usata da Filippo Tommaso Marinetti nell’ambito del programma del Partito Politico Futurista, programma illustrato da Marinetti nel suo Democrazia futurista (Marinetti 1919). Tuttavia, nell’uso che ne fa Marinetti, questa espressione ha un significato profondamente diverso rispetto a quello attuale. Nel cap. 15 del suo pamphlet, intitolato appunto “Governo tecnico senza parlamento, senza senato e con un Eccitatorio” (143-156), Marinetti propone la creazione di un parlamento composto in gran parte “di industriali, di agricoltori, di ingegneri e di commercianti”, oppure, come soluzione definitiva, “un Governo tecnico senza parlamento, un Governo composto di 20 tecnici eletti mediante suffragio universale” e affiancato da un “Eccitatorio” composto di venti giovani non ancora trentenni (Marinetti 1919, 150). Qui è chiaro che l’espressione “governo tecnico” non designa tanto un governo di esperti, quanto piuttosto un governo in cui prevalgano individui provenienti dall’ambito delle tecniche e delle attività produttive, e quindi ingegneri, ma anche commercianti e operai (vd. 151: “Manderemo a governare il paese ingegneri, commercianti ed operai, gente che sa il suo mestiere e conosce i bisogni reali della propria classe”). Il governo tecnico di Marinetti, insomma, è “tecnico” in quanto composto di individui estranei alle discipline giuridiche e/o umanistiche (nel nome della polemica contro la tradizione umanistica propria del movimento futurista) e perfino estranei alle scienze pure, non è “tecnico” in quanto non-politico.

16. Come viene ricordato nel retrofrontespizio del volume (Abravanel 2021), dove Abravanel così viene presentato: “director emeritus di McKinsey, consigliere di amministrazione di aziende italiane e internazionali e editorialista del «Corriere della Sera»”.

17. Ferruccio de Bortoli, “«Aristocrazia 2.0» di Roger Abravanel: una proposta meritocratica per salvare l’Italia.” Corriere della Sera, 24 gennaio 2021: https://www.corriere.it/cultura/21_gennaio_24/aristocrazia-20-roger-abravanel-proposta-meritocratica-salvare-l-italia-74920b14-5e4d-11eb-9d4d-6cce1a220c09.shtml.

18. Vedi per esempio la recensione di Mario Ajello, “Così la meritocrazia potrà salvare l’Italia.” Il Messaggero, 5 febbraio 2021.

19. Sulla situazione di emergenza economica in cui nasce il governo Monti e sulla concentrazione di ruoli e poteri nella figura di Mario Monti, Pierini 2017, 70-71.

20. In realtà, sul piano della composizione complessiva, il governo Draghi è stato, nei fatti, un governo misto, tecnico-politico, dal momento che molti dei suoi componenti erano membri delle forze politiche che lo sostenevano (cfr. F.Q., “Draghi, il governo «dei competenti»? Con il manuale Cencelli.” Il Fatto Quotidiano, 12 gennaio 2021); è però evidente che, per il prestigio del presidente del Consiglio e per il suo indubbio profilo ‘tecnico’, e per il fatto che molti ministeri importanti erano in mano a tecnici, la connotazione prevalente è stata quella di governo tecnico.

21. Vedi l’art. 2, ultimo punto, del Codice Etico del Movimento 5 Stelle (https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/codice_etico_MoVimento_2017.pdf ). Cfr. ora Matteo Pucciarelli, “Grillo blinda la regola del doppio mandato: «Diventi una legge di Stato, la politica non è una professione».” la Repubblica, 16 febbraio 2024. Questa regola compare fin dall’ingresso del Movimento nelle elezioni, anche di livello locale: Natale e Biorcio 2018, 19. Allo stesso principio corrisponde, nella prima fase dell’attività parlamentare del Movimento (2013-2018), la rotazione degli incarichi interni ai gruppi parlamentari: Natale e Biorcio 2018, 64.

22. Gianluca Vacca, “Democrazia a sorte: quali scenari possibili?.” Il Blog di Beppe Grillo, 3 luglio 2018: https://beppegrillo.it/democrazia-a-sorte-quali-scenari-possibili/. Questo articolo riassume il testo di un intervento al Convegno Democrazia a sorte: quali scenari possibili?, svoltosi in Roma presso la Camera dei Deputati (21 luglio 2016). Sul ritorno del sorteggio nel dibattito politologico contemporaneo Van Reybrouck 2015, 52-67 e 88-95.

23. Vd. art. 3, punto 2, del Codice Etico del Movimento 5 Stelle. Significativamente, nella sezione iniziale dell’art. 3, gli eletti sono definiti “portavoce”, a ribadire l’assoluta dipendenza dalle indicazioni fornite dagli iscritti al Movimento stesso (“Ciascun portavoce eletto all’esito di una competizione elettorale nella quale si sia presentato sotto il simbolo del Movimento 5 Stelle […]”).

24. Sul ruolo degli iscritti nella definizione delle politiche sostenute dal Movimento e sui limiti a cui va incontro tale ruolo (nonché sulle incongruenze, al riguardo, fra il “Codice Etico”, approvato nel 2017, e il nuovo “Statuto” approvato l’11 marzo 2022) vedi Iorio 2022, 33-41 e 79-82 su pregi e limiti della democrazia diretta perseguita dal Movimento.

25. Sulle pratiche di democrazia diretta e sull’ideale di uno stretto controllo sugli eletti, nel Movimento 5 Stelle, in particolare negli anni di formazione del Movimento, vedi Natale e Biorcio 2018, 11-18, 65-67 e 101.

26. Cfr. Scichilone 2021: “Adesso stiamo assistendo al più facile degli argomenti, che contrappongono un grillino qualunque con curriculum modesto allo standing impressionante dell’ex capo della Bce. […] Siamo passati dall’odioso «uno vale uno» […] a «uno vale tutti»”. Inquadramento teorico sul rapporto fra “tecnocrazia e crisi della democrazia” in Volpi 2017, che definisce il ricorso ai governi tecnici “una risposta regressiva alla crisi della democrazia”.

27. Alla riduzione della gamma delle opzioni politiche fra cui gli elettori possono scegliere contribuisce anche il crescente ricorso a sistemi elettorali maggioritari: su questa evoluzione, e sulla sua interpretazione in termini di arretramento della democrazia, vd. Canfora 2006, 311-338.

28. Mario Ajello, “La scelta dei migliori: un atto di coraggio.” Il Messaggero, 7 ottobre 2022: https://www.ilmessaggero.it/editoriali/politica/governo_meloni_ministri_editoriale_messaggero-6973144.html.

29. Scrivendo “élite della virtù e del talento” il giornalista riprende letteralmente un passaggio di un suo precedente articolo (Ajello, “Così la meritocrazia potrà salvare l’Italia”, citato supra, nota 18) comparso proprio pochi giorni prima la formazione del governo Draghi. A sua volta, in questo articolo, Ajello usava il passaggio del volume di Abravanel 2021, 8, citato supra, sugli “aristoi greci” che “rappresentavano l’élite della virtù e del talento”.

30. Sul Liceo Classico nato con la riforma Gentile come “apprendistato lungo e formalizzato delle élite dirigenti all’esercizio della preminenza politica e sociale” (in opposizione all’emergere del ruolo politico e sociale delle masse) Scotto di Luzio 1999, 143-145 (citazione a 150) e 171 (“scuola destinata a perpetuare nella borghesia italiana la sua tradizionale funzione dirigente”).

31. Sul calo di iscritti vd. Condello 2018, 30-41. Sul Liceo Classico come scuola per l’élite oggi Condello 2018, 231-246, con l’avvertenza che la caratterizzazione elitaria del Liceo Classico lo rende anche, all’interno del sistema scolastico italiano, “uno dei suoi migliori strumenti – almeno potenziali – di equità sociale e mobilità intergenerazionale” (246).

32. Su ciò e contro ciò Condello 2018, 121-166.

33. La coppia “virtù” e “intelligenza”, ovviamente, può trovarsi anche al di fuori del dibattito politico, in quanto serve a designare, nel complesso, le doti di un individuo, costituite da capacità intellettuali e doti morali (come il coraggio e l’autocontrollo): vd. per esempio Tucidide 4, 81, 2, in cui l’attribuzione a Brasida di virtù e intelligenza (arete; xynesis) giustifica poi la successiva affermazione che costui è “valido da ogni punto di vista” (κατὰ πάντα ἀγαθός).

34. Si tratta probabilmente di una elegia di V sec. a.C., inserita nel corpus Theognideum per evidente affinità ideologica (Cerri 1968, 20).

35. Su questa terminologia (che congloba insieme giudizio sulle doti intellettuali, giudizio morale e appartenenza sociale) Cerri 1968, 12.

36. Come il Vecchio Oligarca in Ath. resp. 1, 6 e 9.

37. Così Pindaro in Pitica 2, 87, per definire il regime oligarchico, in quella che è la prima apparizione della tradizionale classificazione tripartita dei regimi politici (governo di uno solo, governo di pochi, governo di molti o di tutti).

38. Sulla akolasia del demos vedi Erodoto 3, 81, 2 e il Vecchio Oligarca in Ath. resp. 1, 5 e 1, 10; altri passi significativi in Lenfant 2017, cxii, nota 315.

39. Teognide 1, 319-320: Κύρν᾽, ἀγαθὸς μὲν ἀνὴρ γνώμην ἔχει ἔμπεδον αἰεί, / τολμᾷ δ᾽ ἔν τε κακοῖς κείμενος ἔν τ᾽ ἀγαθοῖς (l’apostrofe a Cirno lascia pensare che si tratti di un testo effettivamente teognideo). Subito appresso, vv. 321-322, Teognide cita invece il comportamento opposto del kakos aner, che nel successo non domina più la sua kakotes (abbiamo menzionato questi versi supra, nel testo). Una rappresentazione analoga viene offerta nei vv. 441-446 (= 1162a-f). Altri passi del corpus Theognideum insistono sul valore della gnome ma senza una evidente caratterizzazione in termini sociopolitici: vd. i vv. 895-896 e soprattutto 1171-1176, dove, in ogni caso, l’opposizione fra l’intelligenza, gnome, e l’avidità, koros, rimanda a una opposizione sociologica, visto che l’avidità è, nel corpus Theognideum, un tipico attributo dei kakoi: vd. per esempio 43-50 e 699-718.

40. Per esempio Volpi 2017, 4, afferma che la prima teorizzazione del “governo dei custodi” come forma di Stato ideale risale a Platone.

41. Per una esposizione complessiva della tradizione antidemocratica nel pensiero politico greco vd. Ober 1994 e Roberts 1997.

42. Al punto tale che diventano oggetto di annotazione giornalistica le occasioni in cui “Mario Draghi perde per un momento l’aplomb e la freddezza rettilea che ne hanno caratterizzato l’immagine pubblica”: così Tommaso Rodano, “«Putin è come Hitler»: Draghi arma l’Ucraina e vuole più soldi.” Il Fatto Quotidiano, 24 marzo 2022: https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/03/24/putin-e-come-hitler-draghi-arma-lucraina-e-vuole-piu-soldi/6535571/.

43. Concita De Gregorio, “Le regole, il suk e la classe.” InveceConcita. Blogpost (blog ospitato su la Repubblica), 21 luglio 2022: https://invececoncita.blogautore.repubblica.it/articoli/2022/07/21/le-regole-il-suk-e-la-classe/.

44. Vedi per esempio Massimiliano D’Esposito, “«Draghi come prof Harvard in alberghiero di Massa Lubrense», bufera sulla frase di Concita De Gregorio.” Il Mattino, 21 luglio 2022: https://www.ilmattino.it/primopiano/politica/draghi_gaffe_concita_de_gregorio_protesta_penisola_sorrentina-6826718. html?refresh_ce.

45. Ibidem.

46. Platone, Leggi 3, 690b-c. Sul “principio di competenza” come fondamento del potere politico nel mondo greco Vegetti 2017, 85-99, dedicato appunto a Platone (non viene menzionato questo passo): è evidente che la nota concezione dei filosofi-re, posti al comando della Politeia ideale delineata nella Repubblica, è la logica applicazione del “principio di competenza”.

47. Wikipedia, s.v. “Concita De Gregorio”, ultima modifica 8 marzo 2024.

48. Aristotele, Etica Nicomachea 1, 1094b23-25: “E’ proprio dell’uomo educato mirare per quanto possibile all’esattezza che la natura di ciascuna cosa comporta”.

49. Erodoto 3, 82, 3: ἐν δὲ ὀλιγαρχίῃ πολλοῖσι ἀρετὴν ἐπασκέουσι ἐς τὸ κοινὸν ecc.

50. Ibidem: “volendo ciascuno essere un personaggio di spicco [κορυφαῖος] e vincere con le proprie proposte [γνώμῃσί τε νικᾶν]”.

51. Ibidem: dalle inimicizie personali si arriva alle guerre civili e da queste ai massacri; da questi si finisce alla monarchia.

52. Areopagitico 20.

53. Areopagitico 26: δεῖ […] τοὺς δὲ σχολὴν ἄγειν δυναμένους καὶ βίον ἱκανὸν κεκτημένους ἐπιμελεῖσθαι τῶν κοινῶν ὥσπερ οἰκέτας. In questo sistema, il demos deve limitarsi a “insediare i magistrati, come un tiranno, punire chi sbaglia e decidere in caso di questioni su cui non c’è accordo”: è una prefigurazione delle teorie elitiste della democrazia, con la limitazione del diretto intervento popolare solo alle questioni in cui manca un accordo all’interno dell’élite.

54. Areopagitico 22: τοὺς βελτίστους καὶ τοὺς ἱκανωτάτους ἐφ᾽ ἕκαστον τῶν ἔργων προκρίνοντες.

55. Areopagitico 25.

56. Scichilone 2021.

57. Cfr. Scichilone 2021: “la politica […] divide le scelte in campi e visioni diversi. Solo una grande e sospetta mistificazione inventa la tipologia dei governi tecnici, che in natura non esistono. Perfino sui più generici punti condivisi, basta passare al come, tra strategie diplomatiche e misure economiche, e le idee divergenti non mancheranno”.

58. Aristotele, Etica Nicomachea 5, 1129a14ss.: “le leggi si occupano di tutti gli aspetti, mirando a quel che è utile a tutti oppure ai migliori [aristoi] o a chi ha il potere sovrano in base alle proprie qualità o secondo qualche altro criterio”.

59. Vedi per esempio Tucidide, 3, 82, 8: nelle guerre civili fra democratici e oligarchici, i capi di ogni fazione curano solo il proprio vantaggio, ma “usando nomi onesti, cioè di preferire il popolo e l’eguaglianza di diritti fra i cittadini oppure una aristokratia capace di autocontrollo” (ἀριστοκρατίας σώφρονος).

60. Bastino due esempi presi volutamente da due momenti cronologicamente distanti, cioè da Solone nella prima del VI sec. a.C. (fr. 6 West) e da Isocrate, nella prima metà del IV sec. (Areopagitico 26-27 + 31-35). Vd. anche il passo aristotelico citato nella nota successiva.

61. Come afferma ripetutamente, nella seconda metà del V secolo, il Vecchio Oligarca (vd. per esempio 1, 1; 1, 4, 1, 6-7; 1, 13 ecc.). Ma l’idea è ricorrente: vd. nel VI sec. a.C. il corpus Theognideum (39-52, 233-234) e nel IV sec. la Costituzione degli Ateniesi di Aristotele o di ambiente aristotelico (25-28; vd. in particolare 28, 1: la politica ateniese peggiorò dopo la morte di Pericle, quando “per la prima volta il popolo scelse come proprio leader [prostates] un individuo che non godeva di buona reputazione presso le persone rispettabili; prima a guidare il popolo erano state sempre persone rispettabili”).

62. Cioè Matteo Renzi (presidente del Consiglio dei Ministri) e Maria Elena Boschi (ministra per le Riforme Costituzionali e i Rapporti con il Parlamento): cfr. Testo legge costituzionale, “Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana , Serie Generale n. 88, 15 aprile 2016.

63. Vedi i contributi raccolti in Costanzo, Giovannelli, e Trucco 2015, e Rossi 2016. Ampio elenco degli interventi sui mass media in Villone 2016, 54-61.

64. Eugenio Scalfari, “Perché difendo l’oligarchia.” la Repubblica, 13 ottobre 2016: https://www.repubblica.it/politica/2016/10/13/news/perche_difendo_l_oligarchia-149655377/.

65. Eugenio Scalfari, “In democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri.” la Repubblica, 9 ottobre 2016: https://www.repubblica.it/politica/2016/10/09/news/in_democrazia_sono_pochi_al_volante_e_molti_i_passeggeri-149380234/. Questo primo articolo nasce come risposta a quanto Zagrebelsky aveva affermato in una trasmissione televisiva, cioè che l’approvazione della riforma comportava il “rischio di concentrazione dei poteri per cui rischiamo di passare dalla democrazia all’oligarchia”: cfr. la Repubblica. 2016. “Duello Renzi-Zagrebelsky su referendum. Il costituzionalista: «Svolta oligarchica». Il premier: «Offensivo verso gli italiani».” 30 settembre 2016.

66. Gustavo Zagrebelsky, “Referendum, tempo di oligarchie e di chiarimenti: Zagrebelsky risponde a Scalfari.” la Repubblica, 12 ottobre 2016: https://www.repubblica.it/politica/2016/10/12/news/zagrebelsky_risponde_a_scalfari_oggi_su_repubblica-149584896/.

67. Vedi per esempio questo passaggio dal primo intervento di Scalfari, “In democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri”: “Crazia è un termine greco che significa potere. Oli significa pochi, demos significa molti, cioè in politica popolo sovrano”. In realtà, “crazia” è una parola inesistente in greco (esiste kratos e i composti in -kratia), e “pochi” è oligoi, non l’inesistente “oli”; demos, infine, vuol dire semplicemente “popolo” (nella duplice accezione di “complesso dei cittadini” e di “classe sociale popolare”: Mosconi 2021, 77 nota 95) ma non “molti”.

68. Come ricorda appunto Zagrebelsky nel suo intervento, “Referendum, tempo di oligarchie e di chiarimenti”: “Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la «legge ferrea dell’oligarchia»: […]. Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa”.

69. Vd. Plutarco, Vita di Licurgo 6, 7-8; cfr. Mosconi 2021, 91 nota 148.

70. Zagrebelsky, “Referendum, tempo di oligarchie e di chiarimenti”. Qui Zagrebelski allude, quasi sicuramente, a passi come Senofonte, Memorabili 4, 2, 37; Platone, Repubblica 8, 557a; Aristotele, Politica 4, 4, 1290a-b (soprattutto quest’ultimo, dove è “democrazia” qualunque regime in cui prevalgano i poveri, e “oligarchia” quello in cui prevalgono i ricchi, a prescindere dall’effettiva consistenza numerica dei due gruppi).

71. Scalfari, “Perché difendo l’oligarchia”: “In sostanza la Chiesa cattolica è sinodale. Potremmo anche chiamare i comitati centrali dei partiti con la parola Sinodo: significano in due diversi casi lo stesso fenomeno oligarchico”.

72. Vari esempi in GEL, s.v. δύναμαι, Α.1. Nel Vecchio Oligarca (Ath. resp. 2, 18) vedi la tripletta gennaioi/plousioi/dynamenoi.

73. GEL, s.v. δύναμαι, Α.1.

74. GEL, s.v. δυνατός.

75. Su questo aspetto vd. le parole di Zagrelbesky nel suo articolo di risposta (“Referendum, tempo di oligarchie e di chiarimenti”) sulla “brutale chiarezza” degli “Antichi” (il passaggio è citato supra, nel testo).

76. Cfr. Lenfant 2017, lii-lvii. Vedi il Vecchio Oligarca in Ath. resp. 1, 5 (“In tutto il mondo l’elemento migliore della società [to beltiston] si oppone alla demokratia”); 1, 14-15; 3, 10-11.

77. Secondo il Vecchio Oligarca (Ath. resp. 2, 14), fra gli Ateniesi, i ricchi e il ceto agrario (plousioi e georgountes) sarebbero più disponibili a un accordo con il nemico (i Peloponnesiaci, in genere retti da regimi oligarchici) al contrario del demos urbano. Anche se la spiegazione che viene fornita per questa differenza di atteggiamento è di tipo economico (i ricchi e i contadini subiscono le devastazioni dell’Attica a opera delle forze nemiche, da cui è esente il demos urbano), l’esito finale è confermare la bipartizione della cittadinanza in due gruppi contrapposti; d’altra parte, il fatto che plousioi e georgountes ateniesi condividano con i Peloponnesiaci la medesima base economica (il possesso terriero) li rende comunque ideologicamente affini.

78. Teognide, 1, 27-38 (in particolare v. 35: “dai nobili [esthloi] imparerai ciò che è nobile [ta esthla]”; 563-566; 1165-1170; cfr. 1, 69-72 e 101-104). Ovviamente (allo scopo di assicurare la chiusura della classe degli agathoi da apporti esterni), il corpus Theognideum insiste sul fatto che chi nasce da kakoi non può che rimanere tale (vd. vv. 437-438; 535-538; lo stesso concetto è implicito in 53-68). In altri termini: se un agathos frequenta i kakoi, perde le sue buone qualità (vd. vv. 35-36: “se ti mescoli ai kakoi, corromperai il tuo spirito”); se un kakos frequenta gli agathoi, il kakos resta tale, e anzi si corre il rischio che egli corrompa gli agathoi e sicuramente che tradisca la fiducia a lui accordata (vv. 61-68; 101-104; 105-112; 103-104; ecc.).

79. Anche l’affermazione del Megabizo erodoteo secondo cui il demos “non conosce nulla di bello [kalon] come cosa familiare [oikeion]” (3, 81, 2: sul passo cfr. Mosconi 2021, 38 e nota 22) sembra alludere al fatto che il demos, non potendo conoscere il kalon per tradizione familiare, ne è escluso in modo irrimediabile. Per una risposta di parte democratica (Epitafio di Pericle) a queste accuse Mosconi 2021, 135-137.

80. Vedi anche quanto il medesimo autore afferma in 1, 6 (citato infra).

81. Teognide 1, 43-52. Agathoi e kakoi, come si è detto, sono etichette nello stesso tempo morali e sociali (Cerri 1968).

82. Su ciò Mosconi 2021 182-185; sulla avidità del demos, che, secondo le fonti antidemocratiche, decide solo in base al proprio vantaggio (individuale o di gruppo) Mosconi 2023, 263-267. Per l’età arcaica, vedi già Teognide 1, 699-718.

83. Aristotele, Politica 3, 1280a15. Tale affermazione è un caso particolare del problema che “un essere umano ha comunque un anima esposta alle passioni” e ciò vale anche per l’individuo più serio e valido fra tutti (spoudaiotatos): è sulla base di tale motivazione che Aristotele respinge l’idea di un governo monarchico, anche se affidato al migliore (Politica 3, 1281a33-35).

84. Ath. resp. 2, 20: αὑτὸν μὲν γὰρ εὖ ποιεῖν παντὶ συγγνώμη ἐστίν.

85. Un sentito ringraziamento va inoltre alla dott.ssa Manola Piras (AGCM), per avermi permesso di reperire alcuni articoli di quotidiano altrimenti inaccessibili a chi scrive.