Premessa
Nel 1837 la marchesa Brigida Fava Ghisilieri Tanari si faceva promotrice a Bologna di un’iniziativa che si richiamava alle moderne teorie educative in voga in quell’Europa erede della tradizione dei Lumi e che apriva, sebbene a piccoli passi, a un nuovo ruolo della donna nella società. Costretta a “rientrare” nel privato delle pareti domestiche, dopo aver conosciuto e sperato nelle idee rivoluzionarie di libertà ed espresso le prime ipotesi egalitarie, all’alba del XIX secolo la donna si vedeva relegata nuovamente al solo ruolo di moglie e madre, secondo i dettami dei codici napoleonici.
Tuttavia, anche all’interno di quella rigida codificazione, le donne seppero ritagliarsi un ruolo, quello di educatrici delle giovani generazioni, un compito che persino i testi religiosi riconoscevano come “innato” alla natura femminile, ma che queste figure seppero interpretare in chiave di emancipazione sociale prima, e politica in un secondo momento.
L’esempio delle “sale d’asilo”, e con esso lo sviluppo che assunse l’educazione delle giovani generazioni, può essere considerato un esempio del passaggio, nell’Europa occidentale, da una società di ancien Régime a una società moderna, dove non solo la donna, ma anche l’infanzia, andavano assumendo progressivamente significati e ruoli diversi e nuovi, fissando alcuni di quei principi che sarebbero stati alla base delle moderne idee di protezione sociale [Caroli 2014].
Alle radici del modello europeo
Nel contesto europeo l’insegnamento pre-scolare si presentò, sin dalle sue origini alla fine del XVIII secolo, sotto una doppia valenza: da un lato in qualità di istituzione educativa, dall’altro come modello di garderie, destinato ad aiutare le madri lavoratrici. Scuole per l’infanzia sorsero in molti paesi europei fin dal XVIII secolo, al fine di accogliere bambini bisognosi e impartire loro una prima educazione. Alla base di queste esperienze vi erano notabili locali, ospizi o congregazioni di carità. Ne è un esempio la sala aperta nel 1801 a Parigi da Madame Pastoret, nell’ambito della Societé de charité maternelle, sorta durante l’Ancien Régime al fine di evitare l’abbandono dei bambini. Lo scopo era quello di fornire un aiuto “a domicilio” alle madri povere e bisognose attraverso la creazione di “salles d’hospitalité” per i bambini lattanti. Riaperta a inizio secolo e sostenuta in questo caso da Napoleone I, la Societé istituì, nel 1801, un comitato di “mille dame” guidato da Adélaïde Pastoret, e Madame Dupont de Nemours – erede quest’ultima della tradizione riformista dell’età dei Lumi – allo scopo di agire in tutti i quartieri di Parigi e anche in altre città francesi per la creazione di asili per bambini molto piccoli e portare soccorso a quelle famiglie povere, dove entrambi i genitori lavoravano. Madame Pastoret scelse una suora di carità, sœur Françoise, «à laquelle elle adjoignit une mère de famille qui nourrissait encore, les installa rue de Miromesnil, dans deux grandes pièces bien chauffées, contenant chacune six berceaux, et les équipa de linge, de sucre, etc». I locali potevano accogliere fino a 12 culle, che furono in breve tempo tutte occupate.
Quelques-unes des mères venaient une ou deux fois le jour pour allaiter leurs enfants et les reprenaient le soir, une fois leur travail terminé. Les soins assidus qu’exigeaient ces douze enfants épuisèrent rapidement les forces des deux femmes chargées du service: elles durent bientôt renoncer à cette tâche trop pénible pour elles. Mais cependant Mme Pastoret fit élever jusqu’au dernier les enfants qu’elle avait réunis [1].
Tuttavia si trattò di un esperimento di breve durata poiché quei dodici bambini furono i primi e gli ultimi ad essere accolti nella rue Miromesnil. Altrettanto breve e di portata limitata fu l’esperimento avviato nel 1802 dalla principessa Pauline de Detmold, allo scopo di creare un luogo non solo di accoglienza, ma dove i bambini potessero anche cominciare ad apprendere il ricamo, il canto e alcuni fondamenti religiosi. Restavano comunque esperienze singole e derivanti per la maggior parte da un’idea di carità, perlopiù di matrice religiosa, rivolta alle persone bisognose.
Occorrerà attendere gli anni Venti del XIX secolo per assistere alle prime forme di organizzazione di sale d’asilo. L’impulso venne in questo caso d’Oltremanica: il modello adottato fu infatti quello delle infant school ideate e realizzate nel 1816 da Robert Owen nella sua comunità modello di New Lanark vicino a Glasgow. Nel 1826 la parigina Societé de la morale chrétienne, un’organizzazione filantropica di tendenze liberali che riuniva l’élite aristocratica e la nascente borghesia liberale della capitale francese, e su pressione anche di Emilie Mallet – sposa di un banchiere protestante e giovane madre – diede vita a Parigi alla prima sala d’asilo. La seconda sorgerà due anni più tardi, nel 1828, per desiderio questa volta del notabile cattolico Jean-Denis Cochin, parente del fondatore dell’omonimo ospedale e sindaco del XII arrondissement. Rientrato da un viaggio in Inghilterra e impressionato dalle condizioni di indigenza e abbandono delle famiglie del quartiere più povero della capitale [Démier 2005], Cochin decise di aprire questa istituzione «pour suppléer aux soins, aux impressions, aux enseignements que chaque enfant devrait recevoir de la présence, de l’exemple et des paroles de sa mère, qu’il a paru nécessaire d’ouvrir des salles d’hospitalité et d’éducation en faveur du premier âge» [Cochin 1834, 23]. Poste in un primo momento sotto la direzione di un “comitato di dame” e finanziate dalla carità privata e dai comuni, le sale d’asilo si andarono progressivamente sviluppando in altri luoghi della capitale e in tutto il paese. Nel 1837 se ne contavano già 260, sparse in tutte le principali città francesi, in grado di accogliere 30000 bambini. Lo Stato decise allora di assumerne la direzione e di porle sotto il controllo del ministero della Pubblica Istruzione: a partire da questa data di fatto l’autorità pubblica andò progressivamente sostituendosi a quella di patronato. Questa “tutela ufficiale” determinò anche un progressivo inquadramento professionale con la creazione di un corpo di istitutrici e la formazione di una Scuola Normale delle sale d’asilo nel 1847. Con l’ordinanza del 1837 venne di fatto riconosciuto uno statuto ufficiale alle sale d’asilo, che assunsero il carattere di: «stabilimenti caritatevoli dove i bambini di entrambi i sessi possono essere ammessi per ricevere una sorveglianza e cura materne e una prima forma di educazione» [Léon 2012, 75].
Oltre all’indubbio valore sociale di queste prime esperienze, risulta però interessante cogliere la “filosofia” che ne stava alla base e che Cochin stesso teorizzava nel Manuel des salles d’asile pubblicato nel 1834 e dedicato dall’autore «aux petits enfans, a leurs mères, aux autorités publique chargées de les proteger».
Elles sont à la fois Maisons d’hospitalité et d’éducation; elles concourent au bien-être et à l’instruction de l’enfance; elles préparent tous les autres genres d’instruction, et par conséquent elles appartiennent à tout le système de l’éducation publique. [Cochin 1834, 35]
Le sale d’asilo, che andarono sviluppandosi nella Parigi della prima metà del XIX secolo, rispondevano alle esigenze di una società in mutamento in seguito allo sviluppo della piccola impresa e del lavoro artigianale ed ebbero dunque di fatto come base per la loro creazione alcuni motivi generali di fondo. In primo luogo portare assistenza alle madri povere che, obbligate a lavorare, non sapevano dove lasciare i loro figli e al tempo stesso formare i bambini delle classi disagiate evitando di lasciarli a vagabondare per le strade. Il destino delle donne e quello dei bambini sembrava destinato a procedere sempre più su un piano parallelo.
In generale la creazione delle sale d’asilo determinò anche il passaggio a un nuovo modello di assistenza verso le classi più bisognose e rinnovò al contempo il concetto di carità cristiana a favore di una nuova filosofia riformatrice tipica della classe politica della Restaurazione. Consapevole delle esigenze moderne derivate dalla nuova “questione sociale”, questa élite di inizio secolo, erede della filosofia dei Lumi, si diede come obiettivo più ambizioso quello di una riforma profonda della società. Il riformatore della Francia della Restaurazione doveva essere un filantropo, un benefattore, un uomo moderno, attento ai nuovi mali della società. Da qui prendeva corpo anche il rinnovamento delle forme di assistenza ospedaliere: finita la carità cristiana che voleva i poveri “rinchiusi” all’Ospedale generale o nei ricoveri di mendicità, si avviò la creazione di nuove istituzioni che possiamo leggere come avvio del sistema ospedaliero moderno. Il borghese filantropo, erede dell’Illuminismo, non ricercava inoltre nella beneficenza il perdono dai peccati, ma intendeva creare una società nuova, dove la filantropia non doveva essere unicamente espressione della religione cattolica, ma che si voleva multiconfessionale, se non addirittura laica. Una sintesi di questa filosofia sociale è riassunta nel testo del 1820 di Joseph-Marie de Gérando, dal titolo Le Visiteur du Pauvre, in cui l’autore, linguista e filantropo, tracciava le linee guida per il “moderno benefattore”:
Donner, c’est aimer. Recevoir c’est apprendre à aimer…
L’intention de la Providence est donc manifeste: elle a voulu que la plus aimable comme la plus noble des vertus présidat à cette seconde alliance: que le malheur fût placé sous le patronage de la prospérité. Elle a voulu que la société fut contituée moralement comme la famille: que dans l’une comme dans l’autre, le faible appartînt au fort titre d’adoption, avec la seule difference que, dans la première, la partenité est libre et volontaire. La pauvreté est à la richesse ce que l’enfance est à l’âge mûr. [Gérando 1820, 158] [2]
Si teorizzava così una forma di carità nuova, tutelare, personale, ma soprattutto attiva e prolungata nel tempo e definita come patronage. Un’attività che sembrava anche assumere i connotati di una forma di sociabilità all’interno della quale anche le donne seppero ritagliarsi un ruolo attivo. “Ricondotte” nella sfera del privato dai codici napoleonici, furono “riabilitate” grazie a una moderna interpretazione del ruolo di madre educatrice. Un ruolo fondamentale sottolineato dallo stesso Cochin nel Manuel des fondateurs et des directeurs des premières écoles de l’enfance sin dalle prime pagine. Poiché lo scopo principale delle sale d’asilo doveva essere quello di fornire un’istruzione morale e religiosa, improntata ai valori del sacrificio, della virtù e della carità, si doveva forzatamente fare affidamento su quel sesso «qui reçut en partage le don incomparable de l’amour maternel» [Cochin 1834, 16]. Dunque: «les Salles d’Asile devant etre toujours dirigées par des femmes» [17]. Nonostante l’aspetto ancora legato a modelli paternalistici tipici della società del primo Ottocento è indubbio che queste “dame” dell’alta società, che si impegnarono in prima persona per migliorare le condizioni dei più bisognosi, furono delle “pioniere”, per le quali la militanza filantropica assunse anche una funzione emancipatrice.
Interessante poi l’analisi che si trova alla base della “filosofia” di Cochin, a metà tra morale cristiana e riconoscimento di un mutamento sociale, che “costringeva” in un certo senso la società ad ammettere un bisogno per le donne delle classi più povere di lavorare per contribuire all’economia della famiglia. Se da un lato l’autore sosteneva il “ruolo naturale” delle donne come educatrici dei giovani, dall’altro questo ordine naturale cristianamente definito doveva essere sottoposto alle regole di una società moderna, che le vedeva costrette «à partager les travaux industriels de leurs maris» [25]. Da qui la necessità di trovare il modo di impedire ai bambini di divenire vittime del vagabondaggio o dell’isolamento: «c’est pour suppléer aux soins, aux impressions, aux enseignements que chaque enfant devrait recevoir de la présence, de l’exemple et des paroles de sa mère, qu’il a paru nécessaire d’ouvrir des salles d’hospitalité et d’éducation en faveur du premier age» [26].
In questo desiderio di aiutare le classi più bisognose e di assistere l’infanzia ci si rese progressivamente conto che tra la fase di aiuto alle puerpere e l’accesso alle sale d’asilo restava comunque un vuoto che di fatto “abbandonava” i bambini neonati: quelli da zero a due anni (età a partire dalla quale potevano accedere alle sale d’asilo). Per sopperire a questa mancanza intervenne il sindaco del primo arrondissement di Parigi, Firmin Marbeau, il quale diede vita a un comitato – in questo caso composto da soli uomini – e avviò una collaborazione con il parroco della parrocchia di Saint Pierre de Chaillot, che portò, nel 1844, alla creazione della prima crèche (letteralmente “mangiatoia”, più ampiamente “presepe”): «douze berceaux, quelques chaises, quelques petits fauteuils, un Christ, un cadre sur lequel estaffiché le règlement, voilà de quoi se composait le mobilier de la Crèche!» [Marbeau 1845, 40] [3]. Il modello scelto fu in questo caso quello avviato nel 1837 in Germania da Friedrich Froebel. Discepolo di Rousseau, Froebel ne condivideva l’idea del bambino creativo e l’importanza del gioco e aveva voluto ideare dei luoghi in cui le madri potessero lasciare i bambini e recuperarli dopo il lavoro. Il modello imitato a Parigi da Marbeau si iscriveva dunque a pieno titolo in quell’idea di beneficenza moderna, che alla nuova visione del “buon povero” aggiungeva un significato socio-economico al fine di trovare soluzioni moderne alla miseria sociale. Le crèches di Marbeau diventarono in breve tempo uno strumento di pace sociale che non rinunciava però all’appoggio della Chiesa – anzi nel caso delle crèches si fece ampio ricorso a un linguaggio e a una simbologia biblica – ma che si iscriveva pienamente nella società proto-industriale moderna. Così riassume l’obiettivo del suo progetto lo stesso Marbeau:
Diminuer les ravages de la misère; faciliter le travail; épurer le sang et les moeurs de la classe indigente; augmenter le nombre des mariages, diminuer celui des enfants trouvés, des enfants illégitimes; prolonger la vie moyenne, en réduisant la moralité des enfants pauvres; donner une impulsion nouvelle à la charité: c’est accroître le bonheur social. [Marbeau 1845, 110]
A queste motivazioni di matrice prevalentemente sociale va tuttavia aggiunto un interesse sempre crescente per i problemi dell’infanzia, dove ad elementi di protezione sociale andarono progressivamente unendosi il riconoscimento di un ruolo decisivo delle giovani generazioni per il futuro della società e dunque la necessità di fornire loro fin da piccoli, una prima forma di educazione, un’esigenza che assunse tratti sempre più significativi a partire dalla seconda metà del secolo [Luc 1997].
Gli sviluppi dell’interesse per l’infanzia nella penisola italiana
Il modello italiano si richiamò in maniera esplicita a quelli avviati negli altri Stati europei nel corso della prima metà del XIX secolo.
Nel nostro paese ne fu ideatore il sacerdote Ferrante Aporti, il quale nel 1828 a Cremona avviò le prime “scuole infantili” per i bambini bisognosi cui scopo era quello di occuparsi dell’educazione dei bambini della classi povere in città come nelle campagne, portando loro un «nutrimento materiale e spirituale» [Becchi, Ferrari 2009; Bressan 1998]. Scopo di questi istituti di carità era quello di «preservare» la società dai mali che sarebbero derivati da un’infanzia abbandonata al vizio ed all’ozio, cause primordiali dei mali della società. Questo modello, alla base di ulteriori esperimenti in altre città italiane nella prima metà del XIX secolo riservava alle donne “bennate” un ruolo di primo piano. Le Dame visitatrici, ispirate anch’esse ai precedenti modelli europei, erano donne della buona società, esponenti delle classi agiate, che, facendo appello al loro “naturale” ruolo di educatrici, dedicavano parte del loro tempo a queste opere caritative. La figura della “visitatrice” o “dama di carità”, venne istituzionalizzata a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento: scelte tra le appartenenti alle famiglie benestanti della città, avevano il ruolo di “controllo” sulle istituzioni infantili al fine di vigilare «sulla rigorosa applicazione dei metodi d’insegnamento dalla direzione prescritti» [Morandi 2013, 47-59]. Si trattava certo di un’estensione del materno nella società civile che attribuiva alle donne quel ruolo di “maternità sociale” che, per quanto non contribuisse in modo particolare a emancipare la posizione femminile, finì comunque per rappresentare un elemento importante per la crescita della consapevolezza di un ruolo della donna nella società al di fuori delle pareti domestiche [Cagnolati 2012].
L’esempio di Cremona non fu un caso isolato e sale d’asilo si formarono progressivamente in altre città italiane. In alcuni casi l’iniziativa partì anche da quelle stesse donne “bennate”, cui era di fatto riservato unicamente un ruolo di “materna supervisione”.
Ne è un esempio l’esperienza bolognese, dove a farsi promotrice della creazione delle moderne Sale d’asilo, fu la marchesa Brigida Fava Ghisilieri Tanari.
Brigida nacque nel 1802 dal marchese Nicolò Fava Ghisilieri e dalla marchesa Gaetana Marescotti Berselli; giovanissima, all’età di sedici anni, andò in sposa al marchese Giuseppe Tanari e si trasferì con lui nel palazzo Tanari in via Galliera [Musiani 2003]. Donna colta che aveva appreso dal padre non solo i rudimenti dell’educazione riservate alle giovani signorine della buona società, ma anche il latino e alcune lingue straniere, utili per la “gentile conversazione” e in particolare il tedesco, poiché lo zio materno Giuseppe Marescotti era generale al servizio dell’Elettore di Assia Cassel. Nel 1828 la marchesa si recò di persona alla corte dell’Elettrice, dove rimase per quasi un anno, perfezionando la sua conoscenza delle opere di Goethe, Schiller e Schelling e venendo a contatto anche con quelle moderne esperienze di sale d’asilo che non avrebbe tardato a ripetere nella città felsinea. Il suo salotto di via Galliera divenne in breve tempo un luogo di incontro e discussione dell’aristocrazia e della nascente borghesia liberale. Brigida Tanari fu una delle protagoniste della stagione delle rivoluzioni e del Risorgimento bolognese: nel 1831 sostenne la creazione del Governo della Provincie Unite e in seguito alla restaurazione del governo pontificio aiutò gran parte dei proscritti ad emigrare e per questo venne ricordata da Giuseppe Mazzini come «la donna più benemerita della patria nello Stato Romano» [4].
La modernità delle idee della marchesa non tardò a evidenziarsi anche nelle attitudini verso la “questione” sociale: fu lei a farsi promotrice nella città felsinea delle moderne sale d’asilo. Per sostenere la creazione degli asili e dimostrare al contempo la necessità dell’impegno femminile in questa attività a Bologna si formò nel 1836 una Società di lavoro in favore delle scuole infantili [5], il cui scopo principale era appunto di mostrare «i vantaggi materiali e morali che possono derivare da una Società di donne che si riuniscono per lavorare in pro dè bambini poveri accolti nelle scuole infantili» [6]. Leggendone i Regolamenti si possono cogliere gli elementi estremamente innovativi dell’esperienza bolognese [Cagnolati 2011]. Il testo, pubblicato nel 1836, anche se non firmato, fu sicuramente redatto da quelle stesse dame che erano alla base dell’iniziativa: Brigida Tanari, Emilia Rossi Marsili, Luigia Boschi, vedova Mosca, Paolina Trionfi Ranuzzi, Lucia Manfredini Sacchetti, Aurelia Silvani, Maddalena Marliani tutte rappresentanti l’élite progressista della città e a cui si unì anche Rosa Minghetti, madre del futuro primo ministro del Regno. La modernità del testo si rivela nel desiderio, espresso sin dalle prime righe, di voler dare vita a un’esperienza di gruppo, non derivante cioè dalla carità di singole iniziative.
Il primo vantaggio adunque della società sarà il poter fare con economia una limosina più grande: e mentre una donna disposta a contribuire per quel che può a questa pia opera, si disanimerebbe pensando che il suo piccolo sacrifizio gioverebbe a ben poco; unita ad altre, si incoraggisce e si consola vedendo quanto bene si verrà facendo con piccolo incomodo di tutte [Regolamenti... 1837, 4].
Significativo inoltre l’aspetto che questa aggregazione doveva avere: un’associazione certo sorta sul modello di altre precedentemente costituite in Europa, in cui tuttavia l’elemento predominate era il femminile, e anche se si trattava di un femminile materno, non va comunque sottovalutato il valore emancipatorio che questa proposta poteva avere, almeno sul piano sociale. Quell’attività di cura che la donna doveva compiere per i suoi figli, all’interno della sua famiglia, poteva assumere un valore più ampio di “cura sociale” e di «Caring Power», come definito dalla più moderna storiografia [Clark 2008; Bock, Thane 1991].
I sacri vincoli di madre e figlia, di sorelle, di amiche non riceveranno essi una forza maggiore da simili conferenze, quando appunto un medesimo, un solo pensiero, un pensiero positivo, a cui tutti ricongiungono il proprio, ne sarà l’anima e il fondamento? E questo pensiero quale si è? un atto di beneficenza! [Regolamenti... 1837, 7]
All’introduzione esplicativa, seguiva poi il vero e proprio Regolamento per una Società di Lavoro per rivestire i Bambini poveri degli Asili Infantili:
1. Una Società di Signore si riunisce per lavorare all’oggetto di rivestire i bambini poveri delle Sale d’Asilo.
2. Le Signore che compongono la Società devono determinare uno o due giorni della settimana per riunirsi a lavorare.
3. I fondi della Società si compongono principalmente della contribuzione che ciascuna Signora dovrà pagare per essere addetta alla Società.
4. Le Signore della Società si impegnano, quando la cassa sia vuota, di provvedere ai fondi necessari sia per mezzo di contribuzioni volontarie, sia interessando i loro Parenti ed Amici a fare qualche offerta o in denari o in roba alla Società di lavoro.
5. La Società si rinnoverà ogni anno, e comincerà le sue sedute alla metà del mese di Novembre per continuare fino alla fine d’Aprile. […]
7. La Società avanti di mettersi in vacanze, si impegna a fornire il necessario, e a provvedere, affinché prima del rigore dell’inverno seguente possano essere dispensate le calzine di lana o altro ai bambini delle scuole. […]
9. Ciascuna Signora che lavora dovrà portare il suo anello, e le cesoie. Gli aghi, gli spilli, ed ogni altra fornitura necessaria al lavoro sarà provveduta cò fondi della Società. […]
11. Quando i bisogni più urgenti degli Asili saranno soddisfatti, potrà essere provveduto ancora a rivestire un qualche altro bambino disgraziato; […]. [7]
Seguiva poi la distribuzione dei compiti fra le dame: occorreva una Cassiera, che riceveva e teneva in deposito i soldi; una Fornitrice, cui spettava il compito di comprare quanto necessario per il lavoro e la Preparatrice, la quale doveva «preparare, tagliare, e distribuire il lavoro alle Signore della Società» [11].
Al fine di raccogliere denaro e sostegno alla causa degli asili le fondatrici decisero di pubblicare una piccola collezione di scritti dal titolo Il Buon Mattino. Augurio per l’anno 1837, comprendente saggi di diversi autori, che fecero pervenire a circa 2000 dame, scelte tra le più autorevoli e facoltose della città. L’insieme dei brani scelti dalle nobildonne bolognesi metteva in primo piano un saggio di Raffaele Lambruschini – abate liberale le cui idee in materia di religione ed educazione erano per l’epoca talmente audaci da rasentare a volte l’eresia – sull’utilità della cooperazione delle donne bennate al buon andamento della scuole infantili che bene rappresentava quella “nuova missione” sociale della donna.
Alla donna è confidato l’avvenire della società; a lei s’aspetta di dissipare le tempeste che ci mugghiano dintorno; a lei di frapporre in mezzo a tanti elementi che ondeggiano, che si urtano, che si rispingono, un’azione amica che li attiri, li disponga, li colleghi, e desti in loro la vita; alla donna, di rigenerare la società facendosi la soccorritrice e l’educatrice del popolo [Lambruschini 1837, 19].
L’iniziativa suscitò notevole clamore in città, dove l’autorità pontificia non vedeva di buon occhio un’iniziativa femminile troppo moderna e che si poneva in diretta concorrenza con le istituzioni caritatevoli derivanti direttamente dalle congregazioni. Certamente non aiutò la causa delle Signore bolognesi il fatto che tra i brani scelti vi fossero anche quattro brani di Silvio Pellico e fu così che l’autorità romana arrestò l’iniziativa prima ancora che si potesse dare vita a una di queste sale d’asilo [8]. Fu solo dieci anni più tardi, nel 1847, che si assistette a Bologna alla nascita del primo asilo di impronta aportiana, per iniziativa questa volta di un uomo, il conte Carlo Marsili, il quale riuscì a ottenere formale approvazione dell’Arcivescovo [9]. Gli Asili bolognesi potevano accogliere i «fanciulli poveri» di età «non minore di anni quattro e non maggiore di anni sei» i quali potevano rimanere nell’istituzione «sino agli anni otto, e non più oltre». Scopo primo dell’istituzione era quello di «curare la sanità e vigoria del loro corpo, educarli alla religione ed alla morale, informarli alle abitudini di ordine e lavoro» [10].
Chiusa l’esperienza della marchesa Tanari, l’amministrazione degli Asili Infantili prevedeva unicamente una gestione “maschile”, anche se tra i principali sostenitori troviamo esponenti del liberalismo bolognese, tra cui anche Luigi Tanari, figlio di Brigida. Alle donne veniva riservato un ruolo di aiuto e supporto: erano previste «Tre Signore» che dovevano occuparsi «esclusivamente dei divertimenti o altri mezzi pubblici o privati per accrescere la rendita degli Asili stessi». [11] Era inoltre prevista anche una «Direttrice», cui spettava il compito di partecipare al Consiglio direttivo dell’istituzione e come compiti precisi quelli di
sorveglianza ai due Asili onde tutto proceda regolarmente, d’accordo con le Signore Visitatrici ed Ispettori. Dovrà poi curare soprattutto i lavori che i fanciulli debbono fare, e se oltre quelli in uso, ve ne siano altri da proporre. Sorveglierà poi il guardarobba procurando venga completato o con offerte caritatevoli, o con spesa da sostenersi dalla Cassa ed enciò se la intenderà coll’Economo e con la Maestra […] infine procurerà che non manchi mai una Signora di turno e qualora dovesse mancare farà in modo di supplirvi con altra da lei ufficiata. Terrà fermo perché sia frai stipendiati la maggior armonia e perché i metodi in corso siano strettamente osservati proponendo anche quei miglioramenti che credesse utili [12].
Al solito il ruolo riservato alle donne restava limitato a quello di cura e sorveglianza, o alla raccolta di fondi per il sostegno della causa, tuttavia è innegabile che questa presenza femminile rimase assai forte e attiva nella Bologna risorgimentale prima e unitaria poi.
Non mancarono poi altri esempi di donne attive nella ricerca di nuove forme di assistenza e attenzione verso la società e la condizione dei più bisognosi, sul modello di quanto accadeva nei vicini paesi europei. Un esempio fra tutti quello di Laura Solera Mantegazza, madre del più “famoso” Paolo, futuro autore di alcuni dei “manuali di comportamento” per le giovani fanciulle destinati a diventare best-sellers dell’Italia del secondo Ottocento.
Nata a Milano nel 1813 da una famiglia della buona borghesia, Laura, come Brigida, fu una delle protagoniste della lotta per il Risorgimento nazionale. In seguito al fallimento della rivoluzione del 1848 ed alla delusione per le sorti della causa nazionale, la Mantegazza decise di dedicarsi alla cura dei più bisognosi ed alle condizioni di vita deplorevoli in cui versava quella classe operaia, cresciuta in modo esponenziale nella capitale lombarda. In particolare fu colpita dalla necessità delle madri lavoratrici, spesso costrette ad abbandonare i nascituri alla “ruota”. Essendo venuta a conoscenza dell’esperienza francese delle crèches, Laura chiese e ottenne, nonostante l’iniziale ostilità delle autorità ecclesiastiche, il permesso di ripeterne l’esperienza a Milano. L’autorizzazione delle autorità austriache giunse il 17 giugno 1850; a partire da quella data la Mantegazza avviò, in alcuni locali attigui alla sua abitazione, il primo Pio Ricovero per bambini lattanti e slattati. Vi erano ammessi bambini da 15 giorni a due anni e mezzo e ben presto dalla semplice cura si passò all’organizzazione di corsi di taglio e cucito. Un secondo asilo fu aperto nel 1851 e ben presto si raggiunse la cifra di 200 bambini accolti. Il novello Regno d’Italia recepì l’istituzione, che nel 1866 fu costituita in ente morale come «Pio istituto di Maternità e Ricovero per bambini lattanti e slattati» [Mantegazza 1876].
Alcuni spunti di riflessione emergono dal confronto fra queste esperienze. Da un lato è evidente come il modello europeo, che andò diffondendosi nella prima metà del secolo, prese sviluppo dalle idee di educazione ed emancipazione della società frutto della stagione dell’Illuminismo e del primo Romanticismo, rappresentato in primo luogo da Rousseau. Dall’altro, rimanendo nei confini italiani, non si può non accennare a una serie di “reti” di azione, che andarono intessendosi sulla base di queste nuove esperienze. Seppur sofferenti per una divisione politica e territoriale, in Italia alcune realtà sociali seppero dar prova di un’unità di idee e di intenti particolari, in grado di sopravvivere alla stagione delle lotte risorgimentali e divenire elementi fondanti del nuovo Stato unitario. Una in particolare è rappresentata da una rete di relazioni femminile particolarmente attiva nella ricerca di progresso sociale rivolto agli strati più deboli della società, cui spesso le donne erano assimilate, in particolare perché escluse della decisione politica, ma da cui seppero uscire per ritagliarsi un ruolo dapprima “privato”, poi pubblico. Un esempio fra tutti: nel 1881 la Società artigiana femminile di Bologna diede vita a un Asilo per i bambini lattanti, promosso, allo scopo di «custodire e curare i bambini in quelle ore della giornata, nelle quali le loro madri lavorano fuori della propria abitazione» [13], mentre contemporaneamente nella Società Operaia si avviava uno dei primi giardini d’infanzia ispirato alle teorie dell’educatore tedesco Friedrich Froebel [Maragi 1970]. Lo Statuto di quest’ultima venne redatto dal professor Luigi D’Apel «col concorso della signora contesa Augusta Malvezzi Tanari e signora Costanza Gibelli Mantegazza» [20]. Figlia la prima di Brigida Tanari e la seconda di Laura Solera e degne eredi della tradizione del primo Ottocento.
Verso nuovi protagonismi femminili
«Dalla carità a una politica sociale». Questa frase, pronunciata in occasione del decimo Congrès Internationale des Femmes, Oeuvres et Institutions Féminines svoltosi a Parigi nel 1913 testimonia di un passaggio avvenuto in queste forme di assistenza, verso la nascita di forme di previdenza sociale che segnarono anche l’evoluzione dalla società tardo-ottocentesca a quella del nuovo secolo. Gli esempi degli asili della Società Artigiana e dell’Operaia di Bologna si inseriscono all’interno del mondo delle società di mutuo soccorso. Fenomeno sviluppatosi in Italia già negli anni Quaranta dell’Ottocento – su modello delle precedenti esperienze inglesi e francesi – con la creazione di sodalizi maschili, le società di mutuo soccorso divennero presto un fenomeno diffuso su tutto il territorio nazionale e videro crescere la presenza femminile. Fu già a partire dalla seconda metà del XIX secolo che si assistette alla creazione di società femminili, che inizialmente sorsero come sezioni dei corrispondenti sodalizi maschili ma che andarono poi sviluppandosi in modo sempre più autonomo. Gli interventi propri di queste associazioni riguardarono l’assistenza alle madri, ma anche l’organizzazione di corsi di cucito e maglieria, in un’ottica di progressiva emancipazione economica. Se questi primi esempi di assistenza possono di fatto essere assimilati a un discorso legato ancora all’assistenzialismo e al patronage di matrice ottocentesca – presidentesse delle Società di mutuo soccorso femminili erano del resto quelle stesse mogli e madri dei membri dell’aristocrazia o dell’alta borghesia cittadina – esse aprirono di fatto la strada a nuove forme di rivendicazione e lotta per la conquista dei principali diritti civili e politici. Questo passaggio, che per la Francia ad esempio si può far risalire agli anni Quaranta del XIX secolo mentre per il nostro paese è figlio della seconda metà dell’Ottocento, segnò la fine della filantropia di matrice Illuministica. Una filantropia che fu inventiva, creatrice e pioniera, capace di creare opere ed associazioni in grado di sopperire la mancanza dell’azione pubblica e che mutò progressivamente nel corso della prima metà del XIX secolo, di pari passo con una nuova visione del povero che, per lungo tempo giudicato secondo i criteri della morale cristiana, divenne simbolo di una “patologia” della miseria. Il passaggio da una morale cristiana a una laica, dal filantropismo all’assistenza municipale e pubblica, segnò i primi passi verso lo sviluppo di una moderna forma di protezione sociale, come affermato con lungimiranza dalle donne riunite nel congresso di Parigi del 1913.
Vi è tuttavia un ulteriore aspetto derivante da questa evoluzione: l’attenzione rivolta all’infanzia ha indubbiamente condotto a una progressiva enfatizzazione del ruolo delle donne. Ancora una volta il confronto con l’Europa consente di comprendere al meglio questa evoluzione. Fu a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento che in Francia la classe dirigente cominciò a porsi il problema dello sfruttamento del lavoro minorile e a porre le basi per una legislazione volta a ridurre gli orari di lavoro per i bambini. È significativo il fatto che, nell’elaborazione di questa strategia legislativa, gli aspetti del lavoro dei minori furono progressivamente trattati dal legislatore in relazione alla regolamentazione del lavoro femminile. Anche in Italia, quando si cominciò a discutere di una legislazione sociale, le donne e i minori furono progressivamente associati. E se ancora la legge del 1886, sul lavoro dei fanciulli [14], escludeva le norme a tutela delle lavoratrici, quella successiva del 9 giugno 1902, vedeva per la prima volta prima disciplinato l’apporto della manodopera femminile, accomunato a quello infantile, anche se secondo i principi di una forma di protezione di tipo igienico-sanitario [Ballestrero 1979].
Si trattò, in Europa come nel nostro paese, del punto di partenza di uno sviluppo che andò definendo la logica di una forma di protezione sociale che dai bambini fu sempre maggiormente estesa alle donne e, più tardivamente, agli uomini, e che segnò la nascita del Welfare State.
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Note
1. Societé de charité maternelle 1816, Almanach Royal, Paris: chez Testu.
2. Cfr. anche Duprat 1997.
3. Cfr. anche Bouve 2010.
4. Di una illustre donna bolognese, in Rocchi 1928, 7.
5. Cfr. La questione delle scuole infantili e dell’abate Aporti secondo nuovi documenti, «La civiltà cattolica», 1928, vol. III: 219-232.
6. Regolamenti per una società di lavoro in favore delle scuole infantili, 1836.
7. Ivi, 9.
8. La marchesa Tanari non cessò tuttavia di occuparsi delle fanciulle; fu forse grazie a questo suo interesse che nel 1870 ottenne dal ministro Correnti l’incarico di Ispettrice per le scuole femminili dell’Alta Italia, incarico che la Marchesa accettò nonostante l’età ormai avanzata.
9. Cfr. Monografia degli asili infantili di carità in Bologna, Bologna, Regia Tipografia, 1882; Istituzione Asili Infantili di Bologna, Bologna, Alberto Perdisia editore, 2005.
10. Istituzione delle Scuole infantili in Bologna. Programma, Bologna, 1847, 24.
11. Archivio dell’Istituzione degli Asili Infantili di Bologna, Tit. IX, art. II, Verbali dal 18 novembre 1856 al 19 aprile 1861, vol. I, seduta del 19 giugno 1858.
12. Ivi, seduta del 3 luglio 1858.
13. Statuto per l’asilo dei bambini lattanti, Bologna, Società Tipografica Azzoguidi, 1881, 5.
14. Primo esempio nel nostro paese di legislazione sociale che prevedeva l’intervento dello Stato nella contrattazione con privati.