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Risorgimento e cinema italiano del dopoguerra

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Il rapporto del cinema italiano col Risorgimento è lungo ed estremamente irregolare. Per definirne alcuni caratteri potrebbe essere utile partire dal fondo, dall'incontro più recente. L'ultimo grande film dedicato alla formazione dell'Italia come entità non unicamente geografica è Noi credevamo di Mario Martone, presentato in concorso al LXVI Festival di Venezia. Noi credevamo è una ricostruzione epica, ma allo stesso tempo frammentaria e laterale, di circa quarant'anni di lotte di indipendenza. Il film copre un arco temporale che parte dai moti carbonari del 1828 nel Regno di Napoli e arriva alla disillusione per le promesse mancate nel decennio postunitario. Il racconto è filtrato attraverso lo sguardo di tre personaggi di fantasia, tre giovani meridionali che nel loro tragitto di cospiratori, rivoltosi, esuli, combattenti, incontrano però reali protagonisti dell'epoca, inseriti in eventi storicamente documentati o comunque verosimili: Francesco Crispi, Giuseppe Garibaldi, Felice Orsini, Giuseppe Mazzini, Cristina di Belgiojoso.

Il regista Martone evita le attrattive spettacolari solitamente fornite dal film storico: non ci sono battaglie di massa, balli sfarzosi o interni d'epoca. La ricostruzione ambientale del film è molto attenta, concentrata nella definizione dello spazio minimo necessario ai personaggi per interagire tra di loro. Eppure, in un paio momenti, gli spettatori sono portati a voltarsi sorpresi. Nella seconda metà del film in particolare, nel segmento dedicato alla controversa spedizione garibaldina del 1862, i personaggi del film sono messi a contatto con elementi paesaggistici e architettonici palesemente incongrui perché riconoscibili come contemporanei (un cavalcavia, una struttura incompleta in cemento armato...). Difficile che si tratti di sviste, dal momento che la macchina da presa indugia più volte in quelle inquadrature. Che senso hanno allora i volontari garibaldini sotto il ponte di calcestruzzo?

Potremmo dire che Martone rende esplicito, in modo trasparente e provocatoriamente “facile”, un elemento di solito latente nei film sul Risorgimento e al racconto delle guerre di indipendenza: l'uso della storia nazionale come pretesto e come metafora. Oppure, per dirla in termini un po' brutali: la tendenza a raccontare il Risorgimento (ma lo stesso si potrebbe dire per altre epoche “sensibili”) per parlare d'altro, di oggi o al massimo di ieri. In filigrana, nelle rappresentazioni del Risorgimento, si indovinano spesso riferimenti agli esiti della Seconda Guerra Mondiale, alla crisi delle sinistre negli anni successivi alla contestazione, al cosiddetto riflusso, alla contemporaneità in senso stretto. Gli esempi in questa direzione sono molti e ci permettono di ripercorrere a ritroso il cinema italiano, almeno fino all'immediato dopoguerra.

In Noi credevamo i rimandi al presente e al passato recente fanno leva su una raffigurazione del processo unitario come “rivoluzione mancata”, catalizzatrice di fratture impossibili da ricomporre completamente, ma anche di scelte dal profondo valore generazionale. Il Risorgimento è presentato come momento di aggregazione in questo senso in un film che poco ha a che vedere con quello di Martone, per toni e per struttura: Domani accadrà (1988) di Daniele Luchetti, collocato in un metaforico 1848, nel quale però i protagonisti – a partire dalla guest star Nanni Moretti – richiamano le incertezze della sinistra alle soglie della caduta del Muro di Berlino. Noi credevamo è stato invece regolarmente associato ad Allónsanfan (1974) di Paolo e Vittorio Taviani, film ambientato in realtà negli anni successivi al Congresso di Vienna, ma che mette in scena il passato ricercandovi il “donde” e il “dove” delle questioni che hanno riguardato la sinistra politica del nostro paese. Un film quasi coevo di Florestano Vancini, Bronte – Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972), è difficile da comprendere al di fuori degli anni Settanta e delle pratiche di controinformazione, applicate (già dal titolo) non all'attualità stretta, ma a un episodio poco commendevole della spedizione dei Mille in Sicilia. Restando nello stesso decennio pare indicativo, dal nostro punto di vista, che Dario Argento abbia dedicato al Risorgimento l'unico episodio della sua filmografia slegato dall'immaginazione horror o thriller: Le cinque giornate (1973). La collaborazione al film di due nomi di rilievo della nuova sinistra italiana come Enzo Ungari (coautore del soggetto) e Nanni Balestrini (che firma la sceneggiatura col regista) fuga ogni dubbio sull'intenzionalità dell'accostamento tra il 1848 milanese e la contestazione giovanile.  

Più indietro ancora, nel 1954, uno dei capolavori di Luchino Visconti, Senso, situa una vicenda melodrammatica di amore e di morte nei mesi della fine del dominio austriaco su Venezia. Sono noti gli ostacoli che Visconti incontrò nel tentativo di intitolare il film Custoza, privilegiando quindi il versante storico su quello amoroso. Ma sono note anche le polemiche suscitate all'epoca dal film, nel quale molti scorgevano, dietro la raffigurazione del 1866, più di un'allusione al passato recente e agli esiti controversi della guerra di Liberazione. Dell'altro celeberrimo film di Visconti di ambiente risorgimentale, Il gattopardo (1963), sono più note forse le implicazioni universali («Occorre che tutto cambi...»), in grado di fornire chiavi di lettura per la storia italiana nel suo complesso, che le riflessioni sul momento storico singolare.

Tornando a Senso, il film fu anche pretesto di una battaglia critica molto accesa: quella che si svolse nel 1955 sulle pagine della rivista «Cinema Nuovo» per la definizione della categoria di realismo. Da una parte vi era chi, come Luigi Chiarini, riteneva che Senso tradisse la lezione neorealistica, perché ambientato in un passato lontano e intriso di suggestioni spettacolari ed extracinematografiche. Dall'altra chi, come Guido Aristarco, pensava che, attraverso la messa in scena del Risorgimento, Visconti superasse la descrizione in favore del racconto, la cronaca in favore della Storia.

Di fianco (e non necessariamente in contrapposizione) a questo uso metaforico del passato, come motivazione e come radice del presente, ne esiste un altro, decisamente più ludico e più legato al mezzo come strumento di entertainment. Soprattutto nei primi anni Cinquanta gli eventi legati al processo di unificazione italiana diventano per il cinema italiano un grande serbatoio di figure e di immagini avventurose, il “western della nostra storia patria” come scrive qualcuno con un felice scivolamento dalla storia alla geografia. I titoli in questo caso sono forse meno noti, ma sicuramente curiosi. Pellicole di argomento garibaldino, come Camicie rosse (1952) di Goffredo Alessandrini e Francesco Rosi presentano un ritmo e una definizione dei personaggi ispirati al più celebre genere americano. Esce nello stesso anno Eran trecento di Gian Paolo Callegari, che nelle figure dei reduci dell'insurrezione mazziniana del 1857, asserragliati in montagna in attesa di Garibaldi, rimanda da un lato all'iconografia dei nativi americani del western, dall'altro al ricordo della Resistenza. Gli esempi più trasparenti di commistione tra memorie del western, racconto risorgimentale e allusione al passato recente si trovano ne Il brigante di Tacca del Lupo (1952) di Pietro Germi, ambientato nell'Italia meridionale all'epoca della repressione del brigantaggio da parte dell'esercito unitario. Nel film, che tra i vari titoli di lavorazione ha avuto anche quello di Fratelli d'Italia, Germi istituisce una serie coerente di equivalenze visive e tematiche tra fanteria sabauda e cavalleria statunitense, briganti borbonici e nativi americani (o soldati sudisti), meridione d'Italia e Far West. Le immagini degli ostaggi impiccati dai briganti in fuga, con cartelli infamanti appesi al collo, rimandano però anche in questo caso alla vicina guerra di Liberazione.

Non è questa la sede per sciogliere il nodo che tiene insieme – nell'ambito del cinema italiano – Risorgimento, realismo, storia e identità nazionale. Può essere utile ricordare tuttavia che perfino la più “didattica” tra le opere dedicate al Risorgimento, Viva l'Italia! (1961) di Roberto Rossellini, non è del tutto priva di riferimenti alla storia recente, a partire dalla progressione narrativa che riprende quella di Paisà (1946). E che il più accreditato tra i precursori della stagione neorealista, 1860 (1934) di Alessandro Blasetti, è proprio una rievocazione dell'impresa dei Mille, ma anche un film di aperta propaganda fascista, che nell'epilogo accosta le insegne garibaldine ai fasci littori. Epilogo, per la cronaca, espunto dalle versioni del film rieditate dopo la Seconda Guerra Mondiale.