Il titolo della versione inglese di questo libro è Italian Vices; e in effetti dei vizi tratta l'a., ossia degli aspetti negativi di quel «carattere nazionale» che a partire dall'Illuminismo è stato attribuito agli italiani da filosofi, storici, scienziati, uomini politici e scrittori, nonché - in anni più recenti - da registi ed editorialisti. Dopo aver messo in luce le differenze sostanziali tra il concetto di «carattere nazionale», che si vuole oggettivo e sostanzialmente immutabile nel tempo (se non a prezzo di ardue «rigenerazioni») e quello di «identità nazionale», Patriarca spiega come la disamina dei «vizi» funga in età contemporanea da contraltare dei discorsi «primatistici» e come la sua pratica risulti invero alquanto sovrabbondante nel discorso pubblico del nostro paese.
Dei «vizi italiani» si preoccupavano già i mentori del Risorgimento, pur convinti che tratti come la pigrizia, l'indolenza, la tendenza all'immobilismo fossero il portato di cause storiche e il patrimonio distintivo della componente più anacronistica dell'élite nazionale, e che pertanto potessero essere guariti tramite la grande prova del patriottismo e una vigorosa educazione nazionale. Di questa si preoccuparono intensamente dopo l'Unità intellettuali come De Sanctis e Villari, intenti a introdurre nel sistema formativo nazionale la ginnastica e l'educazione morale, nel tempo stesso in cui riducevano la presenza della religione cattolica. Nell'età dell'imperialismo, però, il discorso sul carattere nazionale si fece più cupo e pessimista, convogliato nella generale disamina di una «razza latina» in grave ritardo nella competizione internazionale per le colonie, e piegata dalla corruzione, dagli scandali, dall'individualismo, e soprattutto dalla «effeminatezza», difetti per i quali non si vedevano vie d'uscita al di fuori di involuzioni autoritarie del sistema istituzionale oppure di «prove» epocali, come furono per i critici contemporanei la guerra di Libia prima, la Grande Guerra poi.
Patriarca segue l'evoluzione del discorso sul carattere nazionale sia nella sua declinazione razzista e antidemocratica, in buona parte destinata a convergere nel fascismo, sia nell'ambito delle ideologie liberali e socialiste, presso le quali - come dimostrano gli scritti di Gobetti e Gramsci - non mancava affatto la preoccupazione per la generale immaturità della società nazionale, dalla quale si salvavano poche «avanguardie» dedite al lavoro, naturalmente disciplinate e pronte a dar vita ad una rivoluzione risolutiva. Così, mentre il malcelato disappunto che Mussolini nutriva nei confronti dei connazionali sfociava nella retorica dell'Uomo Nuovo - e nella speculare caratterizzazione dei suoi «nemici interni», dal borghese vecchio stampo all'ebreo alle femministe di scuola anglosassone -, nel campo antifascista si vagheggiavano rivoluzioni di altro stampo, delle quali la Resistenza sembrò offrire una valida anticipazione. Dell'uno e dell'altro progetto «rigenerazionista», però, doveva rimanere ben poco nel secondo dopoguerra. Da una parte, la fine dell'unità ciellenista pose un termine all'esaltazione della Resistenza come banco di nascita di una nazione nuova, pronta a un cambiamento radicale delle istituzioni e della vita civile. Dall'altra, gli anti-antifascisti stigmatizzarono con una acidità corrosiva le retoriche del coraggio resistenziale e pure quelle, assai edulcorate, dell'italiano «brava gente», destinato a riemergere con intatto candore dalla «parentesi» fascista.
I discorsi sul carattere nazionale e sui «vizi» incorreggibili degli italiani non scomparvero negli anni '50 e '60, quando il cinema, tramite la commedia all'italiana, se ne fece il principale veicolo di rappresentazione (ma, sottolinea l'a., in assenza di propositi educativi). Né scomparve la voce del giornalismo, che dall'inizio del XX secolo si era affermato tra i principali fustigatori del carattere nazionale, ché anzi i grandi opinionisti - Patriarca tratta specialmente di Montanelli e Bocca, voci talvolta convergenti, pur appartenendo a campi politici diversi - non hanno mancato di sottolineare ad ogni occasione come l'immobilismo, l'indolenza, l'inclinazione alla corruttela, il mammismo e il familismo governassero i movimenti della società civile e del suo rapporto con politica e istituzioni.
Il lavoro di Patriarca ricostruisce con una quantità di fonti questo itinerario nella retorica ottocentesca e novecentesca del carattere nazionale, individuando i suoi nessi con le evoluzioni degli scenari politici e i legami con le correnti culturali interne e internazionali; sottolineando i suoi intrecci con le teorie razziste e deterministiche in generale, e i periodici propositi di «rigenerazione» che hanno scandito, fino alla prima metà del '900, l'affermazione di forze intellettuali e politiche nuove sulla scena nazionale. Contrappesi dei presunti «primati» e componenti scomode del «genio» romanticamente inteso, i «vizi» italiani si sono a loro volta affermati lungo un itinerario complesso, nel corso del quale grande rilievo hanno avuto i due conflitti mondiali, le trasformazioni del quadro diplomatico, le congiunture politiche ed economiche. Considerati di volta in volta l'eredità ingombrante di stagioni infelici della vita nazionale, o elementi costitutivi dell'essere italiano, trasmessi tramite i caratteri razziali e l'educazione familiare, i «vizi» sono stati al centro di un nutrito e pluridecennale dibattito, nonostante che di tanto in tanto, nel passato remoto come in quello recente, si siano levate voci a difesa della «italianità» in tutte le sue sfaccettature e desiderose di tacitare una autodenuncia della compagine nazionale che pure, conclude Patriarca, costituisce nelle sue varianti moderate un utile esercizio di civismo democratico, specie nelle nazioni caratterizzate da una realtà statuale relativamente giovane.