Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

“Grande trasformazione” e “rivoluzione commerciale”: la Lucchesia e Lucca tra XII e XIII secolo

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Abstract

Il contributo non si presenta come una vera e propria recensione, ma come un insieme di riflessioni stimolate dal volume di Lorenzo Tabarrini Estate Management around Florence and Lucca 1000-1250. Si propone di mettere in luce alcune novità metodologiche e interpretative che emergono dallo studio, e di suggerire alcune possibili piste di ricerca per il futuro. Tra le questioni sulle quali restano ancora margini di approfondimento è segnalata in particolare quella del rapporto tra la “grande trasformazione” nelle campagne lucchesi e la “rivoluzione commerciale” che la città di Lucca visse esattamente negli stessi decenni. 

This paper is not intended as a review, but rather as a set of reflections stimulated by Lorenzo Tabarrini’s volume Estate Management around Florence and Lucca 1000-1250. In particular, it aims to highlight some new methodological and interpretative achievements that emerge from the book, and to suggest some possible research avenues for the future. Among the questions on which there is still room for further investigation is that of the relationship between the “great transformation” in the countryside and the “commercial revolution” that the city of Lucca experienced in exactly the same decades. 

Nel suo intervento Enrico Faini ha sintetizzato con efficacia le principali linee interpretative dell’innovativo lavoro di Lorenzo Tabarrini (Tabarrini 2023), consentendomi di essere più breve e di concentrarmi prevalentemente sulla parte di analisi riguardante il territorio lucchese. La mia esperienza di ricerca su Lucca ha riguardato esclusivamente la società urbana, e quindi la lettura del libro è stata per me fondamentale per comprendere tanti aspetti che mi erano risultati piuttosto oscuri e acquisire una prospettiva più ampia e completa.

Come già messo in luce da Faini, Tabarrini individua nel mezzo secolo compreso tra il 1180 e il 1230 una fase di rapida e intensa trasformazione. L’importanza dei decenni a cavallo tra XII e XIII secolo come turning point dell’economia europea è emersa del resto negli ultimi anni come un’acquisizione storiografica sempre più solida (Poloni 2018; Wickham 2023; Carocci, Fiore 2024; Fiore, Poloni 2024, 139-166). Tabarrini sceglie un punto di vista specifico e ben definito, quello dei cambiamenti nelle forme di gestione della terra, e in particolare, per ragioni di disponibilità documentaria, della proprietà ecclesiastica. Sia nel Fiorentino che in Lucchesia risulta evidente un’intensificazione dell’estrazione del surplus da parte dei grandi proprietari, anche se con modalità diverse a seconda delle differenti caratteristiche dei singoli contesti. Si tornerà a breve sulle scelte operate dai proprietari lucchesi. È prima importante sottolineare che quella di concentrarsi su un problema preciso e ben individuato, invece che sul cambiamento economico in generale, è una scelta metodologica consapevole e tutt’altro che scontata. Tabarrini, infatti, non si limita a descrivere il mutamento, ma si interroga sulle cause, e proprio la scelta di porsi una domanda circoscritta gli consente di elaborare un modello di spiegazione complesso ma anche limpido e coerente, di sfuggire cioè al rischio di semplificazione, genericità o “opacità” a cui talvolta si espone chi pretende di trovare un modello esplicativo che tenga insieme troppi fenomeni eterogenei.

Il perno centrale di questa spiegazione è la forte pressione inflazionistica che caratterizzò questi decenni sia nel Fiorentino sia in Lucchesia, che spinse appunto i grandi proprietari, tanto per sfuggire alla perdita di “potere d’acquisto” delle rendite consuetudinarie in denaro, quanto soprattutto per sfruttare con maggior successo le opportunità offerte dall’aumento dei prezzi dei generi alimentari, in particolare sul mercato cittadino, a cercare forme di sfruttamento più efficaci. Le cause dell’inflazione sono certo da ricercare anche nell’aumento della domanda, in particolare urbana, ma l’originalità dell’interpretazione di Tabarrini risiede nel sottolineare l’importanza di un fenomeno fortemente sottovalutato dalla storiografia per questa fase cronologica, l’impennata della spesa pubblica (Tabarrini 2023, 58-62, 126-129). Tale impennata fu dovuta innanzitutto al continuo stato di guerra legato alla crescente conflittualità tra le città ma anche alla faticosa costruzione dei contadi. Devo dire che sono rimasta molto stupita dall’importanza che i contingenti di mercenari avevano già in questo periodo – un aspetto che mi sfuggiva del tutto –, e dal peso che essi già rappresentavano per le finanze comunali.

A questo si aggiunse nelle città considerate il forte investimento economico nella “grande opera” per eccellenza, la costruzione di nuove mura, e le spese connesse al rafforzamento e all’addensamento delle strutture di governo e giudiziarie, processi che caratterizzarono la fase podestarile. L’aumento della pressione fiscale con cui i comuni cercarono di far fronte agli esborsi colpì anche e in particolare i grandi proprietari, che cercarono appunto di “scaricarla” sui coltivatori imponendo canoni più pesanti. Ma soprattutto, i governi di Pisa e Lucca, i cui denari d’argento circolavano anche a Firenze, che ancora non coniava, ricorsero allo svilimento della moneta per rendere i loro debiti più sostenibili, contribuendo notevolmente all’inflazione, anche alimentando una certa sfiducia nei confronti della moneta stessa. In ogni epoca, inoltre, l’aumento della “spesa pubblica” tende a provocare un aumento della domanda, e dunque ad aggravare l’inflazione. Come si vede, quindi, il modello di spiegazione di Tabarrini è originale e convincente perché aggiunge alle considerazioni sull’incremento della domanda, in un periodo di forte crescita demografica e decollo commerciale, fattori su cui la storiografia concorda, una valorizzazione degli aspetti politici e monetari che in genere hanno rivestito un ruolo ingiustamente marginale nell’interpretazione della svolta del tardo XII secolo. Lo studioso mette anche in luce come a queste tendenze di fondo si aggiunse un elemento contingente: la grande carestia che colpì la Toscana nel 1181-82, che provocò una fiammata dei prezzi dei generi alimentari ed ebbe forti conseguenze, anche di lungo periodo, sui prezzi della terra (Tabarrini 2023, 59-60, 126-127, 199). In questo modo, partendo appunto da una domanda precisa e chiaramente formulata, Tabarrini riesce a elaborare una spiegazione multicausale che tiene conto di diversi aspetti strutturali e congiunturali, dando un contributo importante al dibattito sulle cause del cambiamento economico.

Venendo più specificatamente alla Lucchesia, Tabarrini si sofferma in particolare sulle proprietà del capitolo della cattedrale di S. Martino e del monastero di San Ponziano (Tabarrini 2023, 130-174). Un elemento che ritiene centrale è la sostanziale assenza di prestazioni d’opera da parte dei contadini dipendenti, tanto nelle Sei Miglia, dove la signoria territoriale non ebbe possibilità di sviluppo, quanto in aree a maggior radicamento signorile come la Versilia. Questa caratteristica restringeva in un certo senso le opzioni a disposizione dei proprietari che desiderassero rendere economicamente più proficua la gestione delle loro terre. Il caso del monastero di S. Michele di Passignano, nel Fiorentino, dimostra chiaramente che dove i poteri signorili erano pervasivi e le prestazioni d’opera pesanti questo obiettivo era per certi versi più facile da conseguire (Tabarrini 2023, 76-97). Dagli ultimi anni del XII secolo il monastero cominciò a imporre ai suoi contadini la trasformazione delle prestazioni d’opera in canoni fissi in natura, soprattutto in grano, incomparabilmente più gravosi rispetto a quelli che essi versavano in precedenza. In questo processo non incontrò di fatto resistenza, da una parte perché in un contesto di signoria così compatta i coltivatori avevano scarso margine di contrattazione, ma soprattutto perché le corvée erano avvertite come un peso difficile da sostenere e un simbolo particolarmente evidente e umiliante di sottomissione, e quindi la loro eliminazione era comunque vista dai coltivatori come un miglioramento delle loro condizioni, qualunque fosse la contropartita.

Questa possibilità, come si è detto, era preclusa ai proprietari della Lucchesia. A Massarosa e in generale in Versilia i canonici di S. Martino tentarono, con un certo successo, la strada della costruzione di una signoria territoriale relativamente compatta, che consentì loro di poter contare sulle entrate legate all’esercizio delle prerogative signorili a integrazione delle rendite fondiarie. A Massa Macinaia e nelle Sei Miglia non c’erano le condizioni per uno sviluppo signorile di questo tipo, e l’intensificazione dell’estrazione del surplus da parte del capitolo dovette necessariamente passare attraverso una faticosa contrattazione individuale con i contadini, che talvolta trovava resistenze. In quest’area prevalevano nettamente i canoni fissi in natura, in genere in grano, miglio e fave. Il processo di intensificazione si legge prima di tutto nel diffondersi dei contratti a tempo determinato, se non proprio a breve termine, e in un percepibile appesantimento dei canoni, che in alcuni casi poteva tradursi nel prelievo di una quota rilevante della produzione agricola, soprattutto per quanto riguarda il grano, che i canonici immettevano sul mercato cittadino. Tale prelievo sembra talvolta di tale entità da rischiare di creare difficoltà in occasione di cattivi raccolti. In questo caso i coltivatori ricorrevano probabilmente al credito.

Qui si tocca un’altra acquisizione particolarmente interessante del libro, già trattata nell’intervento di Faini, ma sulla quale mi sembra opportuno tornare per la sua rilevanza. L’accesso al credito da parte dei coltivatori è un aspetto sostanzialmente impossibile da studiare con la documentazione a nostra disposizione, con la sola eccezione dei registri del notaio ser Ciabatto, che ci mostrano un ricorso al piccolo credito “di necessità”, per sopravvivere nei momenti critici del ciclo agricolo, prima del nuovo raccolto, e per pagare i canoni in natura (Tabarrini 2023, 203). Queste attestazioni riguardano però un solo creditore, Usacco del fu Simone, un cittadino cliente di ser Ciabatto, e un numero limitato di debitori, coltivatori che vivevano negli immediati dintorni della città. Ma Tabarrini arriva a ipotizzare per la Lucchesia un ampio accesso al credito da parte dei contadini, e lo fa attraverso un ragionamento raffinato sui contratti agricoli, che trovo molto convincente.

Nelle grandi proprietà della Lucchesia i canoni parziari e la “protomezzadria” sembrano sostanzialmente assenti, mentre hanno una relativa diffusione in alcune aree del Fiorentino. Per il tardo medioevo il dibattito teorico sulla mezzadria è stato molto intenso fino a tempi recenti (Cristoferi 2020, Cristoferi 2023, con ampi riferimenti alla bibliografia precedente). Non così per la fase al centro del libro, e in questo senso le limpide pagine di Tabarrini rappresentano un grosso passo avanti (Tabarrini 2023, 202-207). La mezzadria non solo non stimola il coltivatore a produrre di più, ma soprattutto ha alti costi di supervisione, poiché è chiaro che egli potrebbe nascondere una parte del raccolto al proprietario. I canoni fissi non incontrano questi problemi. Il contadino è spinto a lavorare di più, e a impegnarsi a incrementare la produttività della terra, perché una volta pagato quanto dovuto può trattenere per sé tutto il resto. Inoltre, dovendo versare una quantità fissa di prodotto, non ha alcun incentivo a imbrogliare il proprietario, e quindi i costi di supervisione sono quasi assenti. In generale, quindi, i canoni fissi sembrerebbero preferibili per entrambe le parti rispetto a quelli parziari. Tuttavia, come si è accennato, quando il canone fisso era elevato il coltivatore poteva trovarsi in grossa difficoltà in caso di cattivo raccolto o altri rovesci della vita. È qui che l’accesso al credito faceva la differenza, poiché esso consentiva di far fronte a difficoltà momentanee. La mezzadria era invece preferibile quando il contadino non aveva questa possibilità, poiché egli aveva comunque la garanzia di poter contare sulla metà del raccolto, dividendo di fatto la perdita con il proprietario. Il ricorso quasi esclusivo ai canoni fissi, anche gravosi, in Lucchesia è quindi un riflesso della diffusione del credito nel mondo contadino.

Questi sono solo alcuni aspetti del rilevante contributo che il libro porta alla comprensione delle dinamiche economiche che caratterizzarono questa fase di svolta nei due territori. Le considerazioni che seguono non vogliono in alcun modo essere rilievi critici, ma solo ulteriori spunti di riflessione suggeriti proprio dalla limpida analisi di Tabarrini.

Una situazione di indebitamento dei contadini, in particolare nei confronti di cittadini, simile a quella ipotizzata da Tabarrini già per l’inizio del Duecento è stata dimostrata per altri contesti ma per un periodo successivo, ovvero gli ultimi decenni del secolo, ed è stata collegata anche a un deciso appesantimento della fiscalità cittadina (Nobili 2011). A questo punto però diventa inevitabile chiedersi come le famiglie contadine della Lucchesia abbiano affrontato i decenni successivi agli anni Trenta, caratterizzati da un’ulteriore accelerazione della crescita demografica, e dunque della frammentazione della terra, e soprattutto anche qui da una forte intensificazione del prelievo fiscale da parte di una città sempre più incisiva nel suo controllo del territorio. Si può forse pensare a un aumento della produttività della terra, legato anche all’ampia disponibilità di forza lavoro, che consentiva uno sfruttamento intensivo? O a una maggiore propensione dei coltivatori a integrare il proprio reddito vendendo il proprio lavoro, in particolare nei momenti di maggiore richiesta di braccia come in occasione del raccolto, magari sulle proprietà dei cittadini, che si estesero notevolmente nel corso del Duecento? Una cronologia così precoce dell’indebitamento contadino, insomma, pone una serie di problemi che è utile formulare in vista di approfondimenti futuri.

Se il problema dell’accesso al credito ha ampio spazio nella trattazione di Tabarrini, è praticamente assente, per questioni di insufficienza documentaria, quello dell’accesso al mercato. Il tema della commercializzazione ha assunto un rilievo importante a partire dagli anni Novanta del Novecento, anche se gli studi più approfonditi e convincenti riguardano il contesto inglese (Britnell 1993; Masschaele 1997; l’unica ricerca di ampio respiro su un contesto italiano è de La Roncière 2005). La densità e la gerarchia dei mercati rurali mi sembrano un dato interessante per studiare la svolta del 1180-1230. È del tutto convincente che, come ipotizzato da Tabarrini, i grandi proprietari della Lucchesia avessero come riferimento il mercato cittadino. E per quanto riguarda i contadini? Possiamo dare per scontato che quelli delle Sei Miglia gravitassero principalmente anch’essi sul mercato cittadino? E fuori dalle Sei Miglia? In Versilia c’erano centri di mercato signorili? Qual era il ruolo dei mercati rurali, la loro rete tese ad addensarsi significativamente nella fase considerata? Quali erano i più importanti, qual era il loro raggio di attrazione? L’accesso al mercato è ovviamente un incentivo fondamentale per aumentare la produttività (Epstein 2002). Inoltre, la possibilità di vendere le proprie piccole eccedenze – verdure dell’orto, uova, prodotti dell’industria domestica – era per la famiglia contadina un’opportunità importante, forse tanto quanto il credito, per integrare il proprio reddito e superare i momenti di difficoltà (Masschaele 1997). Si può quindi formulare l’ipotesi che dagli ultimi decenni del XII secolo un più facile accesso al mercato, legato, come è stato notato per altre aree, a un addensamento della rete dei mercati rurali (Langdon e Masschaele, 2006), abbia contribuito a rendere sostenibili e quindi applicabili canoni fissi molto più pesanti che nel recente passato. Come si è detto, queste domande sono probabilmente destinate a rimanere senza risposta, dal momento che dobbiamo fare i conti con la documentazione a nostra disposizione. Tuttavia, anche porsi domande destinate a rimanere senza risposta aiuta talvolta ad avere una prospettiva più ampia.

Un’altra questione che mi sembra almeno importante porre è quella dell’allodio contadino. Nella documentazione utilizzata da Tabarrini i piccoli proprietari sono invisibili, ma è evidente che di certo nelle Sei Miglia, e probabilmente anche nel resto della Lucchesia, dovevano rappresentare una presenza importante. In un contesto di facile accesso al credito e al mercato, questi piccoli proprietari, non gravati dal pesante prelievo a cui erano soggetti i contadini dipendenti, dovevano avere una condizione significativamente migliore. Mi chiedo se non ci sia alcun modo di studiarne la fisionomia, e indagare le conseguenze di queste differenze sulla stratificazione sociale nelle campagne. Anche in questo caso, tenere a mente che quella che vediamo è una frazione limitata della popolazione contadina è importante per una valutazione complessiva del cambiamento economico della fine del XII secolo.

Infine, vorrei sollevare un problema che ha più strettamente a che fare con la mia esperienza di ricerca. Nel mio libro pubblicato ormai parecchi anni fa ho proposto per la rivoluzione commerciale di Lucca, fondata sulla produzione e sulla commercializzazione dei tessuti di seta, esattamente la stessa cronologia che è al centro del libro di Tabarrini (Poloni 2009). Il vero e proprio decollo della manifattura cittadina e della presenza dei lucchesi sui mercati internazionali si colloca cioè a mio parere proprio nei decenni compresi tra il 1180 e il 1230 (Poloni 2009, 21-60). È infatti in quella fase che cambiò significativamente la scala dell’impegno economico degli operatori lucchesi, e si innescò quello che gli economisti chiamano un ciclo di self-sustained growth. Anch’io, come, mi sembra, Tabarrini, penso che i processi che egli indaga per le campagne non abbiano connessioni dirette con il decollo del commercio internazionale. E tuttavia, se accettiamo le due proposte interpretative, di Tabarrini e mia, la totale coincidenza cronologica è un dato che non può essere semplicemente ignorato, e sul quale ci sono forse ancora margini di riflessione.

Io, ammetto, non ho risposte a questo proposito. Osservo però che la lettura del libro mi ha confermato nell’idea che il decollo industriale e commerciale non presupponga necessariamente, come alcuni modelli economici postulano, un precedente forte aumento della produttività agricola, poiché in effetti in Lucchesia i due fenomeni sembrano contemporanei. Quello che è abbastanza certo è che i capitali impiegati nel commercio e nell’industria non venivano dalle campagne: i protagonisti della rivoluzione commerciale non furono i grandi proprietari fondiari, ma in gran parte “uomini nuovi” senza consistenti basi economiche. D’altra parte, l’ingresso nel mondo della manifattura e del commercio non implicava in questa fase investimenti iniziali particolarmente consistenti, e gli operatori aumentavano le proprie disponibilità unendosi tra loro attraverso rapporti societari. Se il credito era diffuso nelle campagne, inoltre, era pervasivo in città. In questa fase “pioneristica” la commercializzazione di un prodotto come i tessuti di seta, che di fatto non aveva concorrenti in Europa, doveva essere molto redditizia, e consentire accumulazioni di capitale piuttosto rapide.

Tuttavia, è impensabile che questo cambiamento, e in particolare il decollo industriale, non abbia contribuito in maniera piuttosto importante alla spinta inflazionistica. Esso aumentò di certo la domanda di denaro e di credito per gli investimenti, ma ebbe sicuramente un impatto anche sulla domanda di beni. La rivoluzione commerciale innescò importanti processi di mobilità economica e sociale, che interessarono probabilmente un gruppo di operatori piuttosto consistente, anche considerando che Lucca non era una città di grandi dimensioni (Poloni 2009, 46-55). Questi uomini, che in molti casi in questa stessa fase ebbero anche accesso alle cariche politiche, di certo videro considerevolmente aumentare la propria capacità di spesa. Tutto ciò deve avere avuto conseguenze, oltre che sul prezzo dei beni, anche su quello della terra, perché è assai probabile che questi mercanti in ascesa, come avveniva in altri contesti come quello fiorentino, abbiano investito anche in acquisti fondiari, in particolare nelle aree più prossime alla città. Dunque, se consideriamo la pressione inflazionistica come un fattore importante per spiegare i cambiamenti dei decenni a cavallo tra fine XII e inizio XIII secolo, mi pare che sia opportuno valutare anche questi aspetti.

C’è anche un altro elemento che merita una riflessione. Il decollo duecentesco di Firenze è legato in buona parte all’intermediazione commerciale, e in particolare all’import-export dei panni fiamminghi e francesi (Poloni 2018); solo in seguito, e in particolare nel Trecento, la città divenne una potenza industriale (Hoshino 1980). Quello di Lucca fu invece da subito un boom industriale: gli operatori lucchesi fin da questa fase precoce si specializzarono nell’esportazione dei drappi di seta prodotti in città. Bisogna sottolineare un aspetto al quale la storiografia non ha forse riservato la necessaria attenzione. Nel Duecento Lucca è particolarmente impegnata nella produzione di zendadi, che non sono davvero considerabili come beni di lusso (Poloni 2017); si tratta in pratica dei tessuti di seta più semplici, destinati a una molteplicità di usi, per l’abbigliamento certo, ma anche per la realizzazione di fodere per bauli e cassapanche, di veli e copricapi, di borse, di bandiere e gonfaloni, ecc. Soltanto dalla seconda metà del Trecento i lucchesi passarono alla produzione di tessuti di lusso, i pesanti broccati, velluti e drappi auroserici che valevano una fortuna (Poloni 2017). Dalla fine del Duecento, periodo di cui abbiamo dati più consistenti, vediamo che gli zendadi erano lavorati ed esportati in quantità davvero rilevanti; si trattava, in effetti, di una produzione piuttosto standardizzata (Poloni 2009, 87-110). La manifattura della seta non assorbiva tanta manodopera, in particolare salariata, quanto quella laniera, ma resta il fatto che tutta quella seta qualcuno la doveva pur lavorare, filare, tessere, tingere, rifinire.

Ecco perché le conclusioni degli studiosi, che ipotizzano per Lucca una popolazione di appena 7.700-10.000 abitanti, non mi convincono molto per il Duecento. In effetti la prima fonte attendibile è l’estimo del 1331-32, che però fu realizzato in un momento di forte crisi politica, dopo massicci fenomeni di emigrazione delle maestranze della seta, e all’inizio di un interessantissimo processo di delocalizzazione che portò i lucchesi a produrre tessuti di seta a Venezia e a Bologna (Molà 1994; Tognetti 2014). Insomma, la struttura produttiva della città a mio parere induce a ipotizzare per i primi decenni del XIII secolo fenomeni di inurbamento e dinamiche demografiche più vivaci di quelli messi in luce per il Trecento. Tutto ciò deve a sua volta avere avuto un’influenza sulla domanda urbana, in particolare di generi alimentari, e dunque di nuovo sull’inflazione e sulla spinta all’aumento della produttività e all’intensificazione del prelievo del surplus da parte dei grandi proprietari.

Si tratta, come si vede, di riflessioni un po’ a ruota libera, non di considerazioni strutturate e coerenti; spero tuttavia che siano servite a dimostrare quanto è stata stimolante per me la lettura del libro di Tabarrini. Un libro il cui merito, a mio parere di grande importanza, è anche consentire di porsi domande nuove, un presupposto fondamentale per cercare risposte nuove.


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