Vi sono dei libri il cui titolo depista il lettore. È questo il caso del volume di Umberto Roberto: mediante la descrizione puntuale e rigorosa dei saccheggi cui andò incontro Roma nel corso del V secolo (410 per mano dei Visigoti, 455 ad opera dei Vandali, 472 dalle milizie guidate da Ricimero) si apre davanti a noi il lungo e accidentato tragitto finale dell’Impero romano, un filone di studi nel quale le più influenti voci della storiografia si sono cimentate – citiamo solo Santo Mazzarino e Arnaldo Momigliano – alla ricerca del bandolo di un’età troppo a lungo vista sotto la lente di una continua e ineluttabile decadenza. Il filo conduttore del volume è duplice: dal piano fattuale, l’autore si sposta costantemente su quello simbolico-immaginario, nell’intento di evidenziare una storia pluridimensionale, tesa a ricostruire non solo gli eventi ma anche «le visioni dei contemporanei, la loro mentalità, i loro sentimenti, la loro inquieta percezione di un mondo che si trasformava a ritmo accelerato» (p. 255). Quindi, mentre dal punto di vista événementielle la presa di Roma può essere definita «marginale» (p. 101), da quello simbolico essa rappresentò invece il segnale della fine di un mondo millenario basato sull’egemonia e il dominio universale dell’Urbs («La città che ha conquistato tutto il mondo è presa» avrebbe detto in maniera sconsolata san Gerolamo in una celebre lettera dai toni enfatici: p. 102).
Vista la difficoltà di sintetizzare un turbinare di eventi non sempre facili da seguire (l’ultimo capitolo delinea gli eventi che portarono al sacco lanzichenecco del 1527) per l’accavallarsi di protagonisti, scontri, mutamenti di strategie politiche, ci preme sottolineare la cifra interpretativa che maggiormente balza all’occhio, cioè la capacità dell’autore di rendere conto del mondo romano, della sua aristocrazia, dei suoi usi e tradizioni, ma di conferire al contempo analoga attenzione ai principali esponenti del mondo barbarico che, profondamente legati all’Impero, segnarono le vicende di Roma tardoantica. Si tratta di una realtà che l’autore icasticamente – e a buon ragione - rappresenta come «un grande mosaico di culture» (p. 39), in cui i gruppi pagani e cristiani non esauriscono la ricchezza di un mondo in costante mutamento, che solo all’indomani della guerra greco-gotica avrebbe visto la piena affermazione della Roma cristiana (p. 224). Balzano in primo piano allora guerrieri barbari come Alarico che non è «un barbaro rozzo, estraneo alla società romana e lontano dai suoi valori» (p. 61), anzi dimostra essere «un abile politico che media tra l’impero e si suoi Goti» (p. 79); oppure Ricimero il quale, «come tutti gli aristocratici barbarici a, servizio dei Romani tra IV e V secolo, (…) era soprattutto un mediatore» (p. 175), senza dimenticare l’abile politica che Ezio orchestra sapientemente «secondo la più antica tradizione romana» (p. 136). In questi giudizi sta la complessità di un mondo come quello tardoantico, troppo spesso ridotto all’analisi di due fattori ritenuti esaustivi per la sua caratterizzazione: la caduta dell’Impero romano (relativamente alla pars Occidentis), e l’affermazione del Cristianesimo come religione egemone. Ridotti a questa chiave di lettura, tutti i fenomeni di acculturazione, ibridazione, sperimentazione di soluzioni di fronte a nuove sfide, appaiono poco significativi, o peggio, espedienti temporanei partoriti da un mondo in perenne crisi (e dunque destinati a fallire!). Se è vero che «Roma all’inizio del V secolo era bellissima» (p. 24), il libro di Umberto Roberto contribuisce a trasmettere luci e ombre di un mondo complesso, articolato, duro, violento (i morti e le drammatiche violenze non possono né devono essere cancellate nonostante i secoli trascorsi). Soprattutto, si trattava di un mondo che condivideva molte delle fragilità dell’età augustea (p. 21) e che, fino alla fine, cercò in tutti i modi di salvare l’eredità millenaria di Roma destinata comunque a perpetuarsi – in forme e modi mutati – nell’età medievale. Una notazione conclusiva al progetto editoriale: una più attenta collocazione delle cartine avrebbe permesso una fruizione migliore del ricco apparato cartografico. Strette dalla rilegatura del volume, queste non risultano sempre funzionali al loro scopo illustrativo.